
Il fondatore del Pds: «Cambiare nome al Pd? Velleitario. Trent'anni dopo siamo da capo: prima viene la Cosa, poi la definizione. Il Front national ha capito che c'è una crisi di sovranità in Europa, anche se poi sbaglia pensando al ritorno degli Stati nazione».Onorevole Achille Occhetto, le sono fischiate le orecchie? «No, perché?».Ha visto che all'improvviso si torna a evocare la sua Svolta? (Senza entusiasmo) «Ho sentito». Nel Pd si è aperto un dibattito sul campo del nome. Questo la interessa? «Confesso che sono stato molto impegnato nella stesura di un libro che uscirà a ottobre... Ma devo anche dire che non mi è sembrato un dibattito molto profondo». La vicepresidente dell'Emilia Romagna, Elisabetta Gualmini ha detto: «La crisi del Pd è tale che occorre cambiare nome e fare una nuova Bolognina»...«Ho letto, ho letto». Mentre Marco Minniti dice: «Il nome non va cambiato, io di Bolognina ne ho già fatta una». «Non mi fraintenda: la Gualmini è una persona degnissima. Solo che la Bolognina è stato un dramma di proporzioni storiche epocali. In questo botta e risposta ci sono tutti i limiti di un dibattito interessante ma di superficie». Quali? «Premessa. Come lei può immaginare non ho preclusioni verso chi propone cambi di nome».Però? «Limitarsi a questo, ad annunciare palingenesi onomastiche senza preoccuparsi del contenuto, mi pare riduttivo». Il nome non basta? «Francamente dire: cambiamo nome e ricominciamo da capo mi pare velleitario». Anche lei iniziò dal nome.«Ma esattamente come 30 anni fa mi ritrovo a ripetere: prima viene la cosa, e poi il nome. E la cosa deve essere tutta nuova, perché la sinistra sta soccombendo di fronte alla sfida dei populismi». Achille Occhetto non è diventato un padre della patria, e forse non è neanche interessato a esserlo. A marzo ha compiuto 82 anni, i baffi e il pizzo brizzolati sono diventati bianchi e risorgimentali, le occhiaie che facevano impazzire Forattini si sono incavate nella trama delle rughe, ma Occhetto si è tirato fuori dalla scena. Non ha più una casa politica, non ha la tessera del Pd e dice di voler guardare a un campo più ampio per contribuire alla costituzione di una nuova alleanza». Il suo nuovo libro uscirà per Sellerio: è un saggio sulla crisi della sinistra? «Ho iniziato a scriverlo un anno e mezzo fa. La mia riflessione è partita dalla crisi del comunismo e poi si è allargata alla crisi delle sinistre europee». Perché la sinistra perde? «In primo luogo perché si è rifugiata, in questo anno, sotto le bandiere del neoliberismo e dell'austerità». Come si intitolerà il suo libro? «Le radici del crollo. La sinistra tra eclissi e risveglio». Non sembra molto ottimista: eclissi vuol dire scomparsa, risveglio presuppone un letargo. «Metto i piedi nel piatto per provare a capire da dove possiamo ripartire. In Italia come in Europa i populismi hanno prosciugato il consenso dei partiti progressisti». È una sintesi pessimistica? «C'è un'affermazione importante: io scrivo che la sinistra è un'araba fenice che può rinascere dalle proprie spoglie solo se ha la consapevolezza di essere arrivata allo stato di cenere». Le ceneri sono uno degli stadi di un processo funerario. «Rispetto a tanti dirigenti delle diverse sinistre di oggi credo che si debba partire da una constatazione drastica». Quale? «Dopo quello che è accaduto con le ultime politiche non si possono mettere insieme dei cocci o discutere amabilmente come se si trattasse di una normale sconfitta». Non è così? «Ripeto: siamo di fronte a un processo epocale. Vede, i movimenti populisti dicono cose anche giuste, e danno risposte, anche se io le considero sbagliate. La domanda è: perché la sinistra non riesce più a dare risposte?». Me lo dica lei.«Perché continua a combattere mettendosi sugli spalti del neoliberismo, pensando che ci sia ancora un castello da poter ammodernare e difendere dai barbari». E lei pensa non ci sia più? «Gli uomini del centrosinistra non hanno capito che quella politica era in profondissima crisi. Ha ragione la Le Pen...». Lei dice che la Le Pen ha ragione? Mamma mia. «Ha ragione quando dice che c'è una crisi di sovranità in Europa, sì. Ma ha torto, secondo me, quando dice che si può ritrovare dentro i vecchi confini degli Stati nazione. Mentre io credo che la prospettiva possa essere solo europea e sovranazionale, altrimenti si viene schiacciati dalla crisi». Dove inizia la sconfitta?«Si è creduto che il terremoto del 2007 fosse solo una bolla finanziaria. Invece era la fine di un mondo». E poi? «Si è pensato che la cura fosse l'austerità. Un rimedio che ha aggravato la malattia». In Italia o in Europa? «Ovunque: la sinistra italiana è un aspetto della crisi generale. Siamo alle elezioni in Svezia, patria della socialdemocrazia e la destra populista avanza anche lì». Perché? «Perché nel 1989 è crollato il comunismo a Mosca ma anche la socialdemocrazia riformista, persino nella sua culla di Stoccolma. Tutti i parametri del Novecento si sono azzerati. Tutte le forze moderate e non sono state travolte». Avverto che la sua analisi è rigorosa ma quasi disperata. «Questa è la pars destruens. Credo che, tra tutte le diverse forze progressiste, vada creata una grande alleanza riformatrice transnazionale».Come vede la Lega di Matteo Salvini che vince nelle città operaie?«È parte di un fenomeno mondiale: Donald Trump ha vinto a Detroit e negli Stati della ruggine con il voto degli operai. Per questo una crisi di queste proporzioni non si può affrontare con partiti nazionali». Spera in una resurrezione del Pd?«Guardo alla rinascita della sinistra - dentro cui c'è sicuramente il Pd - ma non solo al destino di un partito». Il Pd da solo non basta? «Non sono per il partito unico a vocazione maggioritaria. Bisogna fare una distinzione tra partito e coalizione». Quindi questo nuovo soggetto potrebbe anche cambiare nome? «Il cambio del nome non può essere un tabù. Ma per tutto quello che abbiamo detto, nomina sunt consequentia rerum. Il nome deve essere conseguenza di un cambiamento radicale che adesso non si è ancora prodotto. Se avvenisse un cambio di nome senza un processo saremmo di fronte a un ennesimo maquillage. In questi anni abbiamo visto solo fenomeni di cosmesi politica». Cosa pensa di Luigi Di Maio? «I 5 stelle sono un fenomeno più complesso. Sono nati da un impulso di sinistra, ma la scelta di governare con la destra ha aperto equivoci sulla loro identità: vedo pulsioni di sinistra sul terreno sociale e vocazioni populiste sul terreno delle rivendicazioni politiche». Il Pd poteva dialogare con il M5s? «Doveva farlo. L'errore è stato interrompere un processo dall'alto come ha fatto Renzi. Bisognava andare a vedere, anche sapendo che poteva essere un fallimento». Se dovesse dare un consiglio al Pd? «Il problema del Pd è superare il suo difetto di fabbrica. La sua nascita è stata una fusione a freddo tra apparati». E il dibattito di oggi? «Vedo vecchi signori della guerra che si muovono tra apparati». Per ora c'è un unico candidato, Nicola Zingaretti. «È un uomo capace. L'ho visto all'opera all'Europarlamento. Bisogna vedere quale proposta politica metterà in campo». Anche il suo possibile avversario viene dal Pci, come lei. «Minniti? Ha una grande capacità decisionale, è stato un ottimo ministro. Ma lo vedo più come presidente del Consiglio che come segretario di partito». E il renzismo? Cosa è stato, visto dalla sua prospettiva? «Pensi, facendo l'indice dei nomi mi sono accorto che non nomino mai Renzi nel mio libro. Però ovviamente parlo spesso del fenomeno senza chiamarlo così». E cosa è stato secondo lei? «È stato una manifestazione ante litteram del macronismo. Un tentativo di risposta al populismo sul suo terreno. Mi sembrano entrambi riusciti nella distruzione e falliti nella costruzione». Ma può vincere ancora Renzi?«No, io sono convinto che non possa tornare. È stato un exploit che partiva da una volontà di cambiamento. Ma si è ridotto a essere un'opa sulla sinistra. Una scalata di potere». Lei oggi si sente parte di un movimento, di un groppo? «Ho scritto questo libro in modo solitario. Lo invierò a molti interlocutori politici che penso siano interessati». A quasi 30 anni dalla Bolognina si sente uno sconfitto o un vincitore?«Non sono un vincitore. Ma non mi sento nemmeno uno sconfitto, perché i temi che noi sollevammo allora sono riapparsi tutti». E come si considera, allora? «Un precursore. Convinto di aver seminato anche qualcosa di importante». Cosa? «Dove la svolta della Bolognina non si è fatta il comunismo è finito nel ridicolo». A che si riferisce? «Se si esclude la Corea, l'Italia è l'unico Paese al mondo dove - grazie a quella rottura - gli ex comunisti sono diventati forza di governo. Non mi sembra poco».
Seconda parte dell'intervista a Barbara Agosti, chef di Eggs, la regina delle uova che prepara in ogni modo con immensa creatività.
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Svolta improvvisa nella vicenda della «famiglia del bosco», i coniugi Catherine Birmingham e Nathan Trevallion che vivevano in un casolare in un bosco nel Comune di Palmoli, in Provincia di Chieti, ai quali il Tribunale dei minori dell’Aquila ha tolto i figli, trasferendoli insieme alla madre in una casa famiglia.
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