
Se è vero che la panarda è una maratona golosa legata a tradizioni calendarizzate principalmente la vigilia della festa di Sant’Antonio abate ,è anche vero che poi è stata declinata, con motivazioni diverse, anche in altre stagioni. Al di là di potervi partecipare o meno per i non residenti, resta il fatto che la panarda sia divenuta una sorta di «manifesto» delle svariate eccellenze abruzzesi, quelle che, più di altre, sono legate ai prodotti locali e relative tradizioni.
È questa la chiave di lettura, ad esempio, che introduce scampetti e ceci. I pescatori al rientro in famiglia, dopo aver venduto le pinne più pregiate ai commercianti del posto, vedevano i piccoli crostacei abbinati ai prodotti dell’orto dietro casa. Altra tradizione sono le vongole «fujute, cioè fuggite. Se la rete da pesca era rimasta a secco, si mettevano in pentola i sassi della scogliera per dare, comunque, un sapore di mare alle varie zuppe vegetali. Tipica di Pizzoferrato è la simbra che, tradotta nella lingua di Dante, recita polenta. Una versione arcaica legata a quanto si trovava in dispensa, quindi lardo, pecorino, ma con il tocco in più derivato dall’aggiunta di frutta secca, uva o albicocche passite. Ad Ateleta con la marcia in più delle lecine, ovvero le prugne secche, di cui il territorio è generoso. Una volta passata al forno e ricoperta di pecorino grattugiato, questa simbra lecina viene tagliata a rombi e servita a lato di carni stufate o ripassate alla griglia. C’è anche chi, dopo averla sfornata, la ricopre di zucchero dandole una rilettura da dolce finale.
Divertente l’aneddoto che accompagna la zuppa di Esaù, così ribattezzata per la versione panarda. Nella realtà è una zuppa di fagioli e lenticchie. L’attribuzione millenaria al fatto che Esaù, abile cacciatore, barattò la primogenitura con il gemello Giacobbe (uno dei padri nobili del popolo ebraico) in cambio di un piatto di lenticchie. Più prosaicamente, in epoca medioevale le lenticchie venivano consigliate dai padri superiori ai giovani fraticelli dei conventi per sedare i potenziali bollenti spiriti.
La costa pescarese era, per certi versi, la capitale sudista del capitone, chiamato anguilla tra gli acquitrini del Po, a Comacchio. Veniva pescato dopo un po’ che, dagli Appennini era arrivato lungo le vie fluviali all’Adriatico, così che l’acqua salina ne rendeva le carni più tenere e saporite. La sua lontananza causa profonde nostalgie a chi non la gusta da tempo, come Gabriele D’Annunzio che, dal suo soggiorno parigino, così scrisse a un amico: «Ho voglia di lauro e capitone, mi sono stancato di ostriche e sardine». Proseguendo di marina, ecco gli spaghetti con le paparazze, ovvero le vongole locali, tipiche dei fondali abruzzesi. Più piccole delle ben note cugine veraci ma, a differenza di queste, frutto solo di pesca paziente, niente allevamento.
Lungo le coste abruzzesi, sin giù a quelle molisane e pugliesi, immancabile lo skyline dei trabucchi, sorta di palafitte del mare, costruite con legno resistente alla salsedine, ingegnose strutture per procedere alla pesca in maniera stanziale. Candidate a Patrimonio dell’umanità per l’Unesco. Un’architettura tanto rustica quanto complessa, che solo il tratto di D’Annunzio poteva descrivere al meglio: «È una strana macchina da pesca, tutta composta da tavole e travi, simile ad un ragno colossale». Vedere per credere. Riconvertiti dalla modernità in piacevoli luoghi di sosta golosa, permettono di godere il meglio della tradizione locale, come ad esempio la pizza con li cascine e alici, ovvero una sorta di morbida focaccia di mais (randigne) arricchita di verdure dell’orto (cascigne) e peperone. Il tocco finale è l’aggiunta di alici fritte. In molti conoscono gli spaghetti alla chitarra, ma pochi sanno che devono la loro origine al rintrocilo, una sorta di mattarello di origine rinascimentale, con scanalature profonde per incidere le falde di pasta tanto che «passato sulla sfoglia lascia i solchi come le ruote dei carri sulla strada».
Pasta servita poi in ideale abbinamento con ragù di pecora o agnello oppure, se siete a tiro di trabucchi, di sugo di pelosi, i granchi di scoglio. Il nome sta a indicare un particolare strumento di legno, preferibilmente faggio, entro il quale erano tesi fili di acciaio paralleli sui quali stendere le sfoglie e tirarle poi con il mattarello. A seconda di come venivano disposte le sue corde, tale chitarra pastaiola poteva produrre armonie, pardon, formati diversi, come ad esempio i più larghi maccheroni.
Ancora una volta stimola la salivazione curiosa l’intrigante prosa d’annunziana: «La chitarra è una specie di arpa cuciniera che si suona con le mani. È monocorde perché le note sono di eguale tono e vibrano facendo cadere, tra corda e corda, quel caratteristico tipo di pasta ben conosciuta da chi apprezza questo ramo della musica applicata alla gastronomia». Le papille saranno armonizzate al meglio pappandosi il tutto abbinato a pallottine (polpette) di agnello miste a pecorino e uova, poi fritte e messe a pipare nel sugo di pomodoro.
Nelle panarde classiche vi erano necessari intermezzi per permettere alla cilindrata gastrica di ritrovare il dovuto equilibrio. Oltre a canti e balli degli artisti locali, dava soccorso ai palati esausti il rosolio della Maiella: un infuso a base di giuggiolo, miele di pino, prugne secche, foglie di malva e mentuccia. Riprese le forze, si affrontava di nuovo la sfida sotto gli occhi vigili del guardiano di panarda. In pochi, invece, hanno memoria degli spaghetti ai quattro centesimi. Una definizione che la dice lunga su come, un tempo, la cucina di famiglia doveva fare i conti, anche in senso letterale, con la realtà quotidiana.
In realtà sono un piacevole piatto estivo con il meglio di stagione: melanzane, pomodoro, aglio e basilico ben amalgamato dall’olio locale. Un’altra variante nella logica del «non si butta mai via niente» sono le ciaudelle, una sorta di zuppa di pane. Si faceva rinvenire il pane raffermo in acqua, poi lo si strizzava bene e posto in una ciotola arricchito di olio generoso con contorno amalgamato via via con pomodoro, sedano, basilico e peperoncino. Ideale in estate.
Curiosa la storia delle scrippelle teramane, un impasto di acqua, farina e uova. Sono le cugine abruzzesi delle più note crepes francesi. Anche qui non sono mancate le immancabili rivendicazioni di primogenitura. Secondo alcuni si tratta di una tradizione arrivata sulla costiera adriatica dalle truppe d’Oltralpe. Secondo altri, una tradizione locale prontamente fatta propria dai cugini francesi quando il Teramano divenne terra di conquista di Napoleone. Rimane una differenza di fondo. Mentre le crepes hanno una declinazione dolce, le scrippelle si presentano in versione salata, alternative alla più tradizionale pasta. ‘Mbusse, ovvero bagnate immerse in un brodo di pollo e tacchino, generosamente irrorate di pecorino d’Abruzzo e da qui avvolte e servite al piatto. Ma ci stanno anche a timballo, sostitute della tradizionale pasta sfoglia, alternate a stati con i relativi ingredienti come passate in forno, farcite e golosa alternativa ai classici cannelloni.
Una cucina abruzzese, quindi, che, grazie alla sua ambasciatrice panarda, è fonte di ulteriore scoperte golose e curiose.






