2024-08-17
Capitone e spaghetti alla chitarra: il Vate fa scoprire l’Abruzzo
D’Annunzio celebra più volte le bellezze culinarie (e culturali) della regione. Che contende a Parigi l’invenzione delle crepes.Se è vero che la panarda è una maratona golosa legata a tradizioni calendarizzate principalmente la vigilia della festa di Sant’Antonio abate ,è anche vero che poi è stata declinata, con motivazioni diverse, anche in altre stagioni. Al di là di potervi partecipare o meno per i non residenti, resta il fatto che la panarda sia divenuta una sorta di «manifesto» delle svariate eccellenze abruzzesi, quelle che, più di altre, sono legate ai prodotti locali e relative tradizioni.È questa la chiave di lettura, ad esempio, che introduce scampetti e ceci. I pescatori al rientro in famiglia, dopo aver venduto le pinne più pregiate ai commercianti del posto, vedevano i piccoli crostacei abbinati ai prodotti dell’orto dietro casa. Altra tradizione sono le vongole «fujute, cioè fuggite. Se la rete da pesca era rimasta a secco, si mettevano in pentola i sassi della scogliera per dare, comunque, un sapore di mare alle varie zuppe vegetali. Tipica di Pizzoferrato è la simbra che, tradotta nella lingua di Dante, recita polenta. Una versione arcaica legata a quanto si trovava in dispensa, quindi lardo, pecorino, ma con il tocco in più derivato dall’aggiunta di frutta secca, uva o albicocche passite. Ad Ateleta con la marcia in più delle lecine, ovvero le prugne secche, di cui il territorio è generoso. Una volta passata al forno e ricoperta di pecorino grattugiato, questa simbra lecina viene tagliata a rombi e servita a lato di carni stufate o ripassate alla griglia. C’è anche chi, dopo averla sfornata, la ricopre di zucchero dandole una rilettura da dolce finale.Divertente l’aneddoto che accompagna la zuppa di Esaù, così ribattezzata per la versione panarda. Nella realtà è una zuppa di fagioli e lenticchie. L’attribuzione millenaria al fatto che Esaù, abile cacciatore, barattò la primogenitura con il gemello Giacobbe (uno dei padri nobili del popolo ebraico) in cambio di un piatto di lenticchie. Più prosaicamente, in epoca medioevale le lenticchie venivano consigliate dai padri superiori ai giovani fraticelli dei conventi per sedare i potenziali bollenti spiriti.La costa pescarese era, per certi versi, la capitale sudista del capitone, chiamato anguilla tra gli acquitrini del Po, a Comacchio. Veniva pescato dopo un po’ che, dagli Appennini era arrivato lungo le vie fluviali all’Adriatico, così che l’acqua salina ne rendeva le carni più tenere e saporite. La sua lontananza causa profonde nostalgie a chi non la gusta da tempo, come Gabriele D’Annunzio che, dal suo soggiorno parigino, così scrisse a un amico: «Ho voglia di lauro e capitone, mi sono stancato di ostriche e sardine». Proseguendo di marina, ecco gli spaghetti con le paparazze, ovvero le vongole locali, tipiche dei fondali abruzzesi. Più piccole delle ben note cugine veraci ma, a differenza di queste, frutto solo di pesca paziente, niente allevamento.Lungo le coste abruzzesi, sin giù a quelle molisane e pugliesi, immancabile lo skyline dei trabucchi, sorta di palafitte del mare, costruite con legno resistente alla salsedine, ingegnose strutture per procedere alla pesca in maniera stanziale. Candidate a Patrimonio dell’umanità per l’Unesco. Un’architettura tanto rustica quanto complessa, che solo il tratto di D’Annunzio poteva descrivere al meglio: «È una strana macchina da pesca, tutta composta da tavole e travi, simile ad un ragno colossale». Vedere per credere. Riconvertiti dalla modernità in piacevoli luoghi di sosta golosa, permettono di godere il meglio della tradizione locale, come ad esempio la pizza con li cascine e alici, ovvero una sorta di morbida focaccia di mais (randigne) arricchita di verdure dell’orto (cascigne) e peperone. Il tocco finale è l’aggiunta di alici fritte. In molti conoscono gli spaghetti alla chitarra, ma pochi sanno che devono la loro origine al rintrocilo, una sorta di mattarello di origine rinascimentale, con scanalature profonde per incidere le falde di pasta tanto che «passato sulla sfoglia lascia i solchi come le ruote dei carri sulla strada». Pasta servita poi in ideale abbinamento con ragù di pecora o agnello oppure, se siete a tiro di trabucchi, di sugo di pelosi, i granchi di scoglio. Il nome sta a indicare un particolare strumento di legno, preferibilmente faggio, entro il quale erano tesi fili di acciaio paralleli sui quali stendere le sfoglie e tirarle poi con il mattarello. A seconda di come venivano disposte le sue corde, tale chitarra pastaiola poteva produrre armonie, pardon, formati diversi, come ad esempio i più larghi maccheroni.Ancora una volta stimola la salivazione curiosa l’intrigante prosa d’annunziana: «La chitarra è una specie di arpa cuciniera che si suona con le mani. È monocorde perché le note sono di eguale tono e vibrano facendo cadere, tra corda e corda, quel caratteristico tipo di pasta ben conosciuta da chi apprezza questo ramo della musica applicata alla gastronomia». Le papille saranno armonizzate al meglio pappandosi il tutto abbinato a pallottine (polpette) di agnello miste a pecorino e uova, poi fritte e messe a pipare nel sugo di pomodoro.Nelle panarde classiche vi erano necessari intermezzi per permettere alla cilindrata gastrica di ritrovare il dovuto equilibrio. Oltre a canti e balli degli artisti locali, dava soccorso ai palati esausti il rosolio della Maiella: un infuso a base di giuggiolo, miele di pino, prugne secche, foglie di malva e mentuccia. Riprese le forze, si affrontava di nuovo la sfida sotto gli occhi vigili del guardiano di panarda. In pochi, invece, hanno memoria degli spaghetti ai quattro centesimi. Una definizione che la dice lunga su come, un tempo, la cucina di famiglia doveva fare i conti, anche in senso letterale, con la realtà quotidiana.In realtà sono un piacevole piatto estivo con il meglio di stagione: melanzane, pomodoro, aglio e basilico ben amalgamato dall’olio locale. Un’altra variante nella logica del «non si butta mai via niente» sono le ciaudelle, una sorta di zuppa di pane. Si faceva rinvenire il pane raffermo in acqua, poi lo si strizzava bene e posto in una ciotola arricchito di olio generoso con contorno amalgamato via via con pomodoro, sedano, basilico e peperoncino. Ideale in estate.Curiosa la storia delle scrippelle teramane, un impasto di acqua, farina e uova. Sono le cugine abruzzesi delle più note crepes francesi. Anche qui non sono mancate le immancabili rivendicazioni di primogenitura. Secondo alcuni si tratta di una tradizione arrivata sulla costiera adriatica dalle truppe d’Oltralpe. Secondo altri, una tradizione locale prontamente fatta propria dai cugini francesi quando il Teramano divenne terra di conquista di Napoleone. Rimane una differenza di fondo. Mentre le crepes hanno una declinazione dolce, le scrippelle si presentano in versione salata, alternative alla più tradizionale pasta. ‘Mbusse, ovvero bagnate immerse in un brodo di pollo e tacchino, generosamente irrorate di pecorino d’Abruzzo e da qui avvolte e servite al piatto. Ma ci stanno anche a timballo, sostitute della tradizionale pasta sfoglia, alternate a stati con i relativi ingredienti come passate in forno, farcite e golosa alternativa ai classici cannelloni.Una cucina abruzzese, quindi, che, grazie alla sua ambasciatrice panarda, è fonte di ulteriore scoperte golose e curiose.
(Guardia di Finanza)
I Comandi Provinciali della Guardia di finanza e dell’Arma dei Carabinieri di Torino hanno sviluppato, con il coordinamento della Procura della Repubblica, una vasta e articolata operazione congiunta, chiamata «Chain smoking», nel settore del contrasto al contrabbando dei tabacchi lavorati e della contraffazione, della riduzione in schiavitù, della tratta di persone e dell’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Le sinergie operative hanno consentito al Nucleo di polizia economico-finanziaria Torino e alla Compagnia Carabinieri di Venaria Reale di individuare sul territorio della città di Torino ed hinterland 5 opifici nascosti, dediti alla produzione illegale di sigarette, e 2 depositi per lo stoccaggio del materiale illecito.
La grande capacità produttiva degli stabilimenti clandestini è dimostrata dai quantitativi di materiali di contrabbando rinvenuti e sottoposti a sequestro: nel complesso più di 230 tonnellate di tabacco lavorato di provenienza extra Ue e circa 22 tonnellate di sigarette, in gran parte già confezionate in pacchetti con i marchi contraffatti di noti brand del settore.
In particolare, i siti produttivi (completi di linee con costosi macchinari, apparati e strumenti tecnologici) e i depositi sequestrati sono stati localizzati nell’area settentrionale del territorio del capoluogo piemontese, nei quartieri di Madonna di Campagna, Barca e Rebaudengo, olre che nei comuni di Caselle Torinese e Venaria Reale.
I siti erano mimetizzati in aree industriali per dissimulare una normale attività d’impresa, ma con l’adozione di molti accorgimenti per svolgere nel massimo riserbo l’illecita produzione di sigarette che avveniva al loro interno.
I militari hanno rilevato la presenza di sofisticate linee produttive, perfettamente funzionanti, con processi automatizzati ad alta velocità per l’assemblaggio delle sigarette e il confezionamento finale dei pacchetti, partendo dal tabacco trinciato e dal materiale accessorio necessario (filtri, cartine, cartoncini per il packaging, ecc.), anch’esso riportante il marchio contraffatto di noti produttori internazionali autorizzati e presente in grandissime quantità presso i siti (sono stati infatti rinvenuti circa 538 milioni di componenti per la realizzazione e il confezionamento delle sigarette recanti marchi contraffatti).
Gli impianti venivano alimentati con gruppi elettrogeni, allo scopo di non rendere rilevabile, dai picchi di consumo dell’energia elettrica, la presenza di macchinari funzionanti a pieno ritmo.
Le finestre che davano verso l’esterno erano state oscurate mentre negli ambienti più interni, illuminati solo artificialmente, erano stati allestiti alloggiamenti per il personale addetto, proveniente da Paesi dell’Est europeo e impiegato in condizioni di sfruttamento e in spregio alle norme di sicurezza.
Si trattava, in tutta evidenza, di un ambiente lavorativo degradante e vessatorio: i lavoratori venivano di fatto rinchiusi nelle fabbriche senza poter avere alcun contatto con l’esterno e costretti a turni massacranti, senza possibilità di riposo e deprivati di ogni forma di tutela.
Dalle perizie disposte su alcune delle linee di assemblaggio e confezionamento dei pacchetti di sigarette è emersa l’intensa attività produttiva realizzata durante il periodo di operatività clandestina. È stato stimato, infatti, che ognuna di esse abbia potuto agevolmente produrre 48 mila pacchetti di sigarette al giorno, da cui un volume immesso sul mercato illegale valutabile (in via del tutto prudenziale) in almeno 35 milioni di pacchetti (corrispondenti a 700 tonnellate di prodotto). Un quantitativo, questo, che può aver fruttato agli organizzatori dell’illecito traffico guadagni stimati in non meno di € 175 milioni. Ciò con una correlativa evasione di accisa sui tabacchi quantificabile in € 112 milioni circa, oltre a IVA per € 28 milioni.
Va inoltre sottolineato come la sinergia istituzionale, dopo l’effettuazione dei sequestri, si sia estesa all’Agenzia delle dogane e dei monopoli (Ufficio dei Monopoli di Torino) nonché al Comando Provinciale del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco di Torino nella fase della gestione del materiale cautelato che, anche grazie alla collaborazione della Città Metropolitana di Torino, è stato già avviato a completa distruzione.
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