2023-09-19
Dal capitalismo woke solo battaglie farsa
Nel suo nuovo libro, Carl Rhodes spiega che le multinazionali si impegnano in cause «buoniste» unicamente per riposizionarsi sul mercato e per spostare l’attenzione dalle vere diseguaglianze. Il loro attivismo è marketing: il fine è continuare a fare affari. A dirla tutta, non ci sarebbe nemmeno bisogno di libri, saggi e analisi accademiche. Per comprendere che cosa sia il «capitalismo woke» basta accendere la televisione o aprire i social e dare una occhiata agli spot. Non c’è grande campagna pubblicitaria che non abbia un sottofondo moralizzante, non c’è grande azienda che non si faccia vanto di essere impegnata in attività di sensibilizzazione sui temi «sociali». L’elenco di sponsor del gay pride - strabordante di banche, assicurazioni, multinazionali et similia - è perfettamente complementare all’insistenza con cui le potenti industrie dell’intrattenimento statunitense sfornano serie tv e film sulla «catastrofe climatica», sul «razzismo sistemico», sui «diritti trans» e via buonisteggiando. Ci sono stati negli ultimi mesi casi clamorosi, come quello di Bud Light che si è affidata a una influencer transgender per promuovere le sue lattine di birra, puntando a un duplice obiettivo: vendere e educare (o rieducare, a seconda dei punti di vista). In quella circostanza non è finita benissimo, perché i consumatori americani hanno rifiutato - pure abbastanza ruvidamente - sia gli spot sia il prodotto che spingevano. E qui forse c’è l’indicazione di una via d’uscita: può darsi che sia lo stesso capitalismo a espellere le scorie woke, da qui a una decina d’anni.Dopodiché è fondamentale capire fino in fondo che cosa sia questo sistema spietato ma apparentemente «buono», e a questo scopo è imprescindibile la lettura del libro dell’economista Carl Rhodes in uscita oggi per l’editore Fazi: Capitalismo Woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia. Come spiega l’autorevole studioso Carlo Galli nella prefazione, questa nuova incarnazione del capitale origina «dalla filantropia primonovecentesca e dalla “responsabilità sociale delle aziende” degli anni Sessanta, cioè da un impulso del capitale a uscire dalla sfera meramente economica per legittimarsi e per fronteggiare alcuni problemi che esso stesso genera, il capitalismo woke, nato alla fine del XX secolo ed esploso nel XXI (nel mondo anglofono, in prevalenza), cela ben altro. Cela - o meglio, manifesta dandola per ovvia e irreversibile - la fine della distinzione tra politica, società e terzo settore; la società è un unico magma informe, in cui i poteri forti sono quelli delle corporations, non certo quelli politici. È questo», continua Galli, «lo scenario del neoliberismo maturo, naturalmente, in cui le grandi aziende, i loro ad, danno per scontato che lo Stato abbia fallito nel risolvere determinate questioni sociali e che tocchi all’economia gestirle o direttamente oppure sponsorizzando movimenti politici di massa come, ad esempio, Me too, Black lives matter o le cause ambientali. Non più, quindi, i vecchi investimenti culturali nei grandi musei e nelle grandi biblioteche fondate nel Novecento dai “baroni ladri” ritiratisi in pensione, ma nuovi investimenti sociali delle aziende, che vogliono surrogare la politica. L’economia non si limita a invadere l’intera società, ma si sostituisce direttamente allo Stato».Questa analisi, a nostro avviso, merita di essere per lo meno integrata. Rhodes trascura, infatti, un elemento fondamentale, che è quello religioso. La missione «civilizzatrice» del nuovo capitalismo deriva da quella etica protestante su cui già Max Weber aveva insistito. Siamo al cospetto di una forma di gnosi: l’élite economica si sente titolata a rieducare la popolazione, a imporre i propri (pseudo) valori alle masse che considera inette. Ciò non significa che essa trascuri di sfruttare l’opera moralizzatrice per vendere beni e servizi.In ogni caso, Carl Rhodes individua con chiarezza quali siano i disastri che questa tendenza produce. Come sintetizza ancora Galli, Rhodes critica il capitalismo woke «non perché le campagne che sponsorizza sono sbagliate o perché fa politica invece che profitti, né perché è ipocrita e poco coerente, ma perché è una funesta degenerazione delle forme politiche occidentali».Secondo Rhodes, «l’economia capitalistica travolge società e Stato, distruggendo lo spirito comunitario e producendo disuguaglianze sociali che lo Stato non può affrontare perché le aziende praticano elusioni fiscali di portata stratosferica, che sottraggono risorse cruciali a programmi politici d’intervento nella società».Da un lato, dunque, il capitalismo woke indebolisce le comunità e le nazioni. Dall’altro sterilizza e cancella le vere lotte sociali. L’attivismo woke, scrive Carlo Galli, «è in realtà una tattica di marketing, grazie alla quale le aziende mantengono la presa sugli orientamenti profondi e mutevoli della società e riposizionano il proprio brand in modo da migliorare i bilanci (che questa tattica a volte riesca e a volte no non è un argomento sufficiente per rifiutare questa interpretazione). Nessuna delle cause sponsorizzate, infatti, benché molto spesso ovviamente condivisibili, è (o vuole essere) efficace dal punto di vista della redistribuzione della ricchezza e della limitazione del potere dell’economia, nonché del business aziendale. Sono cause meritevoli sì, ma simboliche o morali, ed economicamente innocue: hanno a che fare con diritti civili, non con diritti sociali strutturali, legati ai rapporti di potere tra capitale e lavoro. Rispetto ai quali funzionano come un diversivo: in ogni caso, l’attivismo aziendale le fa diventare cool, le integra nel discorso mainstream. È questa, del resto, la direzione prevalente delle politiche orientate “a sinistra” in età neoliberista».Ecco il punto. Questo nuovo capitalismo, fingendosi impegnato, protegge i propri affari, anche quelli più sporchi. Sposta l’attenzione su cause marginali, o comunque non strutturali, e distoglie l’attenzione dai temi veri. Battersi contro il razzismo è, in fondo, un modo furbo per non occuparsi delle vere diseguaglianze, che sono quelle salariali. Impegnarsi nella lotta alle emissioni di CO2 significa - in soldoni - evitare di mettere in discussione il sistema consumistico. Le cosiddette buone cause semplicemente non sono buone: sono una patina buonista che nasconde interessi altrimenti inconfessabili. Da un punto di vista liberale, i woke cercano surrettiziamente di regolare il mercato limitando la libertà. Da un punto di vista più «sociale», essi evitano di porre rimedio alle vere storture del sistema spostando l’attenzione su altro, in modo da salvare la faccia e soprattutto i profitti.Vero, forse l’era del capitalismo woke giungerà al termine: se i consumatori mostreranno di averne abbastanza, le grandi aziende dovranno adeguarsi e cambiare linea (dimostrando così la propria ipocrisia). Ma, nel frattempo, l’ondata «civilizzatrice» ha già prodotto parecchi danni, orientando il dibattito politico e imponendo una radicale sovversione degli stili di vita. È tempo, dunque, di svelare l’inganno: dietro i sentimenti candidi si cela il solito, antico, volto demoniaco del potere.