2021-10-03
Camminare non è un passatempo. Solo marciando nel mondo si è vivi
La spinta errabonda che ogni tanto ci fa alzare dal divano la domenica andrebbe assecondata molto di più. Allontanandoci dalle nostre «cucce» di comfort e civilizzazione, prendiamo possesso di ciò che ci circonda.Muoversi in un parco vuol dire anche aprirsi a quell'ignoto che da sempre richiama l'uomo, o quantomeno, certi caratteri di umanità, e certi afflati che hanno sede forse più nelle gambe che nella mente. Perché in noi nasce il bisogno di abbandonare casa, abbandonare famiglia, abbandonare l'abitudine, la certezza, la sicurezza? Cosa ci spinge a orientarci dove l'umanità scarseggia e quel che resta del mondo abbonda? Ogni uomo si trova di fronte ad una alternativa nomade, come diceva il buon Bruce Chatwin (1940-1989), e un'alternativa che potremmo chiamare stanziale: «Perché gli uomini vanno girovagando invece di starsene fermi?». Chatwin intuiva che anche questo modo di porsi le domande, ragionando per polarità opposte, era in realtà un inganno razionale che non può carpire, tanto meno intuire, le motivazioni irrazionali che operano in chi è nomade, migrante, irrequieto. «Devo cercare di vedere i nomadi come si vedono loro, guardando alla civiltà con invidia o diffidenza». Ma dunque cos'è la civiltà? Si tratta degli uomini che fanno ogni giorno sempre le stesse cose, che la mattina si alzano, imbastiscono colazioni con moglie e figli e parenti e poi escono per andare a lavorare, vestono come è il caso che ci si debba vestire, lavorano con profitto assicurando un certo benessere a sé stessi e ai propri cari e quindi la sera, stanchi, rientrano a casa per addormentarsi sul divano con la pipa tra le mani? E la domenica riposano, tra le proprie cose e piccole manie? Questa è la vita degli uomini e delle donne che appartengono alla «società»? Era proprio questa la società viziata, bugiarda, meschina che Henry David Thoreau voleva evitare, vivendo a modo suo, e diversi altri animi infuocati, irriducibili, spinti verso orizzonti ampi cercavano cocciutagginemente (esiste questo avverbio?) di scansare per tutta la vita? La società è le case, gli abitati, gli stili di vita, le città? Il lavorare ogni mattina e l'andare a teatro il venerdì sera? Cos'è che non si vuole perdere, allontanandosi, mettendo una dovuta distanza fra sé e gli altri, fra sé e tutte quelle normali attività che ci renderebbero operativi e adeguati onesti contribuenti?Un camminatore della nostra epoca è stato Winfried Georg Sebald, noto come W. G. Sebald (1944-2001), autore di poche ma splendide opere, in Italia l'editore è lo stesso di Chatwin, l'Adelphi. Visse per metà della sua vita in Germania e poi in Inghilterra, dove trascorse gli anni della maturità e della scrittura, morendo prematuramente in un incidente stradale probabilmente causato da un suo infarto. Andrò a sbirciare alcune osservazioni in due suoi titoli: Gli anelli di Saturno (1995) e Il passeggiatore solitario (1998).Nell'estate del 1992 Sebald viene ricoverato in ospedale, improvvisamente non riesce più a muoversi. Bloccato quindi nella sua stanza, in attesa dei dovuti accertamenti clinici, inizia a sbirciare attraverso la finestra e inizia a comporre le pagine che daranno vita al suo bisogno di viaggiare a piedi. Come è caratteristico della scrittura di Sebald, scorrere le sue pagine per individuare soltanto i temi di cui ci stiamo occupando risulta sciocco, poiché Sebald danza da un tema all'altro, da un amico ad una figura storico-letteraria con una tale leggiadria da rendere romanzesco qualsiasi appunto egli abbia preso, interessante qualsiasi notazione, dialogo, ricordo, tentennamento o citazione. Questo ha reso la sua scrittura importante, tanto da far dire a non pochi lettori appassionati che se la sua vita fosse stata più lunga un Nobel probabilmente non glielo avrebbe negato nessuno. Gli anelli di Saturno sono un diario di viaggio in diverse località britanniche, ogni luogo ha una storia e ogni edificio una minima biografia. L'animo errante che attraversa il paesaggio è quindi quello di un biografo che lentamente e cautamente ricostruisce un ritratto, compila un album di fotografie, e tenta di relazionarsi alla storia visibile e invisibile del pianeta. O meglio di quella sottilissima fascia che chiamano pedosfera. Un uomo in cammino col suo fidato zaino, oggetto così tanto fotografato oggi dai molti viaggiatori seriali che in questo mondo di social e di realtà digitale curiosamente proliferano, come se mostrare al piccolo mondo che ti sta a guardare che sei stato in cima ad una roccia, o nel fondo di una grotta, o ancora nell'umida preistoricità di una foresta di conifere, sia la dimostrazione concreta della propria esistenza e della propria motivazione autentica. Cogito ergo sum, si diceva un tempo, traslato in chi scrive in Radico ergo sum, e per questi esploratori nostrani photographo ergo sum. Quanti autori e poeti e documentaristi passano tempo a viaggiare per raggiungere i luoghi più remoti del pianeta e ogni giorno debbono relazionare su Facebook, su Instagram, su Twitter, o non so quale altro strumento?Ne Il passeggiatore solitario, Sebald si mette sulle tracce di uno scrittore-fantasma: Robert Walser (1878-1956). Nel 1913 il poeta e romanziere svizzero compie un viaggio a piedi di oltre 900 chilometri, tra Berlino e Biel, dove si stabilisce, inaugurando un periodo di lutti, perse in poche stagioni il padre e due fratelli. Proprio in questa parte della sua vita scrive gli appunti che andranno a comporre la sua celebre Passeggiata (Der Spaziergang, 1917, tradotto in Italia 60 anni dopo!), racconto breve nel quale un alter-ego camminatore racconta la sua giornata da quando esce di casa alla sera. Dieci anni più tardi inizia a non credere più nelle proprie capacità letterarie, fintanto che entra in una clinica e vi rimane in cura, come presunto schizofrenico, fino alla sua morte. Mi sono sempre domandato se questa parabola dell'esistenza di Walser commuova intimamente così tanti autori per empatia, o se invece sia una sorta di scongiuro, come dire speriamo non tocchi anche a me; precipitare nella prigione della scrittura, dimostra la vita di Walser, può accompagnare alla rovina. Sebald va alla ricerca dei luoghi e dell'eredità di Walser, e in questo suo piccolo libello ci regala molti segreti. In definitiva quel che ci dimostrano queste penne sublimi è che camminare è vivere, non è una parte del gioco, non è un intrattenimento occasionale che ci distoglie dalla nostra professione principale. Anche camminando siamo, per dirla come avrebbe sostenuto Yasunari Kawabata (1899-1972), premio Nobel per la letteratura nel 1968, «dilettanti del vivere», cambia soltanto lo sfondo: ora possono essere i vicoli stretti e maleodoranti della Genova portuale, ora può essere il calore afoso di Central Park a New York, ora invece un cammino solitario tra le faggete di un parco nazionale.
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