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2022-05-04
Una caccia responsabile favorisce la tutela delle specie protette e allontana il bracconaggio
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Demonizzare il mondo venatorio è attività fin troppo comune e diffusa in una fetta di opinione pubblica mossa per lo più da slogan che da veri e puri sentimenti animalisti e ambientalisti. Uomo e ambiente, con la natura al centro, sono proprio i tre pilastri su cui è nata nel 2015 Fondazione Una, un'organizzazione non governativa e no-profit impegnata nella tutela e nella gestione della natura che ha tra i soci fondatori le principali associazioni venatorie riconosciute in Italia, da Federcaccia a Enalcaccia, Arcicaccia e il Comitato nazionale caccia e natura, oltre a realtà ambientalistiche, agricole, scientifiche e accademiche, tutte con l'obiettivo di collaborare intorno a progetti volti alla realizzazione di un contesto territoriale e ambientale sostenibile. Come per esempio, quello pensato e messo in atto insieme a Federparchi.
L'iniziativa in questione si chiama #biodiversitàinvolo ed è una campagna con cui si intende sensibilizzare l'uomo contro il bracconaggio e riportare l’attenzione sulla tutela delle specie protette attraverso il lavoro prezioso del corpo dei guardiaparco. Una campagna che coinvolgerà tutta Italia attraverso giornate organizzate in tre parchi nazionali: il Gran Paradiso in Valle d'Aosta, il parco regionale della Maremma in Toscana e quello d'Abruzzo. Noi abbiamo partecipato in prima persona alla visita organizzata da Federparchi e Fondazione Una al Parco Nazionale del Gran Paradiso, dove oggi si contano più di 100 specie animali tra stambecchi, camosci, marmotte, cervi, caprioli e cinghiali, ma anche aquile reali, gipeti e lupi. Aprendo una piccola parentesi storica, è opportuno ricordare come il Parco Nazionale del Gran Paradiso sia il più antico d'Italia, essendo stato istituito nel 1922 - quest'anno ricorre il centenario - quando questa immensa area di 71.000 ettari compresa tra Valle d'Aosta e Piemonte, fu convertita da riserva di caccia del re Vittorio Emanuele ad area protetta dello Stato. Valsavarenche, è l'unico comune dei 13 (6 in Piemonte e 7 in Valle d'Aosta) che sono attraversati dal Parco a rientrare interamente dentro i confini di quest'area.
Il lavoro importante che negli anni è stato portato avanti da Federparchi e da Fondazione Una ha fatto sì che la fauna che popola quest'area non si estinguesse. All'epoca di re Vittorio Emanuele, infatti, per quanto riguarda l'animale simbolo di questo parco, lo stambecco alpino, rimanevano solo poche centinaia di esemplari, poiché lo stambecco è sempre stato cacciato sia per la carne che per rincorrere delle fantomatiche leggende secondo cui se ne potevano trarre proprietà lenitive che andavano dalla cura per la depressione alla cura per l’impotenza. Addirittura, nel 1856, gli ultimi esemplari furono protetti dalla famiglia reale, non per scongiurare il rischio estinzione, bensì per riservarli alla loro caccia personale in una riserva privata situata nel territorio divenuto poi nel 1922 il Parco Nazionale del Gran Paradiso. Se allora i guardiaparco avevano il compito di proteggerli da altri cacciatori «concorrenti» ai reali, oggi ne garantiscono a tutti gli effetti la sopravvivenza in quello che oggi è il loro habitat tipico, costituito dagli ambienti rocciosi di alta quota, al di sopra della linea degli alberi. Un lavoro che ha fatto sì che oggi gli stambecchi che popolano il Parco del Gran Paradiso siano circa 2.700, nonostante i cambiamenti climatici, che il personale del parco studia con moltissima attenzione fin dagli anni Ottanta, li stiano mettendo a dura prova. Se gettiamo lo sguardo oltre i confini del Parco, invece, la popolazione di questi mammiferi lungo tutto l'arco alpino è di oltre 55.000 esemplari. Attualmente lo stambecco è una specie fuori pericolo estinzione, ma a causa delle temperature che si stanno alzando e degli inverni che durano sempre meno è costretto a salire di altitudine per raggiungere la sua zona di comfort in ambienti di alta montagna. Ciò potrebbe ridurre il suo spazio vitale, con l'inverno rigido che in passato era uno strumento di selezione facendo sopravvivere soltanto gli esemplari più forti, e che oggi invece determina un indebolimento complessivo della specie.
Una marmotta al Parco Nazionale del Gran Paradiso (Foto Simone Bramante)
Un'altra specie che ha beneficiato tantissimo dal lavoro svolto dalle associazioni che si dedicano alla conservazione della biodiversità, è il gipeto. Si tratta di un uccello rapace, chiamato anche avvoltoio barbuto che con la sua apertura alare che può arrivare fino ai 3 metri è considerato il più grande uccello europeo. Il gipeto nidifica su pareti rocciose e su valloni impervi e la maggior parte delle volte lo si può osservare planare in cerca di carcasse. Si ciba quasi esclusivamente di ossa che provvede a frantumare lasciandole cadere da altezze considerevoli per poi ingoiarle più facilmente. Nel 1913 questa specie si estinse a causa di un ciclo riproduttivo particolarmente lungo e di una caccia illegale da parte dell’uomo in ambiente alpino. Negli anni Ottanta, grazie a un progetto di reintroduzione a partire da alcuni piccoli nati in cattività negli zoo d'Europa, è tornato a nidificare a tal punto che negli ultimi vent’anni, circa 150 individui sono stati rilasciati sulle Alpi dove adesso è presente una piccola popolazione stabile. Attualmente nel Parco del Gran Paradiso sono presenti tre coppie nidificanti. Ogni coppia cova un paio di uova all'anno, deposte a gennaio, ma solo un piccolo riesce a sopravvivere. La loro attività è monitorata costantemente grazie all'installazione di alcune webcam in prossimità dei loro nidi. Durante la nostra visita al parco, oltre a vedere da vicino gli stambecchi e i camosci, abbiamo avuto l'opportunità di osservare insieme al guardiaparco Dario Favre e con l'ausilio del cannocchiale un nido di gipeto, per poi spostarci nell'ufficio della sede operativa della valle di Valsavarenche e vedere dai monitor, con l'ispettore del servizio di sorveglianza del Parco del Gran Paradiso Stefano Cerise, alcuni dei loro comportamenti, come per esempio un gipeto che proteggeva il suo piccolo durante una tempesta di neve notturna, oppure il momento in cui due gipeti si sono dati il cambio per la cova, o un gipeto nell'atto di scoraggiare un corvo imperiale che si stava avvicinando troppo al nido. Ci sono poi i camosci, circa 7.800 che vengono costantemente monitorati insieme a tutti gli altri animali dal corpo di sorveglianza dei guardiaparco dal 1956.
Tra i rapaci che sorvolano e nidificano questo territorio ce n'è anche una davvero iconica delle Alpi italiane, l'aquila reale, un uccello appartenente alla famiglia degli Accipitridae. Le coppie di aquile reali costruiscono i loro nidi, anche più di uno all'anno, su pareti rocciose per poi scegliere il più adatto in base all’abbondanza di prede e all’assenza di fonti di disturbo. A differenza del gipeto, l'aquila reale ha un'apertura alare compresa tra i 190 e i 220 centimetri e la femmina è più grande del maschio. Gli adulti hanno piumaggio di colore bruno, mentre i giovani hanno grandi macchie bianche al centro delle ali e alla base della coda. I guardiaparco che lavorano al Gran Paradiso ci hanno spiegato come in passato l'aquila reale non fosse sufficientemente tutelata con conseguenti episodi di bracconaggio. Oggi, grazie al lavoro di monitoraggio e censimento svolto annualmente, si contano 27 coppie di aquile reali all'interno del Parco.
Ecco perché la caccia, sostenibile e responsabile, non va demonizzata ma, al contrario spiegata e compresa all'interno di un meccanismo di tutela e salvaguardia delle specie protette e della biodiversità. Un cacciatore che svolge il proprio compito secondo le leggi e le regole favorisce tutto questo. A spiegarlo è Renata Briano, presidente del comitato scientifico di Fondazione Una, che ha tra gli obiettivi anche quello di formare e sensibilizzare i cacciatori affinché non vi siano più episodi di bracconaggio attraverso la valorizzazione delle zone protette: «Stiamo portando avanti con il Parco Nazionale del Gran Paradiso e con Federparchi un progetto per la lotta al bracconaggio. Sono progetti molto importanti per la preservazione di alcune specie» sottolinea Briano - «Lo stambecco è il simbolo del parco, ma penso anche al gipeto. Una specie che viveva anni fa nelle nostre montagne e che è stata estinta a causa di una caccia eccessiva e che oggi, grazie a un progetto di reintroduzione, nidifica con un buonissimo successo ed è una buona pratica che noi vogliamo esportare e comunicare». Ci si chiede in questo contesto come la caccia può essere utile al raggiungimento di questo obiettivo e a fugare ogni dubbio è proprio la presidente del comitato scientifico di Fondazione Una: «Fondazione Una sta per "uomo natura e ambiente" e vuole lavorare mettendo insieme attori diversi, spesso anche apparentemente conflittuali tra loro, per dimostrare che l'ambiente e la biodiversità si preservano in un'ottica ecosistemica, mai guardando al singolo individuo, ma sempre in una logica di relazioni tra le specie. In Fondazione Una ci sono gli agricoltori, i cacciatori, i parchi, le associazioni ambientaliste e soprattutto il mondo scientifico, perché il dato scientifico è sempre la base su cui si devono fondare i nostri progetti» racconta Briano - «Quello che vogliamo dimostrare è che le cause della perdita di biodiversità sono tantissime: penso al cemento, all'inquinamento, all'uso dei pesticidi. Non c'è la caccia, che invece è regolamentata da leggi conservative e si basa su dati scientifici, ma c'è il bracconaggio. La lotta al bracconaggio è un nostro obiettivo forte e i cacciatori sono con noi per lanciare questo messaggio: ostacoliamo il bracconaggio, combattiamolo, perché è una causa importante di perdita di valore per i nostri ecosistemi». Una corretta attività venatoria allontana il fenomeno del bracconaggio. Un concetto sottolineato anche da Bruno Bassano, direttore del Parco Nazionale del Gran Paradiso: «Abbiamo organizzato questa uscita per cercare di sensibilizzare l'opportunità che ci sia un dialogo tra la protezione fatta all'interno delle aree protette e la gestione che si fa all'esterno di queste aree. Perché i parchi nazionali non sono aree in cui si caccia, ma sono aree in cui si possono e si devono raccogliere informazioni che saranno utili per una corretta gestione delle specie cacciabili. Questo dialogo ci deve essere, perché la gestione venatoria finirebbe con non avere abbastanza informazioni e quindi verrebbe gestita non correttamente. Parlo soprattutto degli ungulati di montagna».
Una lontra al Centro Acqua e Biodiversità di Rovenaud
La visita al parco si è conclusa al Centro Acqua e Biodiversità di Rovenaud, che si occupa di attività di monitoraggio e di conservazione della lontra nelle aree alpine. Qui vengono studiati i comportamenti di tre lontre femmine, un esemplare che in Valle d'Aosta era presente fino agli anni Cinquanta e che successivamente si era praticamente estinto in tutta Europa, come ci ha spiegato il presidente di Federparchi Giampiero Sammuri, «a causa sì del cambiamento dell'habitat, degli inquinanti e della frammentazione, ma anche dell'introduzione da parte dell'uomo di specie aliene». Sammuri ha ribadito l'importanza della tutela della biodiversità e quali sono oggi le principali minacce e come in questo centro si studiano la sua passata distribuzione sul territorio e i fattori che minacciano la sua sopravvivenza oggi, oltre che quella delle altre specie che vivono nelle acque dolci del Parco.
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Siamo stati al Parco Nazionale del Gran Paradiso, ex riserva di caccia reale, dove oggi si contano più di 100 specie animali tra stambecchi, camosci, marmotte, cervi, caprioli e cinghiali, ma anche aquile reali, gipeti e lupi. È qui che Federparchi e Fondazione Una portano avanti un progetto che punta a sensibilizzare contro il fenomeno del bracconaggio e a riportare l'attenzione sulla tutela delle specie protette, attraverso il lavoro prezioso dei guardiaparco.Demonizzare il mondo venatorio è attività fin troppo comune e diffusa in una fetta di opinione pubblica mossa per lo più da slogan che da veri e puri sentimenti animalisti e ambientalisti. Uomo e ambiente, con la natura al centro, sono proprio i tre pilastri su cui è nata nel 2015 Fondazione Una, un'organizzazione non governativa e no-profit impegnata nella tutela e nella gestione della natura che ha tra i soci fondatori le principali associazioni venatorie riconosciute in Italia, da Federcaccia a Enalcaccia, Arcicaccia e il Comitato nazionale caccia e natura, oltre a realtà ambientalistiche, agricole, scientifiche e accademiche, tutte con l'obiettivo di collaborare intorno a progetti volti alla realizzazione di un contesto territoriale e ambientale sostenibile. Come per esempio, quello pensato e messo in atto insieme a Federparchi.L'iniziativa in questione si chiama #biodiversitàinvolo ed è una campagna con cui si intende sensibilizzare l'uomo contro il bracconaggio e riportare l’attenzione sulla tutela delle specie protette attraverso il lavoro prezioso del corpo dei guardiaparco. Una campagna che coinvolgerà tutta Italia attraverso giornate organizzate in tre parchi nazionali: il Gran Paradiso in Valle d'Aosta, il parco regionale della Maremma in Toscana e quello d'Abruzzo. Noi abbiamo partecipato in prima persona alla visita organizzata da Federparchi e Fondazione Una al Parco Nazionale del Gran Paradiso, dove oggi si contano più di 100 specie animali tra stambecchi, camosci, marmotte, cervi, caprioli e cinghiali, ma anche aquile reali, gipeti e lupi. Aprendo una piccola parentesi storica, è opportuno ricordare come il Parco Nazionale del Gran Paradiso sia il più antico d'Italia, essendo stato istituito nel 1922 - quest'anno ricorre il centenario - quando questa immensa area di 71.000 ettari compresa tra Valle d'Aosta e Piemonte, fu convertita da riserva di caccia del re Vittorio Emanuele ad area protetta dello Stato. Valsavarenche, è l'unico comune dei 13 (6 in Piemonte e 7 in Valle d'Aosta) che sono attraversati dal Parco a rientrare interamente dentro i confini di quest'area.Il lavoro importante che negli anni è stato portato avanti da Federparchi e da Fondazione Una ha fatto sì che la fauna che popola quest'area non si estinguesse. All'epoca di re Vittorio Emanuele, infatti, per quanto riguarda l'animale simbolo di questo parco, lo stambecco alpino, rimanevano solo poche centinaia di esemplari, poiché lo stambecco è sempre stato cacciato sia per la carne che per rincorrere delle fantomatiche leggende secondo cui se ne potevano trarre proprietà lenitive che andavano dalla cura per la depressione alla cura per l’impotenza. Addirittura, nel 1856, gli ultimi esemplari furono protetti dalla famiglia reale, non per scongiurare il rischio estinzione, bensì per riservarli alla loro caccia personale in una riserva privata situata nel territorio divenuto poi nel 1922 il Parco Nazionale del Gran Paradiso. Se allora i guardiaparco avevano il compito di proteggerli da altri cacciatori «concorrenti» ai reali, oggi ne garantiscono a tutti gli effetti la sopravvivenza in quello che oggi è il loro habitat tipico, costituito dagli ambienti rocciosi di alta quota, al di sopra della linea degli alberi. Un lavoro che ha fatto sì che oggi gli stambecchi che popolano il Parco del Gran Paradiso siano circa 2.700, nonostante i cambiamenti climatici, che il personale del parco studia con moltissima attenzione fin dagli anni Ottanta, li stiano mettendo a dura prova. Se gettiamo lo sguardo oltre i confini del Parco, invece, la popolazione di questi mammiferi lungo tutto l'arco alpino è di oltre 55.000 esemplari. Attualmente lo stambecco è una specie fuori pericolo estinzione, ma a causa delle temperature che si stanno alzando e degli inverni che durano sempre meno è costretto a salire di altitudine per raggiungere la sua zona di comfort in ambienti di alta montagna. Ciò potrebbe ridurre il suo spazio vitale, con l'inverno rigido che in passato era uno strumento di selezione facendo sopravvivere soltanto gli esemplari più forti, e che oggi invece determina un indebolimento complessivo della specie. Una marmotta al Parco Nazionale del Gran Paradiso (Foto Simone Bramante)Un'altra specie che ha beneficiato tantissimo dal lavoro svolto dalle associazioni che si dedicano alla conservazione della biodiversità, è il gipeto. Si tratta di un uccello rapace, chiamato anche avvoltoio barbuto che con la sua apertura alare che può arrivare fino ai 3 metri è considerato il più grande uccello europeo. Il gipeto nidifica su pareti rocciose e su valloni impervi e la maggior parte delle volte lo si può osservare planare in cerca di carcasse. Si ciba quasi esclusivamente di ossa che provvede a frantumare lasciandole cadere da altezze considerevoli per poi ingoiarle più facilmente. Nel 1913 questa specie si estinse a causa di un ciclo riproduttivo particolarmente lungo e di una caccia illegale da parte dell’uomo in ambiente alpino. Negli anni Ottanta, grazie a un progetto di reintroduzione a partire da alcuni piccoli nati in cattività negli zoo d'Europa, è tornato a nidificare a tal punto che negli ultimi vent’anni, circa 150 individui sono stati rilasciati sulle Alpi dove adesso è presente una piccola popolazione stabile. Attualmente nel Parco del Gran Paradiso sono presenti tre coppie nidificanti. Ogni coppia cova un paio di uova all'anno, deposte a gennaio, ma solo un piccolo riesce a sopravvivere. La loro attività è monitorata costantemente grazie all'installazione di alcune webcam in prossimità dei loro nidi. Durante la nostra visita al parco, oltre a vedere da vicino gli stambecchi e i camosci, abbiamo avuto l'opportunità di osservare insieme al guardiaparco Dario Favre e con l'ausilio del cannocchiale un nido di gipeto, per poi spostarci nell'ufficio della sede operativa della valle di Valsavarenche e vedere dai monitor, con l'ispettore del servizio di sorveglianza del Parco del Gran Paradiso Stefano Cerise, alcuni dei loro comportamenti, come per esempio un gipeto che proteggeva il suo piccolo durante una tempesta di neve notturna, oppure il momento in cui due gipeti si sono dati il cambio per la cova, o un gipeto nell'atto di scoraggiare un corvo imperiale che si stava avvicinando troppo al nido. Ci sono poi i camosci, circa 7.800 che vengono costantemente monitorati insieme a tutti gli altri animali dal corpo di sorveglianza dei guardiaparco dal 1956.Tra i rapaci che sorvolano e nidificano questo territorio ce n'è anche una davvero iconica delle Alpi italiane, l'aquila reale, un uccello appartenente alla famiglia degli Accipitridae. Le coppie di aquile reali costruiscono i loro nidi, anche più di uno all'anno, su pareti rocciose per poi scegliere il più adatto in base all’abbondanza di prede e all’assenza di fonti di disturbo. A differenza del gipeto, l'aquila reale ha un'apertura alare compresa tra i 190 e i 220 centimetri e la femmina è più grande del maschio. Gli adulti hanno piumaggio di colore bruno, mentre i giovani hanno grandi macchie bianche al centro delle ali e alla base della coda. I guardiaparco che lavorano al Gran Paradiso ci hanno spiegato come in passato l'aquila reale non fosse sufficientemente tutelata con conseguenti episodi di bracconaggio. Oggi, grazie al lavoro di monitoraggio e censimento svolto annualmente, si contano 27 coppie di aquile reali all'interno del Parco. Ecco perché la caccia, sostenibile e responsabile, non va demonizzata ma, al contrario spiegata e compresa all'interno di un meccanismo di tutela e salvaguardia delle specie protette e della biodiversità. Un cacciatore che svolge il proprio compito secondo le leggi e le regole favorisce tutto questo. A spiegarlo è Renata Briano, presidente del comitato scientifico di Fondazione Una, che ha tra gli obiettivi anche quello di formare e sensibilizzare i cacciatori affinché non vi siano più episodi di bracconaggio attraverso la valorizzazione delle zone protette: «Stiamo portando avanti con il Parco Nazionale del Gran Paradiso e con Federparchi un progetto per la lotta al bracconaggio. Sono progetti molto importanti per la preservazione di alcune specie» sottolinea Briano - «Lo stambecco è il simbolo del parco, ma penso anche al gipeto. Una specie che viveva anni fa nelle nostre montagne e che è stata estinta a causa di una caccia eccessiva e che oggi, grazie a un progetto di reintroduzione, nidifica con un buonissimo successo ed è una buona pratica che noi vogliamo esportare e comunicare». Ci si chiede in questo contesto come la caccia può essere utile al raggiungimento di questo obiettivo e a fugare ogni dubbio è proprio la presidente del comitato scientifico di Fondazione Una: «Fondazione Una sta per "uomo natura e ambiente" e vuole lavorare mettendo insieme attori diversi, spesso anche apparentemente conflittuali tra loro, per dimostrare che l'ambiente e la biodiversità si preservano in un'ottica ecosistemica, mai guardando al singolo individuo, ma sempre in una logica di relazioni tra le specie. In Fondazione Una ci sono gli agricoltori, i cacciatori, i parchi, le associazioni ambientaliste e soprattutto il mondo scientifico, perché il dato scientifico è sempre la base su cui si devono fondare i nostri progetti» racconta Briano - «Quello che vogliamo dimostrare è che le cause della perdita di biodiversità sono tantissime: penso al cemento, all'inquinamento, all'uso dei pesticidi. Non c'è la caccia, che invece è regolamentata da leggi conservative e si basa su dati scientifici, ma c'è il bracconaggio. La lotta al bracconaggio è un nostro obiettivo forte e i cacciatori sono con noi per lanciare questo messaggio: ostacoliamo il bracconaggio, combattiamolo, perché è una causa importante di perdita di valore per i nostri ecosistemi». Una corretta attività venatoria allontana il fenomeno del bracconaggio. Un concetto sottolineato anche da Bruno Bassano, direttore del Parco Nazionale del Gran Paradiso: «Abbiamo organizzato questa uscita per cercare di sensibilizzare l'opportunità che ci sia un dialogo tra la protezione fatta all'interno delle aree protette e la gestione che si fa all'esterno di queste aree. Perché i parchi nazionali non sono aree in cui si caccia, ma sono aree in cui si possono e si devono raccogliere informazioni che saranno utili per una corretta gestione delle specie cacciabili. Questo dialogo ci deve essere, perché la gestione venatoria finirebbe con non avere abbastanza informazioni e quindi verrebbe gestita non correttamente. Parlo soprattutto degli ungulati di montagna». Una lontra al Centro Acqua e Biodiversità di RovenaudLa visita al parco si è conclusa al Centro Acqua e Biodiversità di Rovenaud, che si occupa di attività di monitoraggio e di conservazione della lontra nelle aree alpine. Qui vengono studiati i comportamenti di tre lontre femmine, un esemplare che in Valle d'Aosta era presente fino agli anni Cinquanta e che successivamente si era praticamente estinto in tutta Europa, come ci ha spiegato il presidente di Federparchi Giampiero Sammuri, «a causa sì del cambiamento dell'habitat, degli inquinanti e della frammentazione, ma anche dell'introduzione da parte dell'uomo di specie aliene». Sammuri ha ribadito l'importanza della tutela della biodiversità e quali sono oggi le principali minacce e come in questo centro si studiano la sua passata distribuzione sul territorio e i fattori che minacciano la sua sopravvivenza oggi, oltre che quella delle altre specie che vivono nelle acque dolci del Parco.
Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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La centrale idroelettrica “Domenico Cimarosa” di Presenzano, in provincia di Caserta
Enel, leader nella produzione di energia pulita, considera l’idroelettrico una delle colonne portanti della transizione energetica, grazie alla sua affidabilità, flessibilità e capacità di integrarsi con altre fonti rinnovabili. Tra le tecnologie che guideranno la decarbonizzazione nei prossimi decenni, l’idroelettrico rimane una delle più solide, mature e strategiche. È una fonte rinnovabile antica, già utilizzata nei secoli per azionare mulini e macchinari, ma oggi completamente trasformata dall’innovazione industriale.
Per Enel, che ha anticipato al 2040 il traguardo del Net Zero, questa tecnologia rappresenta una risorsa strategica: combina innovazione, sostenibilità e benefici concreti per i territori. Il principio è semplice ma potentissimo: sfruttare la forza dell’acqua per mettere in rotazione turbine idrauliche collegate ad alternatori che producono elettricità. Dietro questo meccanismo lineare c’è però un lavoro ingegneristico complesso, fatto di dighe, gallerie, condotte forzate, sistemi di monitoraggio, regolazione dei flussi e integrazione con lo storage la rete elettrica.
Gli impianti idroelettrici gestiti da Enel non solo generano energia, ma svolgono una funzione preziosa nel controllo delle risorse idriche: aiutano a gestire periodi di siccità, a contenere gli effetti di precipitazioni eccezionali e a mantenere stabile il sistema elettrico nei picchi di domanda. Esistono tre principali tipologie di impianto: fluenti, che sfruttano la portata naturale dei corsi d’acqua; a bacino, dove le dighe trattengono l’acqua e permettono di modulare la produzione; e con pompaggio, un vero gioiello tecnologico. Qui i bacini sono due, uno a monte e uno a valle: l’acqua può essere riportata verso l’alto tramite le stesse turbine, trasformando il sistema in un grande “accumulatore naturale” di energia. Una riserva preziosa, che consente di compensare l’intermittenza delle altre fonti rinnovabili e di stabilizzare la rete elettrica quando il fabbisogno cresce improvvisamente.
Questo ruolo di bilanciamento è una delle ragioni per cui l’idroelettrico è considerato una tecnologia decisiva nella nuova architettura energetica. Nell’impianto di Dossi a Valbondione in provincia di Bergamo, , un sistema BESS (Battery Energy Storage System), Enel ha avviato il progetto di innovazione “BESS4HYDRO”, che entrerà in pieno esercizio nella primavera del 2026 e che prevede, per la prima volta in Europa, l’esercizio integrato di una batteria a litio in un impianto idroelettrico. Grazie alla maggiore flessibilità, l’impianto potrà svolgere anche servizi di rete che di norma vengono forniti da impianti a gas: diminuirà così il ricorso alle fonti fossili e aumenterà quindi la sostenibilità ambientale dell’intera operazione.
Accanto all’aspetto tecnico, c’è un altro valore: l’impatto positivo sui territori. Le grandi opere idroelettriche gestite da Enel hanno creato bacini artificiali che, oltre alla funzione energetica, hanno generato nuove opportunità per molte comunità. Turismo naturalistico, attività escursionistiche, pesca sportiva: gli invasi costruiti per la produzione elettrica si sono trasformati nel tempo in luoghi di valorizzazione paesaggistica ed economica, integrando il binomio energia-ambiente.
L’innovazione gioca un ruolo sempre più centrale. L’esperienza dell’impianto di Venaus, dove Enel ha integrato sulla vasca di scarico della centrale idroelettrica un sistema fotovoltaico galleggiante, dimostra come la combinazione tra diverse tecnologie possa aumentare la produzione rinnovabile senza consumare nuovo suolo. Allo stesso tempo, Enel investe in soluzioni che rendano gli impianti più sostenibili, efficienti e resilienti, puntando su manutenzione avanzata e modernizzazione delle strutture.
In un’epoca in cui la sicurezza energetica, la resilienza delle infrastrutture e la decarbonizzazione sono priorità globali, l’idroelettrico gestito da Enel dimostra di essere una tecnologia solida che guarda al futuro. Grazie alla sua capacità di produrre energia pulita, regolare i flussi idrici e stabilizzare la rete, continuerà ad accompagnare il percorso di transizione energetica, contribuendo in modo concreto agli obiettivi climatici dell’Italia e dell’Europa.
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