
Con il nuovo governo, gli euroburocrati sono disposti ad allentare i cordoni della borsa. Per Jean-Claude Juncker «Conte è come Tsipras» e il prof Giulio Sapelli profetizza «la svendita della nostra industria a Francia, Germania, Cina».Proprio come un cagnolino scodinzolante si vede offrire in dono un croccantino allo scopo di invogliarlo a eseguire diligentemente gli ordini impartiti dal padrone, neanche nato il governo giallorosso ha già ottenuto da Bruxelles la promessa di una gratifica in cambio della fedeltà che saprà dimostrare. L'annuncio solenne è stato formulato giovedì dal commissario europeo al Bilancio Gunther Oettinger. Non appena avuta conferma che l'incarico per formare il nuovo esecutivo sarebbe stato affidato a Giuseppe Conte, Oettinger ha rivelato che Bruxelles «è pronta a fare qualsiasi cosa per facilitare il lavoro del governo italiano quando entrerà in carica e per ricompensarlo». Stiamo parlando, tanto per intenderci, dello stesso personaggio che poco più di un anno fa sosteneva che sarebbero stati i mercati a insegnare a votare agli italiani. Certo, qualcuno potrà obiettare che quelle pronunciate oggi sono solo le considerazioni di un commissario uscente. C'è da dire, però, che l'attuale Commissione rimarrà in carica fino al termine di ottobre, e proprio a metà di quel mese è previsto l'invio da parte degli Stati membri (Italia inclusa) della Bozza programmatica di bilancio. Un documento fondamentale, in base al quale Bruxelles deciderà se aprire o meno una nuova procedura di infrazione. Si può affermare dunque, senza timore di smentita, che quando parla Oettinger lo fa nel pieno del suo mandato.Vale la pena chiedersi dunque quali siano i diktat ai quali l'Europa ci chiede di sottostare, e in cosa consista invece il guiderdone sventolato da Bruxelles. Le premesse sono tutt'altro che buone se Jean-Claude Juncker ha ritenuto opportuno puntualizzare che con Conte «è come con Tsipras», uno cioè che di sottomissione se ne intende. Buona parte della risposta al primo punto si trova nella missiva partita il 2 luglio scorso dal Mef e diretta all'attenzione di Juncker e del vicepresidente Valdis Dombrovskis, nella quale il ministro dell'Economia Giovanni Tria e il premier Conte ribadiscono «per il 2020 l'impegno a conseguire un miglioramento in linea con i requisiti del Patto di stabilità e crescita». Parole pesantissime, che rappresentano una seria ipoteca sulle future politiche di bilancio. Ma provando a spingersi un po' più in là rispetto a quanto viene riportato dalle carte bollate, si comprende che la posta in gioco è molto più alta. Qualche giorno fa ha fatto discutere lo scambio di tweet tra la presidente leghista della commissione Attività produttive della Camera Barbara Saltamartini («Dietro inciucio #m5spd agghiacciante verità: con le elezioni il popolo sceglierebbe #Salvini e loro sarebbero ridotti a comparse. Così invece si garantiscono la poltrona e un governo fedele all'élite francogermanica a cui svendere l'Italia») e il viceministro all'Economia Massimo Garavaglia (il quale riprendendo il tweet della Saltamartini scrive: «Occhio ai 18 miliardi di privatizzazioni: Eni, Leonardo, etc. Per un posto in cda questi svendono tutto»). Il tema come al solito è quello, caldissimo, delle nomine dei vertici delle aziende di cui via XX Settembre possiede una quota. Sul punto si è espresso assai duramente il professor Giulio Sapelli, il quale in un'intervista pubblicata ieri sul sussidiario.net ha tuonato: «Il nuovo governo si va formando a tempo di record proprio per questo. Pochi giorni fa ho avuto occasione di vedere il Pireo. È pieno di cinesi coperti d'oro. I greci fanno ormai solo i camerieri, gli autisti e i suonatori. Huawei è dappertutto». Per Sapelli, tolto di mezzo Matteo Salvini a insediarsi a Palazzo Chigi non è tanto un Conte bis, quanto piuttosto un «governo Macron». Che buona parte di questa crisi si stia giocando oltreconfine, in particolare oltralpe, non è un mistero per nessuno. Prova ne è il fatto che i nomi in quota Pd circolati in questi giorni per il totoministri e per la lotteria del commissario europeo recano tutti l'imprimatur dell'Eliseo. Si va da Paolo Gentiloni, sponsor del trattato del Quirinale e firmatario dell'accordo di Caen, che regala ampi spazi di mare ai cugini francesi; a Enrico Letta, ormai di casa a Parigi dove insegna alla Grande école Sciences Po e fa parte della commissione per la riforma della Pa francese voluta da Macron; fino a Sandro Gozi, che in attesa di approdare al Parlamento europeo tra i banchi di En marche è stato addirittura assunto dal governo francese. L'obiettivo finale, sostiene ancora Sapelli, è quello di trasformare l'Italia in una «piattaforma logistica per l'entrata della Francia in Africa e la svendita di ciò che resta del nostro apparato industriale a Francia, Germania e Cina». Quale sarebbe allora il tanto sbandierato premio che spetterebbe al nostro Paese per aver chinato il capo? Con un tempismo tanto azzeccato da sembrare sospetto, all'inizio di questa crisi si è magicamente materializzato lo spazio per un intervento fiscale. Un concetto introdotto qualche giorno fa dal ministro Tria al Corriere, poi confermato dal numero uno dell'Ocse Angel Gurria e infine ribadito dai vertici di Bruxelles. Gli stessi decimali di deficit per i quali Salvini si è accapigliato ripetutamente per mesi con Pierre Moscovici e Dombrovskis, dunque, ci vengano serviti ora dall'Ue come biscottino a garanzia della nostra obbedienza.
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