2025-03-20
Bruxelles boicotta i negoziati «Altre armi all’Ucraina». Ma ora i soldi non si trovano
Kaja Kallas snobba il dialogo Trump-Putin mentre i suoi 40 miliardi per Kiev diventano 5 Delirio del commissario Kubilius: «Entro il 2030 azioni su larga scala contro Mosca».Forse l’Europa non sa più in cosa credere e a chi obbedire, però si sta preparando a combattere. Ursula von der Leyen tuona: «L’era dei dividendi della pace è finita da tempo». Voi dormivate, lei vigila. Kaja Kallas constata: «Ora non abbiamo una guerra fredda, ma una guerra calda sul suolo europeo». I baltici scalpitano. Tutta la dirigenza dell’Ue è concorde: il dialogo Usa-Russia non s’ha da fare. Dello zar non ci si deve fidare, bisogna continuare a sostenere gli ucraini. Mentre noi ci avviciniamo al fatidico 2030, quando i nostri eserciti saranno acconci al confronto finale con la Russia, in realtà è meglio se a combattere sono loro.Bruxelles, dichiara il suo Alto rappresentante, «non può accettare» lo stop alle forniture militari a Kiev che sarebbe stato concordato tra Donald Trump e Vladimir Putin, anche se sul punto le versioni di Washington e Mosca divergono. E la Kallas non si esime dal denunciarlo. «Non può funzionare, non può essere l’accordo», insiste. «La garanzia di sicurezza più forte è un esercito ucraino forte». L’obiettivo ufficiale della Commissione, insomma, è cristallino: ostacolare il negoziato tra la Casa Bianca e il Cremlino. Mentre il presidente americano costruisce un compromesso difficile, insidioso, lungo un percorso che probabilmente sarà costellato di intese parziali e a volte parzialmente deludenti, l’Europa, che esige di stare al tavolo ma non ha mai lanciato una propria iniziativa diplomatica, si mette di traverso. Al massimo torna, con il tandem Von der Leyen-Antonio Costa, a invocare «una pace completa, giusta e duratura». Cosa significhi rimane un mistero. Nel frattempo, la Kallas, in un batter d’occhio, da falco è diventata piccione. Era partita dallo stanziamento di 40 miliardi per la resistenza, ma gli Stati membri recalcitrano. Così, il ministro degli Esteri europeo si è visto costretto a ripiegare su una «scala ridotta». Forse 5 miliardi per 2 milioni di munizioni chiesti da Volodymyr Zelensky. Tutta colpa, rosica l’ex premier estone, di «Paesi che sono lontani» dal fronte Est «e che forse non vedono la minaccia in modo così forte». Le trincee sono appese agli impegni di Francia e Germania; al voto di oggi in commissione Bilancio del Bundestag, che dovrà sbloccare l’ennesima consegna di materiali bellici; all’oltranzismo del Regno Unito, che furbescamente elogia gli sforzi di Trump ma intanto assicura che proseguirà con le spedizioni militari; e infine, ironia della sorte, al sostegno del tycoon, il quale, secondo la portavoce della Casa Bianca, darà una mano al presidente in tuta mimetica a ottenere i Patriot antiaerei... dall’Europa. Nel Vecchio continente, il massimo dello spirito negoziale lo esprime la Finlandia, che ieri ha accolto Zelensky intimando ai russi di accettare una tregua senza condizioni. Già: per quale motivo gli invasori, che stanno vincendo la guerra, dovrebbero rifiutare un’offerta tanto allettante? Se il senso della realtà che ha Bruxelles è questo, auguri a chi spera che essa riesca a toccare palla nelle trattative. La sua priorità, in fondo, è un’altra: la corsa agli armamenti.Ieri, la Commissione ha presentato il Libro bianco sulla Difesa, quello approvato la scorsa settimana dal Parlamento Ue. Fiutando il malcontento di Roma alla vigilia del Consiglio, il commissario Andrius Kubilius ha provato a prenderci per le tasche: «Leonardo è la più forte azienda europea della Difesa, sarebbe strano se l’Italia non esaminasse» le opportunità di sviluppo economico e occupazionale. Le spese in più ci daranno «un vantaggio competitivo», ha promesso la solita Kallas. Valdis Dombrovskis, commissario al Commercio, ha dettato la tabella di marcia: i Paesi membri attiveranno entro fine aprile le deroghe al Patto di stabilità, sotto una rigorosissima vigilanza. «Vogliamo evitare un defence washing», cioè che qualcuno spacci per investimenti nella Difesa altri sperperi. Tipo quelli per il welfare? Sul punto, Londra si è già spinta ben oltre i più ambiziosi progetti europei, tagliando i sussidi per disabili e malati. Il primo ministro Keir Starmer, a Westminster, ha proclamato: il loro costo era diventato «devastante». C’erano una volta i laburisti… Al di qua della Manica, per finanziare il riarmo si valuta invece uno «strumento innovativo»: il Mes. Buono per ogni stagione. «L’Europa è pronta a farsi avanti», ha giurato ieri la Von der Leyen, che ci vuole sull’attenti per il conflitto con Mosca entro il 2030. Per quella data, ha avvisato ancora Kubilius, il nemico cercherà di «mettere alla prova l’articolo 5 della Nato. Ecco perché abbiamo bisogno di una roadmap per la prontezza per il 2030», la formula citata nelle bozze del Consiglio Ue fissato per oggi. «Dobbiamo agire su larga scala». Il concetto di «larga scala», letto in parallelo con le dichiarazioni della tedesca di martedì, suona inquietante: la Russia si predispone «al futuro confronto con le democrazie europee», noi ci dobbiamo «preparare alla guerra». Non è che, a furia di ripeterlo, succede davvero? Paiono tutti convinti che il piano ReArm accrescerà la sicurezza collettiva. Nessuno ricorda il paradosso che contribuì a scatenare la prima guerra mondiale: percepisco il mio vicino come una minaccia; mi armo; credo di essermi messo al sicuro; e invece il mio vicino si convince che mi sto attrezzando per attaccarlo; ergo, si arma ancora di più, finché qualcuno attacca davvero, temendo di essere attaccato per primo. Altiero Spinelli l’aveva previsto: l’Europa - scrisse - per consolidarsi avrà bisogno di una guerra contro la Russia. Nelle ore in cui a Montecitorio ci si scannava sul Manifesto di Ventotene, l’Ue ci ha tenuto a dimostrare di aver studiato.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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