L'Europa s'impegna a tutelare le bottiglie francesi ma non le nostre. È un segno di fragilità mentre parte una nuova vendemmia. Ci specchiamo nei presunti successi, baloccandoci con troppi consorzi e perdendo redditività. E le cantine soffrono di nanismo.
L'Europa s'impegna a tutelare le bottiglie francesi ma non le nostre. È un segno di fragilità mentre parte una nuova vendemmia. Ci specchiamo nei presunti successi, baloccandoci con troppi consorzi e perdendo redditività. E le cantine soffrono di nanismo.Ha fatto irruzione anche nel recentissimo G7. Il vino, certo, ma un solo vino: quello francese. A fronte della minaccia di Donald Trump d'imporre dazi sulle bottiglie d'Oltralpe un altro Donald, Tusk, presidente del Consiglio europeo ha tuonato: ci batteremo in tutti i modi per difendere il vino. Francese. Ora da questo episodio si comprendono due cose: l'Europa l'Italia proprio non la calcola, secondo il vino nel mondo è solo francese. Con buona pace dei nostrani corifei dei successi del made in Italy che non hanno ancora capito che siamo un grande Paese di serie B. Abbiamo un gigante dai piedi d'argilla troppo frammentato, che fa del marketing rudimentale e che avrebbe bisogno di una profonda riflessione. A partire da una domanda: vino, fu vera gloria? Tanto per fare il verso al Manzoni abbacinato da Napoleone! Del resto i sudditi di Emmanuel Macron che stanno tramando insieme ai tedeschi per evitare guai dalla Brexit hanno una tale spocchia che si sono dimenticati che senza la Gran Bretagna sarebbero ancora sotto il tacco di Adolf Hitler e dunque dovrebbero portare un po' di rispetto in più a quel popolo d'Oltremanica che ebbe a dire con Winston Churchill che da solo si batteva contro i nazisti: «Ricordatevi, signori, non combattiamo solo per i francesi, ma anche per lo Champagne». A sir Churchill piaceva così tanto che la maison Pol Roger gli dedica da quasi un secolo una specialissima riserva che dalla morte dello statista britannico ha l'etichetta nera. Ora in Gran Bretagna si vende più Prosecco (ma fino a quando?) che Champagne anche se i fatturati sono imparagonabili. Comunque gli inglesi ci comprano spumante per quasi 190 milioni che non è proprio poco. L'episodio del G7di Biarritz però chiarisce due cose: l'immagine del vino italiano si è appannata in questi anni, gli interessi italiani non vengono minimamente tutelati. Perché a esempio l'Europa è andata dritta come un fuso nel firmare l'accordo Mercosur (quello con i Paesi sudamericani) ma a nessuno è venuto in mente di dire proteggiamo il Prosecco dal Brasile che ne produce la metà di quello che si fa a Conegliano e se lo vende in giro per il mondo. A nessuno è venuto in mente di dire: caro Trump non provare a mettere i dazi sul vino italiano anche se tutti sanno che gli Usa sono il primo e più ricco mercato per l'Italia delle cantine, a nessuno è venuto in mente di dire ai cinesi, che di etichette italiane ne comprano sempre meno, dovete fare posto anche al vino italiano. E attenzione perché mentre tutti si genuflettono ai vini francesi la Germania, che è il primo cliente dell'Italia in fatto di bottiglie, ci sta strozzando sui prezzi e confina le etichette tricolori nelle fasce bassissime del mercato. Facciamo queste considerazioni mentre siamo in piena vendemmia. Vedrete che ci saranno titoli roboanti sull'ottima annata, per citare il film di Ridley Scott che ancora una volta per raccontare una storia attorno al vino scelse la Provenza. Ci diranno che la quantità di uva è in leggera contrazione (in effetti è atteso un calo di produzione del 10-15%) e arriveremo vicini ai 45 milioni di quintali di raccolto. Ci racconteranno che la qualità è altissima anche se a pelle di leopardo. Guai a dire che metà delle regioni viticole hanno dovuto fare i conti con attacchi fungini, con il mal dell'esca, con la peronospora e che da qualche parte l'uva invece di essere maturata è marcita. Ci diranno che abbiamo sorpassato la Francia - che peraltro va incontro a una vendemmia scarsa, sui 43 milioni - ma se Dio vuole quest'anno non potremo dire che siamo i primi al mondo perché la Spagna che si avvia a una raccolta da 50 milioni di quintali forse ci sorpassa. La quantità di uva raccolta non significa pressoché nulla, ma è un segnale ulteriore che gli spagnoli stanno puntando decisamente sull'agricoltura mentre l'Italia si specchia nei suoi presunti successi, si balocca con i troppi comitati e consorzi e perde redditività. Un indicatore: la Spagna che sfrutta il momento magico di marketing è prima in Europa per vini biologici (noi siamo secondi). La verità è che da noi tutti si sciacquano la bocca con i successi del vino, ma poi a fare di conto si scopre, come dice un noto vignaiolo umbro, che «sul vino ci campano tutti tranne quelli che lo fanno».Facciamo un giro orizzonte per capire. La superficie viticola in Italia è in leggerissima ripresa: siano a 653.000 ettari dopo aver toccato il minimo di 635.000. Ma se calano le rese nessuno si strappa i capelli perché il vino si vende sempre meno. Si è ricorsi a stoccaggi sopra le medie, ci sono fortissime oscillazioni di prezzo e ora anche molte Doc hanno le botti piene e i conti in rosso. Tutti hanno cominciato a contingentare le produzioni perché le quotazioni sono in calo. In Veneto l'area del Pinot grigio avrà un terzo di produzione in meno ma è già ricorso allo stoccaggio di 30 quintali su 180 a ettaro. Succede udite udite anche nell'area del Prosecco Docg quella classica dove si vara uno stoccaggio di 15 quintali a ettaro per tenere il prezzo e anche quel mare di bollicine che è il Prosecco Doc comincia a fare i conti con la sovrapproduzione: porranno un tetto massimo di 150 quintali ad ettaro di uva commerciabile. Nella zona del Chianti classico hanno programmato una riduzione delle rese del 10% perché temono l'inflazione di prodotto. Il guaio lo ha creato come al solito l'Europa con i diritti di reimpianto. Negli anni scorsi le denominazioni più forti o che immaginavano una più forte espansione hanno comprato i diritti a piantare vigna al Sud dove di vino se ne faceva anche troppo e hanno reimpiantato al Nord alimentando un mercato delle vigne di carta. Morale oggi c'è una sovrapproduzione. Tanto per avere un'idea: abbiamo stoccato nelle cantine una vendemmia intera, circa 44 milioni di ettolitri.Una domanda sorge spontanea: è un settore in salute quello che deve tagliare la produzione, che ha scorte ingombranti e che non vede crescere le marginalità positive? È una domanda che tutti i vignaioli si fanno, ma non osano porsela in pubblico. Un po' di numeri forse aiutano a capire. Siamo stati in quantità il primo produttore mondiale nel 2018, ma siamo i secondi nell'export e con una distanza abissale dalla Francia. Lo scorso anno l'export ha toccato i 6,2 miliardi di euro, la Francia ha venduto per 9,3 miliardi. Il prezzo medio al litro del vino francese esportato è di 6,67 euro, quello italiano è 3,12 euro cioè meno della metà. Noi continuiamo a dire che il Prosecco è il nostro motore (ed è vero) ma le bollicine italiane si vendono soprattutto su tre mercati: Gran Bretagna, Usa e Germania. E questi tre mercati sono in fibrillazione. Ragionando di prezzi, diventa un abisso. Lo Champagne venduto fuori dalla Francia vale 2,9 miliardi di euro, il valore di tutto l'export del Prosecco non arriva al miliardo, il prezzo medio al litro dello Champagne è stato di 25 euro, quello del Prosecco mettendo insieme Conegliano-Valdobbiane Docg, Asolo Docg e Prosecco Doc sta sotto i 4 euro. Prendiamo la promozione: abbiamo speso 100 milioni europei per fare pubblicità al vino italiano ma l'Ocm vino - è il sistema per attingere fondi comunitari che prevede la compartecipazione delle aziende alle spese - in Italia è partita quasi con un anno di ritardo. Il risultato è che oltre i mercati tradizionali non andiamo. Abbiamo perso quote in Cina e in Russia, non sfondiamo in Giappone e nel Nord Europa e presidiamo i mercati come l'America con grandi sforzi. Nella lista dei vini più cari al mondo non c'è neppure una bottiglia italiana e in Cina comprano solo se il vino è caro non se è buono. È tempo che vi sia una profonda riflessione sul modo in cui vendiamo il vino. Una domanda su tutte: siamo sicuri che il sistema delle Doc sia il migliore per stare sul mercato italiano? In complesso abbiamo 526 denominazioni ma è bastato che entrasse sul mercato l'Igp Pinot grigio del Veneto per far sballare tutte le statistiche che glorificano il grande appeal delle Doc italiane. È vero che i vini a denominazione sono quelli che sono cresciuti di più, ma la domanda che viene spontanea è: così come è organizzata la filiera regge la sfida della globalizzazione? La Francia che è un sistema coeso tiene tre vessilli innalzati: Bordeaux, Borgogna e Champagne e poi vende il resto al traino del brand Francia. In Italia tutto questo non c'è. Oggi sul mercato mondiale si vendono i brand aziendali. Una prova? Di recente Sandro Boscaini e Bruno Vespa hanno messo insieme i loro vini rossi di punta per creare Terregiunte, un vino tra Veneto e Puglia, tra Amarone e Negramaro. Hanno rinunciato al traino della denominazione, hanno scommesso sul brand. Perché? Per creare un rosso di fascino che punta dritto al consumatore senza intermediazioni e apre una nuova strada alla concezione del vino come prodotto glamour. È un modo per andare oltre le denominazioni che appare oggi però quasi indispensabile salvo rarissimi casi perché le cantine italiane soffrono di nanismo. Tanto per avere un'idea, Constellation Brands vende vino per 7 miliardi: nelle top 20 aziende del mondo non ce n'è una italiana ma ce ne sono ben 4 francesi; la nostra prima azienda è il Giv (Gruppo italiano vini, azienda cooperativa) che fattura 370 milioni cioè un ventesimo del primo player mondiale. Ecco, il mondo del vino italiano affascinante che fa prodotti straordinari, che punta sui territori e la biodiversità, ha forse bisogno di uscire dal compiacimento e puntare al rinnovamento. Lo dicono ancora i numeri. Nei produciamo circa 50 milioni di ettolitri, metà di questi li fanno 518 cooperative e il resto sono oltre 35.000 aziende vinificatrici. Fatturiamo 14 miliardi di euro e ne vendiamo all'estero per 6,2 miliardi, ma siamo a metà quota della Francia. Infine abbiamo un mercato interno in contrazione: siamo ormai scesi a 37 litri pro capite. E ci tocca sperare di vendemmiare poco perché abbiamo troppo vino in cantina: Forse non tutto quel che fermenta è oro! (8. Fine)
Roberto Crepaldi
La toga progressista: «Voterò no, ma sono in disaccordo con il Comitato e i suoi slogan. Separare le carriere non mi scandalizza. Il rischio sono i pubblici ministeri fuori controllo. Serviva un Csm diviso in due sezioni».
È un giudice, lo anticipiamo ai lettori, contrario alla riforma della giustizia approvata definitivamente dal Parlamento e voluta dal governo, ma lo è per motivi diametralmente opposti rispetto ai numerosi pm che in questo periodo stanno gridando al golpe. Roberto Crepaldi ritiene, infatti, che l’unico rischio della legge sia quello di dare troppo potere ai pubblici ministeri.
Magistrato dal 2014 (è nato nel 1985), è giudice per le indagini preliminari a Milano dal 2019. Professore a contratto all’Università degli studi di Milano e docente in numerosi master, è stato componente della Giunta di Milano dell’Associazione nazionale magistrati dal 2023 al 2025, dove è stato eletto come indipendente nella lista delle toghe progressiste di Area.
Antonella Sberna (Totaleu)
Lo ha dichiarato la vicepresidente del Parlamento Ue Antonella Sberna, in un'intervista a margine dell'evento «Facing the Talent Gap, creating the conditions for every talent to shine», in occasione della Gender Equality Week svoltasi al Parlamento europeo di Bruxelles.
Ansa
Mirko Mussetti («Limes»): «Trump ha smosso le acque, ma lo status quo conviene a tutti».
Le parole del presidente statunitense su un possibile intervento militare in Nigeria in difesa dei cristiani perseguitati, convertiti a forza, rapiti e uccisi dai gruppi fondamentalisti islamici che agiscono nel Paese africano hanno riportato l’attenzione del mondo su un problema spesso dimenticato. Le persecuzioni dei cristiani In Nigeria e negli Stati del Sahel vanno avanti ormai da molti anni e, stando ai dati raccolti dall’Associazione Open Doors, tra ottobre 2023 e settembre 2024 sono stati uccisi 3.300 cristiani nelle province settentrionali e centrali nigeriane a causa della loro fede. Tra il 2011 e il 2021 ben 41.152 cristiani hanno perso la vita per motivi legati alla fede, in Africa centrale un cristiano ha una probabilità 6,5 volte maggiore di essere ucciso e 5,1 volte maggiore di essere rapito rispetto a un musulmano.






