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2021-11-01
Un italiano compì il primo bombardamento aereo della storia
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In primo piano il tenente Gavotti in Libia con il suo Etrich Taube (Getty Images)
Siamo ancora agli albori dell'età pionieristica dell'aviazione, quando il tenente italiano Giulio Gavotti compì il primo bombardamento aereo della storia. Era il 1 novembre 1911 e l'Italia era in guerra contro l'Impero Ottomano per il possesso della Libia, in quella guerra lontana nel tempo che prese il nome di Italo-Turca. L'arma aeronautica, che praticamente non esisteva, fu per la prima volta utilizzata con funzioni di osservazione per il tiro di artiglieria e per la fanteria. I piloti con brevetto si contavano sulle dita di una mano, la maggior parte provenienti da ricche famiglie nobili o alto-borghesi ed avevano compiuto studi di ingegneria prima di arruolarsi nell'arma del Genio come ufficiali. A tutto il 1910 gli ufficiali che avevano ottenuto il brevetto di volo erano appena 30. Tra di essi figurava Giulio Gavotti, classe 1882, che proveniva da una famiglia genovese di nobile casato, i marchesi Gavotti. Dopo aver compiuto gli studi di ingegneria a Bologna nel 1906 si arruola a Torino come ufficiale di complemento nel Genio, per poi prestare servizio a Roma nella stessa specialità. Si avvicinò al volo prima ottenendo l'abilitazione ai velivoli sferici (aerostati e dirigibili) per passare appena dopo al volo su aeroplano. All'aeroporto di Centocelle (dove nel 1909 insegnò Wilbur Wright, uno dei fratelli che inventarono l'aeroplano appena sei anni prima) fu abilitato al volo su biplano Farman nel dicembre 1910. Poco dopo il conseguimento, Gavotti partecipò ad uno dei primi raid aerei della storia dell'aviazione, da Bologna a Venezia e ritorno. Qui conobbe i primi "assi" dell'aviazione che saranno suoi compagni nella campagna di Libia: Carlo Maria Piazza (vincitore della competizione) e Riccardo Moizo.
Il 29 settembre 1911 scoppiava la guerra Italo-Turca. Quegli stessi pionieri del volo che avevano tenuto gli spettatori col naso all'insù nei cieli di Bologna e Venezia furono inviati nel teatro di guerra inquadrati nella specialità del Genio, dal quale provenivano. Si trattava della prima volta in assoluto in cui l'aeroplano veniva utilizzato per scopi bellici. Gli aerei inviati in Libia erano nove in tutto, di differenti modelli. C'erano i monoplani Blériot XI (quello della trasvolata della Manica nel 1909), il Farman biplano, i Nieuport e gli Etrich Taube (in italiano colomba), dalla caratteristica forma che ricordava molto quella di un volatile. Il primo bombardamento aereo fu portato a termine proprio da questo monoplano in legno e tela, ispirato nel progetto dai semi di una pianta tropicale, la alsomitra macrocarpa, caratterizzati dalla capacità di sostentarsi e di planare a lungo nel vento. Il motore che lo spingeva in volo era un Mercedes-Benz da 100 Cv in grado di fargli raggiungere la velocità di circa 100 Km/h ad una quota massima di 2.000 metri per un'autonomia di volo di circa 150 Km.
Al trentatreesimo giorno di guerra, quel Taube affidato al tenente Gavotti cambiò la storia dell'aviazione e in generale della guerra, dando il via alla pratica del bombardamento aereo.
L'idea messa in pratica dall'aviatore genovese, ispirò le teorie sul bombardamento aereo del generale Giulio Douhet, il quale scrisse più tardi un trattato strategico-militare sull'uso dell'aeroplano in funzione offensiva, essendo stato in Libia a fianco di Gavotti in qualità di osservatore del Servizio aeronautico italiano. Era il 1° novembre 1911 quando il nobile pilota genovese preparò il suo Taube per un volo di ricognizione sulle postazioni nemiche. La partenza avvenne da una pista di aviazione nei pressi di Tripoli, la destinazione l'oasi di Ain Zara distante pochi chilometri a Sud della capitale libica. Gavotti fece tutto da solo. Da qualche tempo aveva in mente di portare con sé in volo alcune bombe a mano per tentare l'offensiva dal cielo e nelle prime ore del mattino di quel giorno l'occasione gli parve propizia. Prese così con sé tre bombe a mano "Cipelli" per riporne due in una cassetta appesa alla fusoliera e prudentemente imbottita per evitare sussulti durante il volo. La terza la tenne con sé nella giacca da aviatore e decollò alle prime luci dell'alba compiendo un primo tratto sopra il mare per prendere la quota di 700 metri e stabilizzarsi puntando all'entroterra. L'oasi di Ain Zara aveva circa 2.000 effettivi a sua difesa, totalmente ignari di quella improvvisa visita dal cielo. Gavotti, giunto a circa un chilometro dall'obiettivo, iniziò ad armare le bombe tenendo la miccia di innesco tra i denti non potendo mollare i comandi del Taube e pochi minuti dopo, giunto sopra l'accampamento nemico dopo aver compiuto un'ampia virata, mirò all'edificio più grande. Con la mano destra prese la bomba sferica del peso di circa 2 chilogrammi e sempre con la bocca tolse la sicura. Scagliò l'ordigno fuori dalla carlinga, stando bene attento a non colpire l'ala di tela che frusciava nel vento. Per pochi istanti la vide precipitare, e poco dopo fu in grado di scorgere una nuvola bianca emergere dal centro dell'oasi, e si accorse che aveva colpito un edificio più piccolo vicino a quello che precedentemente aveva cercato (ad occhio) di puntare. Poi scagliò la seconda bomba prima di mettere nuovamente la prua verso Tripoli, dove scaglierà la terza sugli avamposti ottomani nei pressi della capitale libica. Non si conobbe mai l'entità dei danni provocati dalle prime bombe piovute dal cielo, ma probabilmente nessun nemico fu ucciso in quell'occasione. Tuttavia la notizia fece una grande impressione sin dal momento in cui, planato sulla pista d'atterraggio, il marchese Gavotti diede la notizia ai suoi superiori. Pochi giorni dopo la notizia arrivò alla stampa italiana, che diede risalto all'impresa con articoli e copertine, come quella della Domenica del Corriere. L'eco del primo bombardamento aereo al mondo portato a termine da un aviatore italiano non sfuggì certo alla penna di Gabriele d'Annunzio, che celebrò le gesta dell'Icaro armato di bombe con un componimento poetico dedicato all'impresa libica dal titolo La canzone della Diana. Alla diciannovesima terzina del poema dedicato alle gesta italiane, il pioniere del volo è citato per nome.
S'ode nel cielo un sibilo di frombe/
Passa nel cielo un pallido avvoltoio/
Giulio Gavotti porta le sue bombe.
E poi, più avanti nel componimento, il marchese dell'aria viene nuovamente menzionato.
E tu Gavotti, dal tuo lieve spalto/
chinato nel pericolo dei vènti/
sul nemico che ignora il novo assalto!
Il sigillo del Vate coronò l'impresa, che fu suggellata dal conferimento nel 1912 della Medaglia d'Argento al Valor Militare per l'azione del 1°novembre 1911 e per la seconda incursione su Gargaresch.
Congedato alla fine del conflitto, Giulio Gavotti rimarrà attivo nel Genio Aeronautico e poco più tardi nella neonata Regia Aeronautica. Terminerà la sua carriere come consigliere di amministrazione delle linee aeree italiane del ventennio, L'Ala Littoria. Si spense a Roma il 6 ottobre 1939. Non visse abbastanza a lungo per sapere delle bombe atomiche gettate sulle città di Hiroshima e Nagasaki appena sei anni più tardi. Erano passati solo 34 anni da quelle prime granate scagliate a mano da un aereo in tela dalle caratteristiche ali di uccello.
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Il 1° novembre 1911 il tenente Giulio Gavotti scagliò due bombe su un accampamento nemico dal suo monoplano Taube durante la guerra in Libia. Cominciava così la lunga storia della guerra aerea.Siamo ancora agli albori dell'età pionieristica dell'aviazione, quando il tenente italiano Giulio Gavotti compì il primo bombardamento aereo della storia. Era il 1 novembre 1911 e l'Italia era in guerra contro l'Impero Ottomano per il possesso della Libia, in quella guerra lontana nel tempo che prese il nome di Italo-Turca. L'arma aeronautica, che praticamente non esisteva, fu per la prima volta utilizzata con funzioni di osservazione per il tiro di artiglieria e per la fanteria. I piloti con brevetto si contavano sulle dita di una mano, la maggior parte provenienti da ricche famiglie nobili o alto-borghesi ed avevano compiuto studi di ingegneria prima di arruolarsi nell'arma del Genio come ufficiali. A tutto il 1910 gli ufficiali che avevano ottenuto il brevetto di volo erano appena 30. Tra di essi figurava Giulio Gavotti, classe 1882, che proveniva da una famiglia genovese di nobile casato, i marchesi Gavotti. Dopo aver compiuto gli studi di ingegneria a Bologna nel 1906 si arruola a Torino come ufficiale di complemento nel Genio, per poi prestare servizio a Roma nella stessa specialità. Si avvicinò al volo prima ottenendo l'abilitazione ai velivoli sferici (aerostati e dirigibili) per passare appena dopo al volo su aeroplano. All'aeroporto di Centocelle (dove nel 1909 insegnò Wilbur Wright, uno dei fratelli che inventarono l'aeroplano appena sei anni prima) fu abilitato al volo su biplano Farman nel dicembre 1910. Poco dopo il conseguimento, Gavotti partecipò ad uno dei primi raid aerei della storia dell'aviazione, da Bologna a Venezia e ritorno. Qui conobbe i primi "assi" dell'aviazione che saranno suoi compagni nella campagna di Libia: Carlo Maria Piazza (vincitore della competizione) e Riccardo Moizo. Il 29 settembre 1911 scoppiava la guerra Italo-Turca. Quegli stessi pionieri del volo che avevano tenuto gli spettatori col naso all'insù nei cieli di Bologna e Venezia furono inviati nel teatro di guerra inquadrati nella specialità del Genio, dal quale provenivano. Si trattava della prima volta in assoluto in cui l'aeroplano veniva utilizzato per scopi bellici. Gli aerei inviati in Libia erano nove in tutto, di differenti modelli. C'erano i monoplani Blériot XI (quello della trasvolata della Manica nel 1909), il Farman biplano, i Nieuport e gli Etrich Taube (in italiano colomba), dalla caratteristica forma che ricordava molto quella di un volatile. Il primo bombardamento aereo fu portato a termine proprio da questo monoplano in legno e tela, ispirato nel progetto dai semi di una pianta tropicale, la alsomitra macrocarpa, caratterizzati dalla capacità di sostentarsi e di planare a lungo nel vento. Il motore che lo spingeva in volo era un Mercedes-Benz da 100 Cv in grado di fargli raggiungere la velocità di circa 100 Km/h ad una quota massima di 2.000 metri per un'autonomia di volo di circa 150 Km.Al trentatreesimo giorno di guerra, quel Taube affidato al tenente Gavotti cambiò la storia dell'aviazione e in generale della guerra, dando il via alla pratica del bombardamento aereo. L'idea messa in pratica dall'aviatore genovese, ispirò le teorie sul bombardamento aereo del generale Giulio Douhet, il quale scrisse più tardi un trattato strategico-militare sull'uso dell'aeroplano in funzione offensiva, essendo stato in Libia a fianco di Gavotti in qualità di osservatore del Servizio aeronautico italiano. Era il 1° novembre 1911 quando il nobile pilota genovese preparò il suo Taube per un volo di ricognizione sulle postazioni nemiche. La partenza avvenne da una pista di aviazione nei pressi di Tripoli, la destinazione l'oasi di Ain Zara distante pochi chilometri a Sud della capitale libica. Gavotti fece tutto da solo. Da qualche tempo aveva in mente di portare con sé in volo alcune bombe a mano per tentare l'offensiva dal cielo e nelle prime ore del mattino di quel giorno l'occasione gli parve propizia. Prese così con sé tre bombe a mano "Cipelli" per riporne due in una cassetta appesa alla fusoliera e prudentemente imbottita per evitare sussulti durante il volo. La terza la tenne con sé nella giacca da aviatore e decollò alle prime luci dell'alba compiendo un primo tratto sopra il mare per prendere la quota di 700 metri e stabilizzarsi puntando all'entroterra. L'oasi di Ain Zara aveva circa 2.000 effettivi a sua difesa, totalmente ignari di quella improvvisa visita dal cielo. Gavotti, giunto a circa un chilometro dall'obiettivo, iniziò ad armare le bombe tenendo la miccia di innesco tra i denti non potendo mollare i comandi del Taube e pochi minuti dopo, giunto sopra l'accampamento nemico dopo aver compiuto un'ampia virata, mirò all'edificio più grande. Con la mano destra prese la bomba sferica del peso di circa 2 chilogrammi e sempre con la bocca tolse la sicura. Scagliò l'ordigno fuori dalla carlinga, stando bene attento a non colpire l'ala di tela che frusciava nel vento. Per pochi istanti la vide precipitare, e poco dopo fu in grado di scorgere una nuvola bianca emergere dal centro dell'oasi, e si accorse che aveva colpito un edificio più piccolo vicino a quello che precedentemente aveva cercato (ad occhio) di puntare. Poi scagliò la seconda bomba prima di mettere nuovamente la prua verso Tripoli, dove scaglierà la terza sugli avamposti ottomani nei pressi della capitale libica. Non si conobbe mai l'entità dei danni provocati dalle prime bombe piovute dal cielo, ma probabilmente nessun nemico fu ucciso in quell'occasione. Tuttavia la notizia fece una grande impressione sin dal momento in cui, planato sulla pista d'atterraggio, il marchese Gavotti diede la notizia ai suoi superiori. Pochi giorni dopo la notizia arrivò alla stampa italiana, che diede risalto all'impresa con articoli e copertine, come quella della Domenica del Corriere. L'eco del primo bombardamento aereo al mondo portato a termine da un aviatore italiano non sfuggì certo alla penna di Gabriele d'Annunzio, che celebrò le gesta dell'Icaro armato di bombe con un componimento poetico dedicato all'impresa libica dal titolo La canzone della Diana. Alla diciannovesima terzina del poema dedicato alle gesta italiane, il pioniere del volo è citato per nome. S'ode nel cielo un sibilo di frombe/Passa nel cielo un pallido avvoltoio/Giulio Gavotti porta le sue bombe.E poi, più avanti nel componimento, il marchese dell'aria viene nuovamente menzionato.E tu Gavotti, dal tuo lieve spalto/chinato nel pericolo dei vènti/sul nemico che ignora il novo assalto!Il sigillo del Vate coronò l'impresa, che fu suggellata dal conferimento nel 1912 della Medaglia d'Argento al Valor Militare per l'azione del 1°novembre 1911 e per la seconda incursione su Gargaresch. Congedato alla fine del conflitto, Giulio Gavotti rimarrà attivo nel Genio Aeronautico e poco più tardi nella neonata Regia Aeronautica. Terminerà la sua carriere come consigliere di amministrazione delle linee aeree italiane del ventennio, L'Ala Littoria. Si spense a Roma il 6 ottobre 1939. Non visse abbastanza a lungo per sapere delle bombe atomiche gettate sulle città di Hiroshima e Nagasaki appena sei anni più tardi. Erano passati solo 34 anni da quelle prime granate scagliate a mano da un aereo in tela dalle caratteristiche ali di uccello.
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Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
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Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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