
I casari firmano le forme di formaggio per contraddistinguerle da quelle del consorzio Dop, che ha modificato il disciplinare della tradizione. L'origine risale ai celti, che trovarono rifugio in Valtellina. A Gerola veniva distribuito all'uscita della messa.Il vecchio adagio che, quando ti avvicini a un prodotto ne mangi anche la storia, è quanto mai attuale per il bitto, formaggio bandiera e testimonial di una Valtellina crocevia di popoli e relative tradizioni. I primi indizi riportano ai celti, confinati in queste valli dall'Impero romano, cui si sovrapposero poi i longobardi in luoghi dove l'importante era resistere a un ambiente poco favorevole per l'agricoltura, ma in cui la sapiente gestione dell'alpeggio permetteva di far tesoro dei frutti della caseificazione.Ci voleva l'abilità del casaro, la paziente dedizione quotidiana di una società familiare che si prendeva cura degli alpeggi come fosse il prato di casa propria. Terreni di proprietà di vescovi e abati di Como, Lodi, oltre che di Milano, cui poi si aggiunsero rami nobiliari delle aree circostanti. Proprietari che avevano bisogno di una buona rendita di vaste aree. Il nome deriva da un piccolo torrente che scorre tra le valli di Gerola e Albaredo il quale poi, gettandosi nell'Adda, permetteva alle merci di viaggiare sino a Como e da lì a Milano. Sul finire del Cinquecento si aprì un'altra importante rotta commerciale, la Via Priula, voluta dal podestà veneziano di Bergamo, Alvise Priuli, una «grande opera» dell'epoca che si completò in due anni e che aprì i mercati della Serenissima. Oramai il formaggio delle valli del bitto era diventato adulto, tanto da essere citato in un'opera di Ortensio Lando, una sorta di guida alle bellezze irrinunciabili del Belpaese. Formaggio importante, resisteva ai lunghi trasporti a dorso di mulo e sulle rotte naviganti poi, per arrivare sulle ricche tavole dei proprietari valligiani del tempo. Talmente importante nell'economia locale che era avviato tutto alla vendita, unica eccezione il giorno dei morti, posto che un certo Pietro De Mazzi, detto Bedolino, nel 1545 aveva lasciato alla comunità di Gerola la rendita dell'alpe di Trona, in maniera tale da consentire la distribuzione di pane e bitto all'uscita della messa. Non a caso qualcuno ha parlato di plurisecolare civiltà del bitto, posto che da questo equilibrio tra ambiente naturale, gestione del pascolo e relativa lavorazione del prodotto è stato messo a punto un protocollo d'invidiabile eccellenza. La stagione della monticazione va da giugno a metà settembre. Le aree di pascolo sono delimitate con tanto di barech piccole stazioni racchiuse da muretti, dove il bestiame veniva radunato per la notte. Le mungiture avvenivano all'alba e poi nel pomeriggio vicino al calecch, una sorta di baita di lavorazione itinerante. Un piccolo miracolo di archeotecnologia rurale. Non passava neanche mezzora perché il latte, dalla fonte naturale, arrivasse direttamente alla culdera, enorme paiolo in rame a forma di campana rovesciata. In questo modo manteneva la temperatura nativa e non c'era la possibilità di alterazione della microflora lattea. Altro aspetto caratteristico, l'assetto rigidamente familiare di gran parte dei monticanti. Dal casaro, ai pastori, ai vari aiutanti, appartenevano più o meno tutti agli stessi nuclei familiari, suddivisi per i rispettivi pascoli di appartenenza, con una trasmissione verticale dei saperi arrivata sino a noi. Un esempio di alpicoltura considerato esemplare da Stefano Jacini, il padre delle riforme agrarie di fine Ottocento e premiato da Arrigo Serpieri, un agronomo che aveva confrontato le esperienze della cintura alpina nazionale con quelle della vicina Svizzera. Vi sono molte tradizioni che vanno oltre la memoria della narrazione orale. Ecco allora l'homo selvadego, una figura presente, con nomi diversi, in tutto l'arco alpino, sorta di nume tutelare cui si fanno risalire i primi insegnamenti ai valligiani sulle lavorazioni del latte. Una creatura del bosco dalle fattezze umane che si può ancora vedere in un affresco del Quattrocento, opera di Angelo Baschenis, nella camera picta di Sacco, a Cosio Valtellino, oppure in versione più ieratica ricollegato al mito dell'eremita Onofrio, nella chiesa di Santa Brigida, patrona dei casari e del bestiame che ricollega all'antica tradizione delle popolazioni celtiche.A un certo punto, i numeri della modernità hanno cercato di sopravanzare il credo e i dettami della tradizione. A metà degli anni Novanta il bitto raggiunge la prestigiosa denominazione Dop, che poteva essere uno stimolo a valorizzare ulteriormente un prodotto con i suoi secoli di storia. Ma a volte le ragioni dell'economia possono essere in contrasto con il credo di tradizioni consolidate. Così sono state inserite alcune modifiche nel disciplinare di produzione. Per i malgari storici, in palese contraddizione con la tradizione, come ad esempio la possibilità di usare enzimi chimici al posto del caglio naturale di vitello e non ritenere indispensabile l'apporto di latte della capra orobica, con uno straordinario apporto di aromi e profumi. Se a questo aggiungiamo che nell'alimentazione vaccina il fieno poteva tranquillamente sostituire l'erba d'alpeggio, la misura era colma. Si apre una lunga diatriba tra i testimoni dei pascoli del tempo e i nuovi caseifici, tanto che, nel 2016, i 12 resistenti rompono gli indugi e, pur di mantenere la tradizione, rinunciano al nome. Se all'inizio si era cercato una mediazione, concedendo a questi irriducibili l'utilizzo del nome bitto storico, da allora si parla di storico ribelle, e così sia. Una scelta difficile, coraggiosa, che ha visto portabandiera Paolo Ciapparelli, il vero apostolo che non ha voluto snaturare il bitto sull'altare della modernità. Ora il bitto «dop.ato» viaggia a 20.000 forme l'anno, mentre l'altro a circa 1.500. Con costi completamente diversi, ma ne vale la pena. La visita del «santuario», ovvero la casera di Gerola alta, ne è un esempio. Dopo un anno le forme che prendono la strada dell'affinamento pluriennale si riducono del 90 per cento. Delle restanti varcano il traguardo dei dieci anni una trentina (cioè il 2 per cento) per ogni singolo anno di lavorazione. Aggirarsi negli interni del «santuario» è un'emozione golosa. Mentre la Dop tradizionale pone un'etichetta di carta sopra le forme, qui tutto è personalizzato. Scritto con inchiostro alimentare blu vi è il nome dell'alpeggio, del casaro. C'è chi le personalizza con simboli identitari di alpini, ma anche con motti filosofici: manducando gaudeamus, oppure «to bitto or not to be». Ma la personalizzazione passa anche per le storie di questi casari di resistenza umana. Il volto iconico di Mosè Manni, un ottuagenario con oltre 70 stagioni d'alpeggio sulle spalle, la cui famiglia «bitta» dal 1737. Storico ribelle dalla continuità generazionale, come testimonia il volto giovane e appassionato di Carlo Duca: «In alpeggio il problema dell'alimentazione dell'animale non si pone perché l'erba di montagna è una garanzia del risultato». L'approdo a tavola merita il massimo rispetto. Quello fresco ci sta con confetture o frutta secca. Gli sciatti sono delle frittelline di grano saraceno, dette rospetti nell'idioma locale, per la loro forma dalla codina allungata. Classici gli abbinamenti con i pizzoccheri o la polenta taragna. Da provare con risotto e pere o con la cugina valligiana, l'intrigante bresaola. Infine, per mettere d'accordo tutti, perché negarsi il bitto in versione gelato? Provare per credere.
(Getty Images)
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