2023-09-04
«Il biodinamico non è solo fuffa. Adesso serve un Biologico 3.0»
Nel riquadro la cover del libro di Alberto Berton «La storia del biologico» (iStock)
Alberto Berton, storico dell’alimentazione: «Per restare fedeli ai principi originari bisogna andare oltre gli obiettivi di aumento del fatturato. E va anche risolto il problema della convergenza con i prodotti industriali».Alberto Berton, esperto di distribuzione alimentare, si occupa di biologico da più di vent’anni. Per Jaca Book ha appena pubblicato La storia del biologico, con prefazione di Piero Bevilacqua. «Il concetto di biologico», racconta, «nasce all'inizio del Novecento come reazione allo svilupparsi dell’agricoltura industriale in Nord America, Europa e altre parti del mondo. Dalla metà dell'Ottocento si era assistito allo sviluppo dell'industria dei fertilizzanti minerali, che aveva fatto seguito agli studi di Liebig sulla nutrizione delle piante. Intorno alla fine dell'Ottocento era nata e si era sviluppata la scienza del suolo, dagli studi di Darwin sull'importanza dei vermi alle prime scoperte della microbiologia sulle simbiosi, le micorrize e i batteri azotofissatori. In tal modo si erano create nelle scienze agrarie due visioni contrapposte sulla nutrizione delle piante».Quali?«La visione dell'agricoltura industriale basata sull’acquisto di fertilizzanti basati su sali solubili, ed una visione più biologica ed ecologica, basata sul miglioramento del suolo. L’agricoltura biologica nacque come alternativa all’agricoltura industriale e come reazione all'evidenza dei danni da essa arrecati al suolo, come nel disastro del Bust Bowl negli anni Trenta negli Usa. In Germania loghi di garanzia biologico e biodinamico sono già in uso negli anni Venti. In Inghilterra, fu l’aristocratico inglese Walter James il primo ad utilizzare in un testo del 1940 il termine organic per qualificare un’agricoltura alternativa a quella industriale. In Italia, fu l’agronomo Alfonso Draghetti, direttore della Stazione sperimentale agraria di Modena, il primo a distinguere in modo netto la “concezione economica” dell’azienda agraria dalla “concezione biologica”». Che differenza c'è tra biologico e biodinamico?«Il biologico si basa sulla scienza dell’ecologia e sui principi di salute, equità e cura. Il biodinamico si basa sugli stessi principi e metodi del biologico (uso del letame e del compost, rotazioni, consociazioni, ecc) e - sta qui la differenza - sull’uso dei preparati steineriani».Sul biodinamico ci sono state negli ultimi anni tantissime polemiche. Viene presentato come se fosse una pratica magica. Lei approfondisce il ruolo che ebbe nel suo sviluppo Rudolf Steiner. Esiste un lato «esoterico» di questa pratica? È giusto che il biodinamico sia ridotto a una sorta di superstizione come avviene oggi?«Esiste chiaramente un lato “esoterico” nella pratica biodinamica. I preparati steineriani sono pratiche rituali che si aggiungono a un metodo di lavoro biologico in agricoltura, non hanno giustificazione scientifica. Oltre ad avere una giustificazione spirituale, i preparati steineriani, a mio parere, hanno una giustificazione storica, nel senso che essi hanno permesso il superamento di quell’impasse a cui aveva condotto, da un punto di vista strettamente agronomico, l’ideale vegano di “un’agricoltura senza animali”, ideale su cui si era bloccato il primo movimento del biologico nei paesi di lingua tedesca. Mi riferisco alla Lebensreform, movimento nato proprio sul principio di una dieta vegetariana. Di questo movimento tardo-romantico, profondamente intriso di elementi spirituali e esoterici, Steiner è stato una delle figure più rappresentative. Alla fine della sua vita, su richiesta di un gruppo di agricoltori, Steiner indicò nell'uso del “letame spirituale” e degli altri preparati un modo, chiaramente ritualizzato, per reintrodurre l'elemento animale (il letame innanzitutto) nell’agricoltura biologica che si era sviluppata in quegli anni a partire dagli sviluppi della microbiologia del suolo. A mio parere non è corretto quindi ridurre il biodinamico a una sorta di superstizione, nel senso che esso ha come sua base agronomica i metodi dell'agricoltura biologica, a cui sono state aggiunte alcune pratiche che hanno un carattere ritualistico e che devono essere comprese nel contesto in cui si sono sviluppate. Non credo comunque abbia senso destinare risorse pubbliche in ricerche riguardanti l'efficacia agronomica di queste pratiche». Dopo la fase iniziale e pionieristica il biologico ha un grosso impulso negli anni della cosiddetta controcultura. Che cosa accadde in quel periodo?«A seguito del successo di Silent Spring, il libro del 1962 nel quale la biologa Rachel Carson denunciò l’uso improprio del Ddt in agricoltura, e di quella rapida serie di eventi che portò alla Primavera dell’ecologia del periodo 1969-1972, nella quale il movimento giovanile pose per la prima volta a proprio fondamento l’ecologia, l’agricoltura e il cibo biologico tornarono ad essere di interesse in quanto, innanzitutto, “prodotti senza pesticidi”. La controcultura inoltre individuò nella produzione e distribuzione di cibo uno spazio in cui poter agire quotidianamente al fine di costruire una società più democratica, ecologica, non violenta. In questo particolare contesto, l’agricoltura biologica, prima negli USA e poi in Europa, ritrovò lo slancio per continuare la sua storia». Negli anni, tuttavia, il biologico è diventato anche un grande mercato. Lei ritiene che si sia snaturato?«Escluso dal secondo dopoguerra in poi dall’accesso agli istituti di formazione e di ricerca, il biologico ha continuato la sua storia proprio creando un grande mercato. È la fase del cosiddetto Biologico 2.0, il periodo della regolamentazione e delle performance di mercato che è iniziato nel 1972 e che dura ancora oggi. Questa fase ha avuto un suo sviluppo, con aspetti positivi e aspetti negativi. Oggi sì è capito che il biologico, per rimanere fedele ai propri principi e aumentare la propria incisività politica, ha bisogno di una nuova fase, il cosiddetto Biologico 3.0, che deve andare oltre gli obiettivi di aumento del fatturato. In questa nuova fase, oltre al mercato, occorre guardare alla politica e alle istituzioni di formazione e di ricerca».Anche nella grande distribuzione oggi si trovano tanti prodotti biologici. Sono affidabili secondo lei?«I prodotti certificati biologici che si possono acquistare nella grande distribuzione sono certamente affidabili, nel senso che su essi vengono fatti dei regolari controlli pubblici e privati sul rispetto della regolamentazione europea sul biologico. I casi di frode ci sono stati ma questi hanno colpito sia la grande distribuzione che la distribuzione specializzata. Per quanto riguarda il rapporto tra biologico, trasformazione industriale e distribuzione, il problema più rilevante è quello della “convenzionalizzazione” del biologico, ovvero della convergenza del prodotto biologico verso il prodotto industriale, dominato da un numero limitatissimo di varietà botaniche, una produzione non stagionale, ultra trasformato, la proposta in negozio di prodotti ultra trasformati, con ingredienti provenienti da ogni parte del mondo, sulla cui storia si sa molto poco». Un comune cittadino per assicurarsi che un prodotto biologico sia di qualità a che cosa deve fare attenzione?«Per prima cosa deve guardare a come si presenta il prodotto e leggere l'etichetta. Ovviamente dev’essere presente il logo verde europeo che identifica per legge i prodotti assoggettati al sistema di controllo del biologico. Sotto questo logo inoltre è obbligatorio dichiarare la provenienza degli ingredienti (nazionali, europei, extra-europei). La qualità di un prodotto biologico, come del resto quella di un prodotto convenzionale, si può capire inoltre dal tipo e dal numero di ingredienti. I sali nitrati in un buon salame biologico ben stagionato non sono necessari e un buon formaggio biologico di regola è fatto di latte, sale e caglio. Se poi questi prodotti hanno una faccia e un volto, nel senso che conosco del produttore, che si pone a garanzia del prodotto».
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