2024-10-27
Bezos non tifa dem? Da genio diventa tiranno
Jeff Bezos (Getty Images)
Il mancato endorsement a Kamala Harris da parte del «Washington Post», deciso dal proprietario, incendia la redazione e desta scandalo. Eppure, finora il magnate era visto come un illuminato che salva i giornali dal fallimento. Adesso, invece, è dipinto come un censore.A una dozzina di giorni dal voto, i sondaggisti americani danno Donald Trump e Kamala Harris in sostanziale parità. Eppure, non è un mistero per nessuno che, alle tornate del 2016 e del 2020, il tycoon sia stato spesso sottostimato dalle rilevazioni: in un caso vincendo, nell’altro perdendo di stretta misura. Tradotto: fare previsioni oggi è difficile, ma molti osservatori statunitensi, se dovessero scommettere un dollaro, lo scommetterebbero su The Donald. L’incertezza sull’esito delle elezioni ha spinto diversi gruppi di interesse ad assumere un atteggiamento più guardingo. Schierarsi dalla parte sbagliata della barricata, infatti, può avere spiacevoli conseguenze, soprattutto per chi fa affari ai massimi livelli. Basti pensare alla Silicon Valley, storica roccaforte democratica: anziché sostenere la Harris a spada tratta, parecchi miliardari hanno scelto la via del silenzio, mentre Elon Musk si è messo addirittura a fare politica militante in favore di Trump. Tra i paperoni americani, c’è ovviamente pure Jeff Bezos. Che, oltre a essere il patron di Amazon, dal 2013 è anche il proprietario del Washington Post. In questi due lustri, il quotidiano che fu protagonista del Watergate ha portato avanti la sua linea ferocemente liberal, creando qualche grattacapo al suo padrone. Nel 2019, per esempio, Amazon perse una commessa del Pentagono da 10 miliardi di dollari. Il motivo? L’allora presidente Trump, che non aveva gradito il fango gettatogli addosso dal Post, fece pressioni per affidare il contratto alla Microsoft. Forse proprio per questo, Bezos ha deciso che stavolta occorre rimanere neutrali. E così una bozza di endorsement in favore della Harris, già stilata dai redattori del quotidiano, è finita nel cestino. Questo nuovo corso più equilibrato ha però mandato in subbuglio la redazione del Washington Post, con alcune firme di punta che hanno abbandonato il giornale. Tra questi c’è anche Robert Kagan. Redattore capo ed editorialista di rango della testata, Kagan è un falco neocon che, nel 2016, uscì dal Partito repubblicano - a causa del «fascismo» di Trump - per schierarsi con Hillary Clinton. Lasciare il giornale, ha dichiarato, «è stata una decisione molto facile». La mossa a sorpresa della direzione, secondo Kagan, «è una specie di inginocchiamento preventivo nei confronti di chi pensano sia il probabile vincitore. Chiunque faccia parte dell’economia americana quanto Bezos ovviamente vuol avere un buon rapporto con chiunque sia al potere. È un tentativo per non stare dalla parte sbagliata di Donald Trump». Detto altrimenti: quando Bezos non metteva bocca sulla linea editoriale, era un illuminato che salvava i giornali dal fallimento; adesso, invece, è un codardo che bada solo al suo portafogli. Ma è proprio così assurdo che un quotidiano mantenga un profilo neutrale? In realtà no. Ed è proprio quello che ha fatto notare William Lewis, editore e amministratore delegato della testata: il Washington Post, ha spiegato, è sempre stato un giornale indipendente e la sua tradizione non è quella di schierarsi. Le eccezioni ci sono state: nel 1952, in favore di Dwight Eisenhower, e nel 1976, in favore di Jimmy Carter (dopo lo scandalo del Watergate). Da allora, il Post ha cambiato rotta, appoggiato sempre i candidati democratici (a parte nel 1988). Ma appunto, ha sottolineato Lewis, questo afflato militante, in realtà, non appartiene al giornale fondato nel 1877. «Il nostro compito al Washington Post», ha ribadito l’editore, «è quello di fornire, attraverso la redazione, notizie imparziali a tutti gli americani, nonché punti di vista stimolanti offerti dai nostri opinionisti, per aiutare i nostri lettori a farsi una propria opinione». Insomma, l’obiettivo è quello di informare cittadini adulti e autonomi, e non di convertire masse di bifolchi al verbo progressista. Quello del Post, tuttavia, non è un caso isolato. Anche il Los Angeles Times ha fatto la stessa scelta: basta crociate anti Trump, si torni a essere equidistanti. La redazione del giornale aveva già pronto l’editoriale di endorsement per la Harris, ma il proprietario ha bloccato tutto. Si tratta del miliardario Patrick Soon-Shiong, che ha acquistato il foglio nel 2018 per 500 milioni di dollari, di fatto salvandolo dal fallimento. La decisione del boss, anche in questo caso, ha portato alle dimissioni di alcune firme di lunga data, tra cui quella di Mariel Garza, la responsabile della pagina degli editoriali: era stata proprio lei a vergare la bozza dell’endorsement in favore di Kamala. A stretto giro di posta, hanno lasciato pure Karin Klein e Robert Greene, già vincitore del premio Pulitzer. Al di là di ogni altra considerazione, una cosa è certa: Bezos e Soon-Shiong hanno capito che le crociate progressiste, alla lunga, non pagano. In tutti i sensi.
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