2022-08-08
Bertinotti: «Tra Letta e Calenda alla sinistra conviene saltare un giro»
L’ex leader comunista: «L’Agenda Draghi? Il sangue mi ribolle. Programma mortale che ci consegna al capitalismo finanziario».«“Eravamo partiti che volevamo la rivoluzione mondiale, ci siamo accontentati di quella in Italia, poi di alcune riforme, poi di partecipare al governo, poi di non esserne cacciati”. Questa frase l’ho trovata nell’Orologio, il vero capolavoro di Carlo Levi. L’ha scritta nel 1947, sembra il diario della sinistra affidato a Enrico Letta». È tra il disincantato e l’arrabbiato Fausto Bertinotti. A 82 anni ha una profondità di analisi e un’eleganza di pensiero - il cachemire lo ha dentro, non solo nel golf per l’inverno -che ascoltandolo viene in mente una frase di Karl Kraus: quando il sole della cultura è basso, anche i nani paiono giganti. L’ex presidente della Camera, ex sindacalista Cgil, ex segretario e motore della Rifondazione comunista per quanto esile, non è certo un nano. «Per chi voterò? Non lo so. So però che la mia scelta sarà figlia della mia storia, che il mio sarà comunque un voto contro».Contro qualcuno o contro qualcosa?«Non si tratta di essere contro qualcuno, si tratta di essere anti-sistema. La sinistra ha una speranza che è altrove dalla politica istituzionale. Jean-Luc Melenchon non nasce da una sinistra precedente, ma dai Gilet jaune, dalla protesta dei pensionati. In Italia ci saranno le rivolte degli studenti, le rivolte per i salari. È la mobilitazione antagonista che ara il terreno alla nuova sinistra e si contrappone a chi è organico al sistema, è sussunto dal mercato e non può pensare altro se non al mercato. Perciò non produce cultura perché il suo mondo si esaurisce nel reale, non ha né immaginazione, né futuro». Nicola Fratoianni dovrebbe fuggire dal Pd?«Non voglio fare la parte di chi dà buoni consigli e neppure parlare di Tizio e Caio. Su Calenda però una notazione devo farla. Per chi ha dismesso l’idea della sinistra come forza di cambiamento e l’ha ricalcata sulla modernizzazione perché è diventata serva di quella che un tempo chiamavamo la commissione d’affari della borghesia e oggi è diventata ancor peggio la commissione d’affari della finanza internazionale, Calenda può essere di sinistra. Di una sinistra che si percepisce e si propone come una protesi del processo di accumulazione. Ma che nega sé stessa. L’accordo con Calenda per la sinistra sarebbe mortale. Dunque io penso che la sinistra che deve essere antagonista e alternativa deve andare da sola».Ma se va da sola non si condanna alla sconfitta?«Perché, se si allea con quel che c’è ha una prospettiva? Parliamo del centrosinistra che in realtà ormai è un centro. Con il governo Draghi è stato divorato e ora assume l’Agenda Draghi per proseguire sulla strada che lo ha annientato facendo del governamentismo il suo unico scopo. Non ha nessuna possibilità di interpretare la società e s’imbarca in una campagna elettorale che si esaurisce nella scelta tra Draghi e la Meloni, tra le peste e il colera. Penso che di fronte a sé la sinistra ha tre scelte: fare una campagna per l’astensione affermandola come critica radicale al sistema; partecipare, ma avendo prima definito la propria identità e andando contro il centro e la destra parlando con quella metà d’italiani che non votano; oppure saltare un turno prendendo atto che non c’è ora un’agibilità per una forza compiutamente di sinistra e cominciare a ricostruire la sinistra partendo dal conflitto. Scriveva nell’84 Riccardo Lombardi: perché i socialisti possano stare in un governo deve essere aperta la transizione verso il socialismo. Tutti i socialisti italiani sono contrari a Bad Godesberg, non possiamo né essere socialdemocratici, né abbandonare la prospettiva rivoluzionaria. La sinistra oggi può ripartire solo dal conflitto».L’astensione non è però una negazione della democrazia?«Pier Paolo Pasolini parlando del Pci diceva che è un paese nel paese. Era una meravigliosa espressione per dire che gli operai, che la sinistra esprimeva una soggettività critica. Il rifiuto delle ideologie ha nascosto l’adesione anche di ciò che si autodefinisce sinistra all’ideologia del capitale che è l’accumulazione e ha prodotto un’omologazione che ha segnato la sconfitta della classe operaia e il rovesciamento del conflitto. Questo popolo desoggettivizzato deve trovare un’area di protesta. La prima fu la Lega poi è seguita l’uscita dal campo della democrazia rappresentativa col non voto. S’interrogava di fronte alle cattedrali vuote Thomas Eliot: è la chiesa che ha abbandonato il popolo o viceversa? È la sinistra che ha abbandonato il popolo».Col reddito di cittadinanza, col decreto aiuti non si va verso il popolo?«Da quel che ho letto l’alleanza con Calenda presupponeva la cancellazione del reddito di cittadinanza che è l’unica cosa buona che è stata fatta in questi anni. Ma il tema è molto più vasto. In questi trent’anni le retribuzioni italiane sono calate del 3% e quelle tedesche aumentate del 30. La situazione sta diventando drammatica, ma tutte le proposte servono a evitare il conflitto tra salario e profitto. L’aumento dei salari è invece una frusta che stimola la produttività. Con la concertazione si è creata una situazione per cui a imprenditore pigro hanno corrisposto salari poveri. Stiamo vivendo l’epoca in cui esiste il lavoro povero che è un ossimoro; è morta la rivendicazione salariale. Mario Draghi è uno degli artefici di ciò perché interpreta quella rivoluzione capitalistica che ha un motore politico nel neoliberismo, un motore strutturale nella tecnoscienza e cammina sul primato dell’accumulazione. Tutto il resto, il salario compreso, è una variabile dipendente; la tecnoscienza diventa programma di governo e i tecnici, alla Draghi, si fanno governo. Stando così le cose è ovvio che poi fai i bonus, che consenti alle aziende di elargire dei premi senza contrattazione. Neppure il salario minimo si è riusciti a imporre e poi si stupiscono che la gente non va a lavorare. Bisogna abbandonare i tavoli concertativi e tornare all’adeguamento del salario automatico, bisogna uscire, lo dico sommessamente, dal sindacato istituzionalizzato e rifiutare l’Agenda Draghi».Cosa non va nell’Agenda Draghi?«Quando sento parlare di Agenda Draghi il sangue mi ribolle. Se l’accetti vuol dire che non hai uno straccio di tuo programma, che ti vanno bene le banche, che ti va bene il capitalismo finanziario e ti va bene l’Europa».È anti-europeista?«Si diceva socialismo realizzato per dire che non funzionava. Ecco c’è l’Europa realizzata che non è neppure parente del manifesto di Ventotene. Ha solo una funzione di mercato; è una dependance del capitalismo finanziario, perciò è una costruzione priva di autonomia scarsamente democratica e largamente oligarchica».Ma come? Ha governato con Romano Prodi, Draghi è l’Europa…«Abbiamo rotto con Prodi quando ci siamo accorti che le istanze del lavoro non trovavano accoglimento nel governo. Quando ci fu la grande lotta dei metalmeccanici nacque lo Statuto dei lavoratori, purtroppo Prodi non era Brodolini. Draghi è della stessa natura e il Pd interpreta l’Europa come adesione a quel modello che dicevo prima».Teme la destra, Giorgia Meloni fascista?«La mia prima attività politica è stata intervistare i partigiani e sono per usare il termine fascista con proprietà. Siccome la Costituzione ha respirato l’aria dell’antifascismo alla Meloni porrei una sola domanda: lei si dichiara antifascista o no? Questa è la questione perché l’antifascismo è, diceva Calamandrei, la nostra Costituzione».Parla di rivolta, la crisi la preoccupa e pensa a un nuovo ’68?«La crisi è molto preoccupante, ma è strutturale. Il capitalismo finanziario, quello della globalizzazione con cui pensavano di superare il dissolvimento dell’Urss che però aveva dimostrato che un altro modello è possibile, si muove da crisi a crisi, solo un cambiamento drastico di modello di sviluppo può risolvere. Quanto al nuovo ’68 non lo vedo. Allora volevamo prolungare le istanze del ’900, innestare nella costola della sinistra le istanze operaie e studentesche, oggi non c’è più la sinistra su cui fare l’innesto. Abbiamo perso, ma c’è la radicalità della nuova sfida, il conflitto tra alto e basso della società, contro il centro e la destra per affermare una nuova soggettività critica perché oggi la politica non s’interroga sulle dinamiche della società. La preoccupazione infine nasce da un’intuizione di Gramsci: quando un mondo sta finendo e un altro fatica a nascere in quel crepuscolo nascono i mostri».Di questa rivolta fa parte anche l’ecologismo?«Vedo due ecologismi: uno che nasce nella società civile e uno che nasce dalle cattedre del sistema ed è una delle tante chiavi per organizzare il potere, è un maquillage dell’innovazione tecnologica».In ultimo: spirano venti di guerra. L’atlantismo è un valore?«Il valore è la pace. C’è questa intuizione straordinaria di Francesco, ed è bene che ci si rifletta, che è la formula della guerra mondiale a pezzi. È sconcertante che su una frase come questa detta dalla massima autorità morale, il Papa, la politica abbia evitato di prendere parte. Se uno ha in mente i dialoghi tra Krusciov, Kennedy e Giovanni XXIII si rende conto che la politica in Europa è morta ed è stata divorata dal primato assoluto dell’economia. Appena un pezzo di questo conflitto a mosaico viene dimenticato ne appare sulla scena un altro e investe ciò che resta della politica, ma solo nella sua manifestazione simbolico emotiva. Amplificata dalla comunicazione; dismesso il Covid parlano dell’Ucraina, poi di Taiwan. Tanto più grande è il dramma tanto più viene amplificato per impedire un’analisi critica di questa crisi di civiltà. Prima si nega l’analisi e poi la politica viene sequestrata dall’emozione».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)