2021-03-28
Berlino userà lo stop al Recovery fund per imporci ancora altri sacrifici
Il blocco della Corte di Karlsruhe copre i ritardi degli aiuti e sarà un'arma di ricatto. Mario Draghi lo sa e ha voluto attaccare i tedeschiVenerdì pomeriggio un laconico comunicato di cinque righe è bastato alla Corte costituzionale tedesca per mettere per il momento in congelatore la ratifica della Decisione sul sistema delle risorse proprie della Ue, decisiva per permettere alla Ue di indebitarsi e finanziare così gli Stati membri. Senza quella ratifica da parte di tutti non si muoverà un centesimo dei 750 miliardi previsti dal Next generation Eu e dal suo strumento principale, il Rrf.Per le otto toghe rosse con sede a Karlsruhe è stato quasi un dovere richiedere al presidente della Repubblica Federale Frank Steinmeier di non apporre la firma su quella legge, in quanto pendevano numerosi ricorsi con procedura d'urgenza tutti concentrati su un unico tema: è conforme alla Costituzione tedesca consentire alla Ue l'emissione di debito senza effettivo controllo da parte del Parlamento tedesco? Corollario: i trattati consentono alla Ue di indebitarsi?Giovedì il Bundestag non aveva avuto dubbi in proposito. Con una maggioranza ben superiore ai due terzi (478 su 645) aveva dato il via libera alla Decisione che disciplinerà, per i prossimi sette anni almeno, come sarà gestito il bilancio della Ue che, per la prima volta nella sua storia, prevede che si finanzino spese non solo ricorrendo ai contributi degli Stati membri, ma indebitandosi emettendo obbligazioni. Il dibattito tedesco è stato molto approfondito e solo la certezza, ribadita anche da Angela Merkel, che il Ngeu sia uno strumento una tantum, ha portato al voto favorevole. Nessuna unione fiscale o unione dei trasferimenti è in vista, e i tedeschi hanno solo momentaneamente derogato all'inviolabile principio che la spesa pubblica dovrebbe essere decisa solo dal Parlamento democraticamente eletto. Poi è arrivato il fulmine, temuto ma dato per poco probabile, della Corte. Atto dovuto, si diceva. Troppo alto il rischio che una ratifica produca effetti sul bilancio tedesco che poi non possono più essere annullati. Tra dare luce verde e poi dichiarare l'illegittimità della norma (non potendone cancellare gli effetti) o dare luce rossa, impedendo la produzione di effetti, i giudici hanno scelto la seconda.Non sappiamo quanto tempo richiederà la Corte per il proprio esame: alcuni commentatori tedeschi hanno parlato di settimane o mesi. Nessuno è in grado di formulare previsioni attendibili. Ci permettiamo di osservare che non è questo il tema rilevante, pur essendo una questione potenzialmente gravida di pesanti conseguenze. Karlsruhe è il dito, ma è alla luna che bisogna guardare. E allora balza immediatamente all'attenzione di tutti che, qualunque sia l'esito della decisione delle toghe rosse, c'è già da molto tempo una certezza che campeggia: il clamoroso ritardo con cui sta giungendo a realizzazione questo fondo di aiuti. E tale ritardo è l'effetto della conclamata inidoneità della struttura istituzionale e del corpo normativo della Ue. Avete mai visto un tre ruote, guidato peraltro male, percorrere un'autostrada? Non ce la potrà mai fare, e i giudici di Karlsruhe sono stati solo gli ultimi a scoprirlo. Un fondo per la «ripresa» che arriverà, se arriverà, dopo quasi due anni dallo scoppio di una crisi economica senza eguali in tempo di pace è una beffa.Inoltre tale disputa giuridica potrebbe servire solo ai tedeschi per aumentare il prezzo della loro presunta solidarietà. Sarà troppo forte la tentazione di esigere contropartite in termini di ulteriore disciplina di bilancio agli Stati membri al fine di placare l'opposizione interna e soddisfare anche le presumibili richieste di «sovranità» in arrivo da Karlsruhe. Non bisogna però sopravvalutare l'impatto di questa vicenda sul calendario di avvicinamento all'anticipo del 13% dei fondi. Infatti il vero «canale di Suez» (nella configurazione di questi giorni) è costituito dalla presentazione dei Recovery plan nazionali, da eseguirsi entro il 30 aprile, e dalle 12 settimane successive a disposizione di Commissione e Consiglio per la valutazione e approvazione, rispettivamente. Si arriva quindi al 31 luglio, nella ottimistica ipotesi che tutto fili liscio. Poiché fonti di Bruxelles contavano di concludere le ratifiche entro fine giugno - anche se poi ieri il commissario Paolo Gentiloni ha cominciato a mettere le mani avanti, parlando di «incognita» a proposito del processo di ratifica - al momento lo stallo tedesco non provoca danni immediati.I quali invece già sotto gli occhi di tutti, messi a nudo anche dal presidente Mario Draghi che, negli ultimi due giorni, proprio sottolineando l'assenza degli Eurobond ha evidenziato la pochezza degli attuali strumenti che, per la contraddizion che nol consente, non sono affatto tali. Parlare di Eurobond in quel modo, significa mettere le dita negli occhi sia ai tedeschi che ai troppi sognatori di casa nostra che «dovranno attendere generazioni».Chi pare invece essere rimasto ancora con la testa tra gli studenti a Parigi è il neo segretario del Pd Enrico Letta, che ancora ieri ha auspicato che il Next generation Eu diventi permanente. Proprio il motivo che porterebbe i tedeschi a rifiutarlo. È noto che nel partito adorano gli autogol.Che succederà ora? Nulla. Basta seguire alla lettera quanto disposto dai commi 1037-1050 della legge di bilancio 2021. Sono stanziati ben 118 miliardi (di cui 34 già impegnati per Industria 4.0 e altri aiuti) in tre anni per finanziare gli investimenti del Ngeu, e quelli di Bruxelles saranno solo rimborsi. Allora è meglio si facciano gli investimenti tanto attesi dal Paese senza subire i dannosi condizionamenti di una Ue che non può assolvere compiti a cui non è adatta.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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