2023-09-06
A Berlino c’è un club che fa muro all’Arabia
L’Union, che ha appena ingaggiato Leonardo Bonucci, è una squadra di quartiere arrivata fino alla Champions League senza spese folli. Lo stadio è stato costruito da tifosi volontari, ai margini di un bosco, e l’identità non è in vendita: a Natale tutti in festa al campo. Saudade, parola in uso tra le genti brasiliane che indica uno stato di malinconia interiore perenne, come se un plotone di farfalle ci pungolasse lo stomaco incalzandolo con le immagini di casa, ricorda il termine inventato dallo scrittore tedesco Jean Paul: Weltschmerz, sofferenza un po’ umoristica, un po’ romantica, per come vanno le cose del mondo. Non è un caso che l’origine, e anche l’antidoto, alla Weltschmerz vissuta dal pallone di oggi - tutto globalismo e soldi da suscitare saudade per il calcio di una volta - si trovi in Germania, a Berlino, nella società dell’Union Berlin. Da poco vi si sono accasati Leonardo Bonucci e Robin Gosens. È sufficiente far due passi nel loro stadio, quartiere Köpenick della capitale, per capire: una turba di supporter entusiasti, idealisti, dissidenti. Lo Stadion An der Alten Försterei, letteralmente «Stadio nei pressi dell’antica casa del guardiaboschi» vede posare la prima pietra nel 1920 e ancora adesso, per accedervi, bisogna attraversare un sentiero protetto da un fitto nugolo di alberi secolari. La dimora del guardiaboschi c’è davvero, è diventata la sede del club ed è conservata in stile rurale. Tra gli anni ‘70 e ‘80 l’impianto fu ampliato - la capienza è 22.000 posti - ma dal 1990 gli ammodernamenti pretesi dalla Fifa resero necessari parecchi lavori di manutenzione. Le finanze languivano, la federazione elargì permessi ad interim per mantenere inalterata la struttura, fino a quando, nel 2006, oltre 2.000 tifosi si offrirono come volontari - ergo non stipendiati - per restaurare la casa della loro squadra. Donarono 140.000 ore di buona lena e sudore gioioso, suddivise in turni giornalieri, tre anni con gli attrezzi in mano, in tempo per riaprire i battenti l’8 luglio 2009 e giocarsi il derby con i rivali dell’Herta. I lavoratori stranieri messi a pane e acqua dagli sceicchi e costretti a imprese disumane per esigenze di mercato, come in Qatar, non erano contemplati. Al punto che la società, imbaldanzita da quello scatto d’orgoglio, vendette 4.141 azioni dello stadio a supporter e sponsor. Ecco servito il concetto romantico di stadio come casa, di casa come cura di ciò che è intorno a sé, di calcio come dichiarazione d’intenti politica. Ce n’è abbastanza da far contenti pensatori molto diversi tra loro, dai Gianfranco Miglio ai Costanzo Preve, accomunati da un ideale comunitarista: l’individuo mai del tutto autosufficiente dall’immaginario valoriale della sua comunità di riferimento. Sarà che siamo (eravamo) a Berlino Est. Sorge in quella zona della città, la storia dell’Union. È il 1906, il club si chiama Sc Olympia 06 Oberschonweide, con spiccato gusto per l’onomastica neoclassica. Nel 1923, dopo aver militato nelle leghe secondarie, centra il secondo posto nell’antesignana della Bundesliga, dietro l’Amburgo. Poi arriva la Seconda Guerra Mondiale, la Germania ne esce disintegrata, i vincitori obbligano le associazioni tedesche, pure quelle sportive, a sciogliersi. L’Union viene rifondata nel 1950, il paese è spartito tra americani e russi, gli anni della Ddr bussano alla porta, i nomi della società cambiano di continuo per volere del partito, la sua consistenza si annacqua. Nel 1961, con la costruzione del muro di Berlino, il club risorge ancora, piccola fenice qual è, riprende il suo appellativo originale e prova a competere ai livelli massimi del suo campionato. Le compagini più ostiche si chiamano Lokomotiv Lipsia, Dynamo Berlin, Hansa Rostock. Nel clima intriso di socialismo reale, l’identità della squadra sedimentava tra i tifosi di Köpenick come quel crocifisso custodito da una signora sovietica quando Fernandel e Gino Cervi andarono a Mosca nei panni di Don Camillo e Peppone. Non era solo una questione di risultati sul campo, era un orizzonte progettuale etico. Estetico, magari. Essere Unioner significava tifare per una compagine non particolarmente protetta dalla Stasi né dal governo, a differenza delle altre blasonate, era un gesto di distinzione proprio come lo è oggi nei confronti del calcio globalissimo panarabo e strapagato, insomma, era pura dissidenza. A Natale del 2003 - il muro era crollato da un pezzo - un gruppetto clandestino di tifosi si intrufola di notte allo stadio armato di panettone e vin brulè. La società non li punisce e sancisce una consuetudine: ogni Natale i sostenitori si ritrovano sul pratone per festeggiare con famiglie e amici. Sembra una bella fiabetta della buonanotte, ma una rosa non esiste senza le sue spine. I dissesti finanziari, la necessità di tirare la cinghia lo hanno fatto navigare a vista tra la terza e la seconda divisione per un bel po’. Anche quando si centrava una promozione, le inadempienze economiche la invalidavano. È il rovescio della medaglia del rigore nordico: rende possibili le imprese romantiche come quella che stiamo raccontando, ma non indulge al sotterfugio. In parole povere: in Bundesliga l’attenzione ai conti non è troppo negoziabile. Nel 1997 si è sull’orlo del baratro, l’Union rischia di fallire, ma pure lì, la baldanza di chi non ha nulla da perdere sovverte i pronostici, le prestazioni nelle partite si fanno formidabili, nel 2001 arriva la finale di Coppa di Germania (con annessa qualificazione alla Coppa Uefa) e la promozione alla Liga 2, la nostra serie B. Quando nel 2019 si approda in Bundesliga, l’inno della squadra cantato da Nina Hagen, icona punk figlia di dissidenti dell’Est, suona la carica ai gruppi di ultras - dichiaratamente apartitici - presenti in forze: nel 2021, oltre 40.000 sostenitori hanno diritto di voto nell’assemblea societaria presieduta da Dirk Zigler. Quest’anno c’è la Champions League da disputare e un quarto posto in Bundesliga da difendere, sono giunti sponsor freschi, c’è Leonardo Bonucci in difesa, c’è Robin Gosens, e una rosa a metà tra tedeschi e buoni acquisti esteri, allenata dallo svizzero Urs Fischer. C’è pure la consapevolezza di incarnare l’alternativa al pallone mercataro odierno, senza limiti e senza confini. Senza rischiare di essere scambiati per dinosauri fuori tempo massimo: tra gli Unioner ci sono tanti giovanissimi che alla nostalgia preferiscono il tifo spensierato in un mondo dove le cose non sono per forza tutte uguali.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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