2018-11-02
Battisti è un killer: il suo posto è in galera
Dal Brasile l'ex Pac sostiene che gli annunci del neopresidente Jair Bolsonaro sulla sua estradizione siano solo «fanfaronate». Per decenni ha goduto dell'appoggio di intellò e politici convinti di farne un perseguitato ma la realtà è che è solo un assassino.In quel Paese all'incontrario che è l'Italia, in cui spesso sembra di affondare nella «morta gora» del «ma-anchismo» di Walter Veltroni («Si può fare la frittata ma anche non rompere le uova»), quando una situazione è finalmente lì lì per sbloccarsi, all'improvviso tutto torna in alto mare e si ricomincia dalla casella di partenza. Così, alla fine ci si rassegna e ci si mette una pietra sopra.Rischio che si corre anche nell'estenuante telenovela con protagonista Cesare Battisti, dalla giustizia italiana condannato in via definitiva per quattro omicidi, di cui due commessi materialmente alla testa dei Proletari armati per il comunismo, evaso dal carcere e dal 1981 riparato in Francia dove ha vissuto da uomo libero, considerato non un latitante bensì un esule, fino al 2004, quando davanti alla decisione dei giudici di accogliere la nostra richiesta di estradizione, è fuggito in Brasile.Ora che il neopresidente carioca Jair Bolsonaro vorrebbe riconsegnarcelo, lui si sente più ringalluzzito che mai, tanto da dichiarare con truce spavalderia ai microfoni del Giornale Radio Rai: «Le sue sono solo parole, fanfaronate, non può fare nulla. Io sono protetto dalla giustizia della Corte Suprema». Impunito e impunibile, dunque, almeno nella sua visione. Tanto che c'è chi ormai sembra esserne fatto una ragione, arrivando sul filo del paradosso a pregare Bolsonaro di tenerselo, perché da noi «dietro le sbarre non c'è rimasto neanche uno dei criminali politici che misero a ferro e fuoco la nostra vituperata patria, e di teste di cazzo ne abbiamo già abbastanza» (Vittorio Feltri su Libero). Da qui al «chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato», con quel che ne consegue, è un attimo. Peccato solo che lo «scordiamoci il passato» è duro da far digerire ai familiari delle vittime, morti come Pierluigi Torregiani o sopravvissuti ma finendo su una sedia a rotelle, come il di lui figlio Alberto. Perché una circostanza deve essere ben chiara, e vale per ogni fatto di sangue degli anni di piombo, con colpevoli rossi e neri: gli unici a scontare davvero un ergastolo esistenziale, «fine pena mai», sono i parenti di chi è uscito una mattina da casa per non farvi mai più ritorno.Lo si spieghi a loro, che Battisti (e gli altri) in fondo stanno bene dove stanno, ossia in libertà, perché tanto ci sono finiti o ci finirebbero comunque.Se una frattura c'è stata tra le cosiddette élite intellettuali e il comune sentire dei cittadini, tra il senso comune e il buon senso - per citare il Manzoni evocato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella (cui, non va dimenticato, è stato giustiziato il fratello Piersanti in un omicidio i cui contorni mafiosi si sono confusi con quelli terroristici) - è stato quando, ad esempio, si è visto Marco Barbone, responsabile dell'assassinio nel 1980 del giornalista Walter Tobagi, rimesso in libertà nel 1983 nel giorno stesso della lettura della sentenza (!), dato il suo «pentimento».E mi riferisco proprio a tale episodio perché la decisione di sopprimere Tobagi maturò tra i figli di una parte, neppure esigua, di quella borghesia intellettuale milanese capace di teorizzare la palingenesi rivoluzionaria e di giustificare culturalmente la sovversione come reazione alle «stragi di Stato» e all'oppressione delle masse da parte dell'«imperialismo delle multinazionali».Nel caso Battisti il cortocircuito è plateale: da una parte le sentenze di condanna dei tribunali della Repubblica (e perfino della Corte di giustizia europea, che davanti ai ricorsi dei legali del killer, ha sempre ribadito: Battisti in Italia ha avuto un processo equo, con ogni mezzo possibile a sua difesa e legali di sua fiducia). Dall'altra gli intellò, scrittori giornalisti artisti italiani e francesi, e le loro sentenze di assoluzione basate sullo stereotipo luogocomunista del perseguitato costretto all'esilio, grazie al quale ha però scoperto il suo talento letterario. E non sia mai che un uomo acculturato possa essere anche un criminale. Tanto che Fred Vargas, scrittrice di noir di successo, è arrivata a fotografare l'Italia - nel pamphlet La verité sur Cesare Battisti - come un Paese in cui si praticavano torture e pseudodeportazioni di massa, tribunali speciali e sentenze sommarie che manco il Cile di Augusto Pinochet.Fu promosso addirittura un appello: «Battisti si è dedicato a un'intensa attività letteraria che è nel suo assieme una straordinaria e ineguagliata riflessione sugli anni '70. È riuscito ad attirarsi la stima del mondo della cultura e l'amore di una schiera enorme di lettori. Trattarlo oggi da criminale è un oltraggio non solo alla verità, ma pure a tutti coloro che hanno affidato alla parola scritta la spiegazione della loro vita e il loro riscatto. Battisti è un uomo onesto, arguto, profondo, anticonformista. In una parola, un intellettuale vero». Ergo: innocente. Per inciso: come nel caso della copertina del mensile Rolling Stone contro Matteo Salvini, nel lungo elenco dei firmatari pro Battisti ci finì anche chi non ne sapeva nulla, come l'allora sconosciuto Roberto Saviano: «Mi segnalano la mia firma in un appello per Battisti, finita lì per chissà quali strade del Web e alla fine di chissà quali discussioni di quel periodo. Qualcuno mi mostra quel testo, lo leggo, vedo la mia firma e dico: non so abbastanza di questa vicenda. Chiedo quindi di togliere il mio nome, per rispetto a tutte le vittime». Nel monologo in cui ho ricostruito la tragedia di Tobagi, ho inserito un richiamo all'austriaco Jack Unterweger. Arrestato (tra il 1968 e il 1976) 16 volte per furti e abusi sessuali, quando uccise una diciottenne strangolandola con il suo stesso reggiseno, fu condannato ma poi graziato, nonostante una perizia lo avesse descritto come «pericoloso psicopatico». E per quale ragione? Perché in prigione aveva iniziato a scrivere e l'intellighenzia viennese lo aveva ribattezzato «il prigioniero poeta». Rimesso in libertà nel 1990, ammazzò un'altra dozzina di donne tra Europa e Stati Uniti, primo e finora unico caso di serial killer dei due mondi. Il bello è che nel frattempo si era accreditato come esperto: un giornale lo assunse con l'incarico di commentare quei casi criminosi. I suoi. Condannato nuovamente all'ergastolo nel giugno 1994, si suicidò infine il giorno stesso della sentenza. Innamorarsi dei propri stereotipi può essere davvero fuorviante. Ma per coloro che tuttora soffrono e piangono chi non c'è più è semplicemente atroce.