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2018-06-05
Bastone e carota: tasse alle imprese giù ma più contributi per le pensioni
ANSA
La posizione leghista sulle pensioni prende forma. A buttare lì qualche dettaglio in più è l'ex sottosegretario al Welfare ai tempi di Silvio Berlusconi, Alberto Brambilla. Innanzitutto in termini di costi. Modificare la legge Fornero secondo l'esponente del Carroccio costerà 5 miliardi di euro all'anno e non 20 come sostiene il numero uno dell'Inps, Tito Boeri. «L'idea di mandare in pensione chi ha almeno 64 anni e 36 di contributi, oppure 41 anni di contributi a prescindere dall'età (purché si escludano i contributi figurativi)», spiega in un'intervista l'esperto di pensioni leghista, «permetterà di superare lo scalone Fornero».
Ovviamente lo schema prevede tanti altri gradini. Perché non basta girare la spesa pubblica e invertirla. La popolazione invecchia e la produttività non cresce. Sul modello bastone e carota, il governo pensa di far ricadere sulle aziende una parte delle uscite anticipate. L'idea sarebbe quella di istituire per le diverse categorie produttive un fondo di solidarietà sul modello bancario. Ovvero alimentare i panieri pensionistici con il prelievo dello 0,3% sul lordo versato in busta paga. Senza contare che l'Ape social sarebbe destinata a sparire. Il che consentirebbe un minore esborso annuale di circa 1,5 miliardi all'anno. Al tempo stesso, verrebbero penalizzati tutti coloro che arrivano a fine corsa lavorativa con grande impegno fisico. In discussione anche Opzione donna, che vedrebbe uno spostamento della stanghetta per il ritiro dalla fascia attiva almeno due anni più in là nel tempo. L'ipotesi leghista troverebbe già una posizione contraria nel fronte dei 5 stelle che vorrebbe sostenere le categorie dei lavoratori usurati. Secondo quanto risulta alla Verità, la posizione grillina dovrebbe però essere di mera facciata perché il partito di Luigi Di Maio ha la necessità di portare a casa il reddito di cittadinanza. Sarebbe dunque disposto a barattare talune garanzie pensionistiche a favore della promessa elettorale che gli ha garantito i voti del Sud. Il neoministro del Lavoro e dello Sviluppo ieri ha insistito apertamente sul reddito di cittadinanza e sulla pensione di cittadinanza, ma prima di arrivare a queste misure servirà tempo e la loro previsione potrà avvenire semmai con la legge di Bilancio in autunno. Sull'alleggerimento della legge Fornero, invece, soprattutto la Lega (ma anche i 5 stelle) spinge per fare presto e dare un segnale fin dalle settimane a venire. Da qui il pressing per inserire in un decreto legge ad hoc, da varare tra fine giugno e inizi luglio, un primo pacchetto di interventi specifici: tutti quelli descritti sopra che in comune hanno l'accresciuto ruolo dei privati.
Il governo non parla in alcun caso di taglio al cuneo fiscale, ma semplicemente di intervenire sulle tasse dirette con l'obiettivo di creare una Flat tax dedicata alle imprese. In pratica da un lato si lima il prelievo e dall'altra si carica la contribuzione previdenziale ancor più sulle spalle delle aziende. Tertium non datur. A meno che non si voglia sforare il deficit previsto. Ma quest'anno sembra da escludere, dal momento che la manovra di ottobre dovrà trovare circa 15 miliardi per sterilizzare le clausole di salvaguardia ed evitare che dal prossimo gennaio aumenti l'Iva.
C'è poi un enorme capitolo relativo ai contratti di lavoro. Le dichiarazioni di ieri rientrano ancora tutte nel post campagna elettorale. A sentire parlare Luigi Di Maio, ogni tanto si ha l'impressione che i toni siano ancora quelli dell'opposizione. Anche Brambilla nella l'intervista rilasciata a Repubblica ha buttato sul tavolo alcune tematiche senza tirare le fila.
Quanto al Jobs act, ha dichiarato l'esponente leghista, «ha cose buone, ma va destrutturato. Bisogna scendere da 1.000 pagine a un nuovo Statuto del lavoro di 30-40. Poi ridurre la precarietà, cancellando il decreto Poletti. Non toccherei l'articolo 18. Ma ripristinerei i voucher da 10 euro, limitati ai settori originari: agricoltura, babysitting, giardinaggio, pulizie. Fisserei il salario minimo orario a 9 euro. E abolirei gli sgravi sulle assunzioni dei giovani che non funzionano». Siamo curiosi di capire quale sarà l'approccio alle politiche attive di inserimento. Di Maio ha annunciato di voler riunire tutti i presidenti di Regione per discutere dei centri per l'impiego (che dipendono dagli enti locali). Come verranno modificati non è ancora dato sapere. Di certo Garanzia giovani non ha funzionato e gli ultimi interventi a base di incentivi fiscali hanno finito con il minare il praticantato unico schema ben congegnato, perché prevede investimenti di lungo termine e vere scommesse sulla professionalità dei singoli lavoratori.
Claudio Antonelli
La carota della flat tax: imposte giù dal 2019
La giornata di ieri, caratterizzata dalle polemiche sulla flat tax, ha chiarito due cose. La prima: il governo Lega-M5s si è dato un orizzonte temporale di lungo respiro, tanto è vero che la modulazione della flat tax è già scadenzata sui prossimi due-tre anni. La seconda: la Lega fa sul serio sulla riduzione delle tasse, i cervelloni del Carroccio stanno lavorando giorno e notte per mettere a punto la strategia giusta per concretizzare il cavallo di battaglia di Matteo Salvini in campagna elettorale e per superare le obiezioni e le perplessità dell'apparato burocratico, il cui sostegno è indispensabile per tradurre in provvedimenti di governo le proposte contenute nel «contratto».
Giovedì e venerdì scorso, in particolare, stando a indiscrezioni attendibili, lo staff del «premier ombra» Giancarlo Giorgetti avrebbe preso contatto con il Dipartimento affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio, il cosiddetto «Dagl», santuario di Nostra Signora Burocrazia. Gli uomini di Giorgetti avrebbero informato il Dagl della volontà ferrea di aprire al più presto il capitolo flat tax del contratto di governo, ricevendo risposte cortesi quanto rigide: «Ci vogliono le coperture».
Ieri, tre autorevolissimi economisti del Carroccio, Alberto Bagnai, Armando Siri e Claudio Borghi, hanno animato il dibattito su questo delicatissimo fronte. Ospite di Agorà su Rai 3, Alberto Bagnai ha lanciato il classico sasso nello stagno: «Mi sembra», ha detto il parlamentare della Lega, «che ci sia un accordo sul fatto di far partire la flat tax sui redditi di impresa a partire dall'anno prossimo, il 2019, e poi a partire dal secondo anno, dal 2020, si prevede di applicarla alle famiglie. Peraltro parlare di flat tax diventa improprio perché implicherebbe una aliquota unica, invece dalla mediazione con il M5s è emerso un modello con due scaglioni di reddito. L'Italia è in una situazione di gravissima crisi economica, nel 2021 il reddito pro capite sarà quello del 2003. Il ricorso al deficit per stimolare l'economia», ha sottolineato Bagnai, «riteniamo che possa essere accettato in sede europea».
Dunque, il taglio delle tasse per le imprese è la priorità assoluta della Lega di governo. La possibilità di ricorrere al deficit è stata oggetto anche dei primi colloqui informali con la burocrazia di Palazzo Chigi. Sforbiciare le tasse sulle imprese consentirà agli imprenditori di assumere e investire, mettendo in circolazione denaro fresco, destinato a far aumentare i consumi e, quindi, in prospettiva, a far entrare più soldi nelle casse dello Stato. Le parole di Bagnai hanno provocato una sventagliata di critiche da parte della sinistra, che ha accusato l'economista del Carroccio di fare marcia indietro e, udite udite, di copiare quanto fatto dal governo guidato da Matteo Renzi. «Sulla flat tax», ha scritto il reggente del Pd, Maurizio Martina, su Twitter, «continua la presa in giro degli italiani da parte di Lega e M5s. Sulle imprese fanno finta di non sapere che abbiamo già fatto noi: Ires (dal 27,5 al 24%) e Iri (al 24% per le Pmi)». Numerosi anche gli attacchi da parte di Forza Italia, in particolare sul presunto «rinvio» della flat tax per le famiglie. Quelli del Pd, dimenticano un piccolo dettaglio: se è vero che l'Ires è stata portata al 24%, la flat tax prevede che l'aliquota scenda al 15% per i redditi fino a 80mila euro e al 20% per quelli superiori. Quindi, il taglio delle tasse per le imprese previsto dalla Lega e dal M5s è sostanzioso.
Non solo: anche il presunto «rinvio della flat tax per le famiglie», denunciato dalle opposizioni è tutt'altro che inevitabile. La discussione è in pieno svolgimento, come dimostra quanto affermato da Armando Siri, altro esponente della Lega: «Non è vero», ha detto Siri ad Affaritaliani.it, «che dal prossimo anno la flat tax entrerà in vigore solo per le imprese, ma ci sarà anche per le famiglie. Poi tutto sarà a regime per il 2020. Si deve partire», ha spiegato Siri, «con degli step: il sistema è diverso perché la flat tax per le imprese c'è già e noi la estendiamo anche a società di persone, partite iva e così via. È una riforma storica perché viene trasferito a 5 milioni di operatori quello che oggi è solo per 800.000 imprese. Fino ad oggi», ha precisato Siri, «solo le società di capitali hanno la flat tax. Poi per le famiglie cominceremo già dal 2019 con dei parametri che andranno a perfezionarsi nel 2020 fino a completarla».
In sostanza, al di là delle schermaglie da talk show, quello che è certo è che la Lega non ha perso un solo istante, e vuole assolutamente varare il taglio delle tasse già con la prossima legge di Stabilità. «La cosa più semplice», ha sintetizzato un altro autorevole economista della Lega, Claudio Borghi, a Sky, «è la riduzione dell'Ires alle imprese e l'estensione alle partite Iva. Cambiare completamente il fisco non è cosa da poco, siamo a giugno e non abbiamo ancora la fiducia e non ci sono ancora le commissioni parlamentari».
Carlo Tarallo
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Riduci
Per copirire Ape social e quota 100, si tratta sui costi per le imprese. Il governo pensa di far ricadere sulle aziende parte delle uscite anticipate istituendo un fondo di solidarietà sul modello bancario prelevando lo 0,3% sul lordo in busta paga. Anticipo pensionistico destinato a sparire.L'incentivo della flat tax: imposte giù dal 2019. La Lega vuol fare sul serio sulla riduzione delle tasse, la burocrazia ministeriale pone problemi di coperture. L'anno prossimo si partirebbe con le imprese. Il Pd fa sapere: «Già fatto da Matteo Renzi». Dibattito sullo «sconto» per le famiglie: più facile partire dal 2020.Lo speciale contiene due articoliLa posizione leghista sulle pensioni prende forma. A buttare lì qualche dettaglio in più è l'ex sottosegretario al Welfare ai tempi di Silvio Berlusconi, Alberto Brambilla. Innanzitutto in termini di costi. Modificare la legge Fornero secondo l'esponente del Carroccio costerà 5 miliardi di euro all'anno e non 20 come sostiene il numero uno dell'Inps, Tito Boeri. «L'idea di mandare in pensione chi ha almeno 64 anni e 36 di contributi, oppure 41 anni di contributi a prescindere dall'età (purché si escludano i contributi figurativi)», spiega in un'intervista l'esperto di pensioni leghista, «permetterà di superare lo scalone Fornero». Ovviamente lo schema prevede tanti altri gradini. Perché non basta girare la spesa pubblica e invertirla. La popolazione invecchia e la produttività non cresce. Sul modello bastone e carota, il governo pensa di far ricadere sulle aziende una parte delle uscite anticipate. L'idea sarebbe quella di istituire per le diverse categorie produttive un fondo di solidarietà sul modello bancario. Ovvero alimentare i panieri pensionistici con il prelievo dello 0,3% sul lordo versato in busta paga. Senza contare che l'Ape social sarebbe destinata a sparire. Il che consentirebbe un minore esborso annuale di circa 1,5 miliardi all'anno. Al tempo stesso, verrebbero penalizzati tutti coloro che arrivano a fine corsa lavorativa con grande impegno fisico. In discussione anche Opzione donna, che vedrebbe uno spostamento della stanghetta per il ritiro dalla fascia attiva almeno due anni più in là nel tempo. L'ipotesi leghista troverebbe già una posizione contraria nel fronte dei 5 stelle che vorrebbe sostenere le categorie dei lavoratori usurati. Secondo quanto risulta alla Verità, la posizione grillina dovrebbe però essere di mera facciata perché il partito di Luigi Di Maio ha la necessità di portare a casa il reddito di cittadinanza. Sarebbe dunque disposto a barattare talune garanzie pensionistiche a favore della promessa elettorale che gli ha garantito i voti del Sud. Il neoministro del Lavoro e dello Sviluppo ieri ha insistito apertamente sul reddito di cittadinanza e sulla pensione di cittadinanza, ma prima di arrivare a queste misure servirà tempo e la loro previsione potrà avvenire semmai con la legge di Bilancio in autunno. Sull'alleggerimento della legge Fornero, invece, soprattutto la Lega (ma anche i 5 stelle) spinge per fare presto e dare un segnale fin dalle settimane a venire. Da qui il pressing per inserire in un decreto legge ad hoc, da varare tra fine giugno e inizi luglio, un primo pacchetto di interventi specifici: tutti quelli descritti sopra che in comune hanno l'accresciuto ruolo dei privati.Il governo non parla in alcun caso di taglio al cuneo fiscale, ma semplicemente di intervenire sulle tasse dirette con l'obiettivo di creare una Flat tax dedicata alle imprese. In pratica da un lato si lima il prelievo e dall'altra si carica la contribuzione previdenziale ancor più sulle spalle delle aziende. Tertium non datur. A meno che non si voglia sforare il deficit previsto. Ma quest'anno sembra da escludere, dal momento che la manovra di ottobre dovrà trovare circa 15 miliardi per sterilizzare le clausole di salvaguardia ed evitare che dal prossimo gennaio aumenti l'Iva. C'è poi un enorme capitolo relativo ai contratti di lavoro. Le dichiarazioni di ieri rientrano ancora tutte nel post campagna elettorale. A sentire parlare Luigi Di Maio, ogni tanto si ha l'impressione che i toni siano ancora quelli dell'opposizione. Anche Brambilla nella l'intervista rilasciata a Repubblica ha buttato sul tavolo alcune tematiche senza tirare le fila. Quanto al Jobs act, ha dichiarato l'esponente leghista, «ha cose buone, ma va destrutturato. Bisogna scendere da 1.000 pagine a un nuovo Statuto del lavoro di 30-40. Poi ridurre la precarietà, cancellando il decreto Poletti. Non toccherei l'articolo 18. Ma ripristinerei i voucher da 10 euro, limitati ai settori originari: agricoltura, babysitting, giardinaggio, pulizie. Fisserei il salario minimo orario a 9 euro. E abolirei gli sgravi sulle assunzioni dei giovani che non funzionano». Siamo curiosi di capire quale sarà l'approccio alle politiche attive di inserimento. Di Maio ha annunciato di voler riunire tutti i presidenti di Regione per discutere dei centri per l'impiego (che dipendono dagli enti locali). Come verranno modificati non è ancora dato sapere. Di certo Garanzia giovani non ha funzionato e gli ultimi interventi a base di incentivi fiscali hanno finito con il minare il praticantato unico schema ben congegnato, perché prevede investimenti di lungo termine e vere scommesse sulla professionalità dei singoli lavoratori.Claudio Antonelli<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/bastone-e-carote-flattax-fornero-2575176048.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-carota-della-flat-tax-imposte-giu-dal-2019" data-post-id="2575176048" data-published-at="1765656363" data-use-pagination="False"> La carota della flat tax: imposte giù dal 2019 La giornata di ieri, caratterizzata dalle polemiche sulla flat tax, ha chiarito due cose. La prima: il governo Lega-M5s si è dato un orizzonte temporale di lungo respiro, tanto è vero che la modulazione della flat tax è già scadenzata sui prossimi due-tre anni. La seconda: la Lega fa sul serio sulla riduzione delle tasse, i cervelloni del Carroccio stanno lavorando giorno e notte per mettere a punto la strategia giusta per concretizzare il cavallo di battaglia di Matteo Salvini in campagna elettorale e per superare le obiezioni e le perplessità dell'apparato burocratico, il cui sostegno è indispensabile per tradurre in provvedimenti di governo le proposte contenute nel «contratto». Giovedì e venerdì scorso, in particolare, stando a indiscrezioni attendibili, lo staff del «premier ombra» Giancarlo Giorgetti avrebbe preso contatto con il Dipartimento affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio, il cosiddetto «Dagl», santuario di Nostra Signora Burocrazia. Gli uomini di Giorgetti avrebbero informato il Dagl della volontà ferrea di aprire al più presto il capitolo flat tax del contratto di governo, ricevendo risposte cortesi quanto rigide: «Ci vogliono le coperture». Ieri, tre autorevolissimi economisti del Carroccio, Alberto Bagnai, Armando Siri e Claudio Borghi, hanno animato il dibattito su questo delicatissimo fronte. Ospite di Agorà su Rai 3, Alberto Bagnai ha lanciato il classico sasso nello stagno: «Mi sembra», ha detto il parlamentare della Lega, «che ci sia un accordo sul fatto di far partire la flat tax sui redditi di impresa a partire dall'anno prossimo, il 2019, e poi a partire dal secondo anno, dal 2020, si prevede di applicarla alle famiglie. Peraltro parlare di flat tax diventa improprio perché implicherebbe una aliquota unica, invece dalla mediazione con il M5s è emerso un modello con due scaglioni di reddito. L'Italia è in una situazione di gravissima crisi economica, nel 2021 il reddito pro capite sarà quello del 2003. Il ricorso al deficit per stimolare l'economia», ha sottolineato Bagnai, «riteniamo che possa essere accettato in sede europea». Dunque, il taglio delle tasse per le imprese è la priorità assoluta della Lega di governo. La possibilità di ricorrere al deficit è stata oggetto anche dei primi colloqui informali con la burocrazia di Palazzo Chigi. Sforbiciare le tasse sulle imprese consentirà agli imprenditori di assumere e investire, mettendo in circolazione denaro fresco, destinato a far aumentare i consumi e, quindi, in prospettiva, a far entrare più soldi nelle casse dello Stato. Le parole di Bagnai hanno provocato una sventagliata di critiche da parte della sinistra, che ha accusato l'economista del Carroccio di fare marcia indietro e, udite udite, di copiare quanto fatto dal governo guidato da Matteo Renzi. «Sulla flat tax», ha scritto il reggente del Pd, Maurizio Martina, su Twitter, «continua la presa in giro degli italiani da parte di Lega e M5s. Sulle imprese fanno finta di non sapere che abbiamo già fatto noi: Ires (dal 27,5 al 24%) e Iri (al 24% per le Pmi)». Numerosi anche gli attacchi da parte di Forza Italia, in particolare sul presunto «rinvio» della flat tax per le famiglie. Quelli del Pd, dimenticano un piccolo dettaglio: se è vero che l'Ires è stata portata al 24%, la flat tax prevede che l'aliquota scenda al 15% per i redditi fino a 80mila euro e al 20% per quelli superiori. Quindi, il taglio delle tasse per le imprese previsto dalla Lega e dal M5s è sostanzioso. Non solo: anche il presunto «rinvio della flat tax per le famiglie», denunciato dalle opposizioni è tutt'altro che inevitabile. La discussione è in pieno svolgimento, come dimostra quanto affermato da Armando Siri, altro esponente della Lega: «Non è vero», ha detto Siri ad Affaritaliani.it, «che dal prossimo anno la flat tax entrerà in vigore solo per le imprese, ma ci sarà anche per le famiglie. Poi tutto sarà a regime per il 2020. Si deve partire», ha spiegato Siri, «con degli step: il sistema è diverso perché la flat tax per le imprese c'è già e noi la estendiamo anche a società di persone, partite iva e così via. È una riforma storica perché viene trasferito a 5 milioni di operatori quello che oggi è solo per 800.000 imprese. Fino ad oggi», ha precisato Siri, «solo le società di capitali hanno la flat tax. Poi per le famiglie cominceremo già dal 2019 con dei parametri che andranno a perfezionarsi nel 2020 fino a completarla». In sostanza, al di là delle schermaglie da talk show, quello che è certo è che la Lega non ha perso un solo istante, e vuole assolutamente varare il taglio delle tasse già con la prossima legge di Stabilità. «La cosa più semplice», ha sintetizzato un altro autorevole economista della Lega, Claudio Borghi, a Sky, «è la riduzione dell'Ires alle imprese e l'estensione alle partite Iva. Cambiare completamente il fisco non è cosa da poco, siamo a giugno e non abbiamo ancora la fiducia e non ci sono ancora le commissioni parlamentari». Carlo Tarallo
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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