2023-05-29
Basta guerra del tampone, ora si torni a curare tutti
Ma se i genitori di Luca (rigorosamente «no vax», come tutti i cattivi degni di tale nome da un paio d’anni a questa parte) sono dei tentati assassini perché avrebbero rifiutato di far fare il tampone al figlioletto di 4 anni, ricoverato per tutt’altra patologia, al fine di stabilire se per caso avesse anche il Covid; i medici che senza l’intervento del magistrato si rifiutavano di ricoverare il bambino (rigorosamente asintomatico) perché non erano sicuri che non fosse positivo che cosa sono?E un ministro della Sanità che permette che tuttora nei nostri ospedali possano verificarsi spropositi di questo tipo, che cos’è?È davvero arrivato il momento di farla finita con la sospensione della logica e dell’umanità in nome di una demenziale guerra a un virus che, numeri alla mano, non dovrebbe più spaventare nessuno. Ammesso, e non concesso, che il terrore fosse comprensibile in altri momenti, volete spiegarci che cosa giustifica ADESSO un ospedale o un medico i quali subordinano qualsiasi cosa, potenzialmente perfino la vita di un paziente, all’accertamento della presenza di un patogeno? Peraltro dalla letalità risibile. È solo perché questo patogeno si chiama Covid e non ci si riesce a staccare da una psicosi artificiale?Basta. Se i genitori di Luca possono essere indagati per tentato omicidio nei confronti della loro creatura perché non volevano correre il rischio di vederla isolata e magari non curata (o curata male) a causa di un insensato protocollo, allora devono essere indagati per lo stesso reato pure coloro che quel protocollo lo impongono anche a scapito della salute dei malati. E con loro lo deve essere il dottor professor ministro Ponzio Pilato che non ha il coraggio di sancire una volta per tutte il ritorno alla normalità. Alla piena, totale normalità. Che grazie al cielo, vi informo, in Italia bacia di nuovo tutte le attività umane. Tranne quelle che si svolgono in presidi sanitari e nelle Rsa. Facendo sorgere più di un sospetto sul cui prodest: non è che certe regole emergenziali sono in realtà assai gradite in quegli ambienti perché levano un bel po’ di rogne di torno? Beh, c’è un modo semplice semplice per mettere a tacere i maligni: si chiuda l’era del terrore alimentato da Conti, Draghi, Speranze, virostar e corifei della presunta informazione di complemento e si ricominci ad accogliere e curare senza barriere preventive chi si rivolge al servizio sanitario. Pretendendo, questo sì, che vengano mantenute le promesse profuse a piene mani di mettere medici e infermieri nelle condizioni di fare il loro prezioso lavoro al meglio. La vera battaglia che vale la pena di essere combattuta. Altro che quella del tampone.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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