2021-03-02
Le nostre aziende si danno da fare ma per produrre vaccini serve tempo
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Farmindustria, in audizione al Senato, promette investimenti per 4,5 miliardi da qui al 2024. La riconversione però è complessa e darà frutti l'anno prossimo. Intanto Bruxelles compra da Moderna altri 300 milioni di dosi. Domani il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, incontrerà i rappresentanti delle aziende farmaceutiche.Domani ci sarà un nuovo round al ministero dello Sviluppo economico, con Giancarlo Giorgetti che incontrerà i rappresentanti delle aziende farmaceutiche dopo il primo confronto del 25 febbraio. Andrà quindi avanti la ricognizione tecnica per valutare le effettive capacità degli impianti disponibili nel Paese per partecipare eventualmente a una produzione di vaccini che avrà comunque bisogno di almeno sei-otto mesi per partire. Per non parlare degli investimenti necessari, considerando che i soldi del Recovery fund, arriveranno, forse, solo nel 2022. Ieri il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, in audizione alla commissione Sanità del Senato, ha detto che le aziende italiane del Pharma, «in un quadro favorevole di incentivi e regole, riforme da costruire con il Piano nazionale di ripresa e resilienza» sono pronte «a promuovere investimenti aggiuntivi in Italia per circa 4,5 miliardi, nel periodo 2021-2024. Ovvero +40% rispetto a 3 miliardi già effettuati ogni anno: 2,5 miliardi in ricerca e innovazione dei percorsi di cura e circa 2 in produzione, incluse attività di logistica e supply chain». Si tratta, ha spiegato Scaccabarozzi, di «investimenti quantitativamente significativi e con caratteristiche qualitative importanti. Per questo, riteniamo che il Pnrr debba considerare la farmaceutica una filiera strategica: sia per aumentare le opzioni terapeutiche, sia per gli investimenti che è in grado di attivare in Italia, direttamente e in rete con tutto l'ecosistema della ricerca e della formazione». Ma la questione vaccini è diversa e gli industriali la tengono distinta. L'invocata riconversione degli stabilimenti è possibile, ma serve tempo perché si tratta di un'operazione complessa, «che potrà partire solo tra la fine del 2021 e l'inizio del prossimo anno», ha spiegato Scaccabarozzi. Alcune aziende hanno già delle macchine per l'infialamento, ma bisogna vedere se sono adatte a infialare proprio quei vaccini. Alla Catalent di Anagni per esempio lo stanno già facendo con Astrazeneca e lo faranno anche con il preparato di Johnson&Johnson. Poi c'è Gsk, che ha uno stabilimento in provincia di Siena e ha già i bioreattori, ma non per il vaccino anti Covid, bensì per quello contro la meningite, che è batterico. E quindi servono per vaccini altrettanto importanti. Insomma, non si può pensare di produrre, pronti attenti, via. E le scorciatoie in questo tipo di industria non esistono. L'emergenza va affrontata con i vaccini già sul mercato, cui presto se ne aggiungeranno di nuovi, come quello di J&J. Non solo. Proprio ieri il commissario Ue per la salute, Stella Kyriakides, ha annunciato che Bruxelles ha firmato con Moderna un secondo contratto per la fornitura di altri 300 milioni di dosi. Si può pensare a una produzione italiana di vaccini anti Covid che serva quando il virus potrebbe diventare endemico e saranno necessari richiami periodici (come con l'influenza). Le strozzature nella produzione su larga scala potranno poi essere superate lavorando con l'industria e incoraggiando la tendenza, già presente, a consorziarsi e a tessere alleanze, garantendo incentivi per le esportazioni con sgravi fiscali anche per gli investimenti provenienti dalle commesse estere su ricerca e produzione.Nel frattempo, Astrazeneca è disposta a «cedere le licenze di produzione per accelerare. È quello che abbiamo fatto negli ultimi mesi: i 20 stabilimenti di produzione nel mondo non sono solo nostri». Lorenzo Wittum, ad di Astrazeneca Italia, ha sottolineato che lo stanno già facendo «e siamo disposti ad aumentarlo». Per farlo, ha concluso, «abbiamo bisogno di un partner capace di gestire questo processo di produzione, perché il trasferimento tecnologico non è assolutamente facile, e che abbia capacità di produzione di decine di milioni al mese». Che il nodo vero di questa emergenza non stia nell'abolizione del brevetto ma risieda, soprattutto, nell'impossibilità produttiva delle aziende, è convinta Lucia Aleotti, azionista e membro del cda del gruppo Menarini e del comitato di presidenza di Farmindustria. In un'intervista pubblicata ieri dal Messaggero la manager ha sottolineato che, anche se il brevetto fosse abolito pur transitoriamente, la situazione «non cambierebbe, anzi si aggraverebbe». «Bisogna rendersi conto che il brevetto è la spinta per portare avanti la ricerca e continuare a lavorare come si è fatto nell'ultimo anno. Non c'è ricerca senza brevetto. I farmaci ci sono perché qualcuno ha investito per scoprirli». Anche le aziende che normalmente si occupano prevalentemente di questi prodotti lavorano in affanno. Perché i numeri sono lievitati a dismisura e i tempi per arrivare alla confezione finale non si possono dimezzare più di tanto. Un esempio: «La nostra azienda si occupa della produzione degli anticorpi monoclonali italiani messi a punto dal Centro di ricerca del Mad Lab del Toscana Life Science. Ebbene, i filtri che prima ci arrivavano in due giorni oggi ci mettono mesi».