2021-11-23
«Aiutò azienda cinese contro gli Usa». Biden rischia per gli affari del figlio
Nel 2016 l'erede dell'allora vice di Barack Obama mediò la cessione di una miniera di cobalto, minerale raro cruciale per l'economia americana. Se ora anche il «Nyt» picchia sui rapporti con Pechino è un brutto segno per Joe.Si preannunciano nuove grane per Joe Biden a causa di suo figlio Hunter. Sabato, il New York Times ha riportato un fatto che rischia di creare non pochi grattacapi alla Casa Bianca. Bhr - società finanziaria di cui lo stesso Hunter era membro fondatore - ha infatti favorito la cessione dell'80% di un'importante miniera di cobalto, situata nella Repubblica democratica del Congo, da parte della società americana Freeport-McMoRan al colosso statale cinese China Molybdenum. Il costo complessivo dell'operazione è stato di 3,8 miliardi di dollari: in particolare, 2,65 miliardi sono stati messi dalla stessa China Molybdenum, mentre 1,14 miliardi sarebbero arrivati da Bhr: quella Bhr che, sempre secondo il New York Times, era detenuta al 30% da Hunter e da due suoi soci americani, mentre il resto era «di proprietà o controllato da investitori cinesi che includono la Bank of China». Ora, va da sé che tutto questo pone in luce una serie di problemi non indifferenti. Innanzitutto il figlio dell'attuale presidente americano è stato coinvolto in un'operazione che ha contribuito a mettere a repentaglio la sicurezza nazionale. Va infatti sottolineato che la miniera in questione è quella di Tenke Fungurume, che rappresenta una delle principali fonti di cobalto a livello mondiale. Quel cobalto che costituisce un asset sempre più importante per gli Stati Uniti. Un rapporto pubblicato lo scorso giugno dalla stessa Casa Bianca ha infatti sottolineato che «il Dipartimento dell'Energia rileva che, oggi, la Cina raffina il 60% del litio mondiale e l'80% del cobalto mondiale, due componenti fondamentali per batterie ad alta capacità, che presentano una vulnerabilità critica per il futuro dell'industria automobilistica nazionale statunitense». Un secondo fattore rilevante è l'anno in cui questa operazione è stata condotta: si tratta del 2016, quando cioè Joe Biden era ancora in carica come vicepresidente degli Stati Uniti. Si allunga dunque l'elenco delle attività controverse svolte da Hunter mentre suo padre era il numero due della Casa Bianca: ricordiamo, a tal proposito, il suo ingresso tra le alte sfere dell'azienda energetica ucraina Burisma Holdings nel 2014 o il viaggio a Pechino, insieme al genitore, sull'Air Force Two nel 2013: viaggio a cui seguì - guarda caso - l'ottenimento di una licenza dalle autorità di Shangai per costituire proprio Bhr. Ovviamente, neanche a dirlo, tutti smentiscono il conflitto di interessi: secondo il New York Times, la Casa Bianca ha infatti negato che Joe Biden fosse a conoscenza del coinvolgimento del figlio nell'affare della miniera, mentre un ex membro del cda di Bhr ha riferito che Hunter non avrebbe nulla a che fare con la vicenda. Posizioni di cui è doveroso prendere atto, ma che lasciano un tantino perplessi. In terzo luogo, tutto questo conferma ulteriormente i controversi rapporti del figlio di Biden con Pechino, a partire dai suoi legami con Ye Jianming: businessman che, prima di cadere in disgrazia, era a capo della società Cefc China Energy e che vantava connessioni con alcuni settori dell'Esercito popolare di liberazione. In particolare, un rapporto dei senatori repubblicani, pubblicato l'anno scorso, aveva scoperto che nel 2017 l'azienda cinese State Energy HK Limited avesse effettuato due bonifici dal valore di sei milioni di dollari a una società di Rob Walker: figura, che il rapporto definì «un socio d'affari di lungo corso» di Hunter: quella stessa State Energy HK Limited che era a sua volta affiliata a Cefc China Energy. Tuttavia c'è un ulteriore aspetto interessante da sottolineare. La notizia della miniera non è esattamente uno scoop. Per quanto senza particolare enfasi, la cosa era già uscita sulla stampa da qualche tempo: fu, per esempio, citata dal Financial Times già nell'ottobre 2019. Ci sarebbe quindi da chiedersi per quale ragione il New York Times abbia deciso di mettere proprio adesso questa storia sotto i riflettori: tanto più che, soprattutto durante l'ultima campagna elettorale per le presidenziali, non è che il quotidiano in questione risultasse troppo attento ai delicati affari di Hunter. Non è che la testata - di noti sentimenti liberal e mostratasi tutto sommato abbastanza amichevole verso Joe Biden lo scorso anno - abbia voluto colpire politicamente l'attuale presidente? Non è del resto un mistero che la sinistra dem sia sempre più scontenta dell'inquilino della Casa Bianca. E rispolverare oggi la storia della miniera non è di particolare aiuto a un Joe Biden che deve contemporaneamente fronteggiare dossier scottanti come il caro benzina, l'inflazione, l'immigrazione clandestina o l'Afghanistan. E infatti, non appena il New York Times ha ripreso la questione della miniera, i repubblicani sono andati all'attacco. Il senatore Tom Cotton ha parlato di «corruzione di famiglia», mentre il deputato Ken Buck ha chiesto al Dipartimento di Giustizia la nomina di un procuratore speciale per indagare sugli affari di Hunter: una mossa forse intentata nella speranza di arrivare prima o poi a un impeachment presidenziale. E allora no: Joe Biden non può decisamente dormire sonni tranquilli.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
Continua a leggereRiduci