2023-02-06
«L’autonomia è progresso. L’identità sta nella cultura»
Stefano Bruno Galli (Ansa)
L’assessore lombardo Stefano Bruno Galli: «È l’orgoglio di fare da sé. Macché fuga in avanti, c’è un ritardo di 22 anni. Finora i governi hanno guardato solo ai conti e non alla qualità dei servizi».Come chiamarlo? Assessore? Ha tenuto in mano negli anni complicati del Covid quella che lui definisce «lombardità» attraverso la cultura, compito che si ripromette di continuare visto che è candidato alle regionali con la Lega a Milano. O professore? «Professore è meglio», risponde con una voce calda come una costoletta, dorata come la Madonnina, con un’inflessione da prestiné che si alza presto a fare il pane. In questo caso il pane per lo spirito «perché gli assessori passano». È ovviamente una battuta, ma Stefano Bruno Galli ha un approccio autoironico e poi sono giorni fecondi di soddisfazione questi per chi come lui, docente di storia delle dottrine politiche e teorie e storia della democrazia all’università Statale di Milano, da trent’anni studia, e si batte, facendo politica nella Lega, sui temi del federalismo, del costituzionalismo, del nazionalismo. Dovremmo discutere di cultura, ma a 72 ore dall’approvazione del disegno di legge delega del ministro Roberto Calderoli sull’autonomia differenziata è impossibile non affrontare questa «promessa mantenuta», come ha detto Giorgia Meloni. Soddisfatto dopo tanti anni di battaglie sul federalismo?«Sì, perché è un significativo passo avanti rispetto a quanto avevano elaborato Francesco Boccia del Pd e Maria Stella Gelmini, ora in Azione, che stavano arzigogolando una legge quadro per definire i contorni dell’autonomia. Calderoli fa la cosa più giusta: dà attuazione all’articolo 116 comma terzo della Costituzione. Sana un vulnus giuridico».Eppure il Pd, immemore che il titolo quinto della Costituzione fu riformato a colpi di maggioranza dal governo di Massimo D’Alema, sale sulle barricate…«È propaganda. La verità è che la presunta Costituzione più bella del mondo lascia nel vago, nella formulazione del Titolo quinto riformato, il concetto di autonomia. Nessuno ha mai detto come concretamente si attua. Finalmente si è imboccata una strada. Ora per arrivare a compimento c’è una serie corposa di adempimenti. Intanto l’autonomia differenziata si applica alle regioni in pareggio di bilancio e poi c’è un passaggio fondamentale che è la sovranità del Parlamento: gli spetta l’ultima parola. Aggiungo che, nel formulare la legge Calderoli, ci si è mossi sulla strada del buonsenso».Ma Lep e Lea non sono destinati a generare Regioni di serie A e di serie B? «Semmai sono destinati a garantire a tutti i cittadini livelli omogenei di qualità sia nella sanità sia nella scuola. C’è un difetto che nessuno rileva, ed è antico. Ci ho scritto su 21 libri. È la disomogeneità delle nostre Regioni per come sono state definite. Sono mere espressioni di confini amministrativi pensati nel 1852 da Cesare Correnti, amico di Carlo Cattaneo, che servirono al Regno d’Italia per il primo censimento. Con tutto il rispetto, il Molise è una super provincia e per amministrarlo bastano e avanzano le competenze delle vecchie Province: è mai possibile che abbia le stesse regole della Lombardia che è una Regione-nazione? L’autonomia differenziata serve anche a correggere queste distorsioni. Quanto ai Lep (Livelli essenziali delle prestazioni, ndr) è colpa del governo centrale che non li ha individuati dal 2001. Hanno sempre e solo guardato ai bilanci delle Regioni, che non ci fossero sconquassi nei conti. Questo al Sud ha significato che non si dava nessun valore alla qualità delle prestazioni. Se fai i Lep, ma anche in sanità è la stessa cosa, obblighi chi amministra a prendersi le responsabilità. Che sono quelle che molti dei contestatori dell’autonomia differenziata non si vogliono prendere».Ma c’è la questione dei soldi, del federalismo fiscale…«Credo che la questione finanziaria sia di secondaria importanza, l’autonomia è prima di tutto una partita di carattere culturale. Lo diceva benissimo Carlo Cattaneo: è l’orgoglio di far da sé, di dipendere meno dallo Stato. Ogni giorno devi fare lo sforzo di meritartela l’autonomia. E poi credo che la nostra azione sia un atto di grande lealtà costituzionale. C’è un articolo della Costituzione e tu devi farlo funzionare».La contropartita è il presidenzialismo?«È una questione tecnica prima ancora che politica: il presidenzialismo comporta una verticalizzazione dei poteri. E se tu, su determinate materie che le Regioni possono scegliersi, hai consolidato un’ampia base orizzontale amministrativa, poi ha bisogno e ti puoi permettere il presidenzialismo. Basta vedere come funzionano gli Stati Uniti».Se l’autonomia è un fatto culturale, la Lombardia ha spinto le politiche culturali per questo?«Abbiamo fatto un lavoro denso e intenso sul lombardismo. Con Fondazione Mondadori - cosa altra dalla casa editrice - abbiamo pubblicato una ventina di volumi nella collana “Patrimonio lombardo” sui grandi della nostra terra. Carlo Cattaneo, Gianfranco Miglio, Gianni Brera. Abbiamo pubblicato un’antologia della poesia lombarda da Bonvesin della Riva a Nanni Svampa, un volume per i 70 anni della compagnia teatrale dei Legnanesi, uno per Leonardo e i leonardeschi. Tutto per dare testimonianza dell’identità. Penso alla pubblicazione del Desgrazi de Giovanin Bongee di Carlo Porta, intellettuale finissimo che usa il dialetto per essere universale».Si discute tanto di vermi nel piatto, ma la cucina non è identità?«Altroché, e soprattutto per noi lombardi. Non ho la delega al cibo, ma credo che sia ora di fare una storia compiuta dell’enogastronomia lombarda come fatto culturale».È faticoso fare l’assessore alla cultura?«È gratificante. La Lombardia anche dal punto di vista culturale è sovradimensionata. Ci sono 605 musei, 581 sale cinematografiche, 498 teatri, 21 siti Unesco a cui si aggiunge la candidatura doverosa e strameritata del duomo di Milano. Lo sforzo è stato di promuovere tutto insieme. Mi hanno detto - Luca Ranieri prima viola dell’orchestra della Rai, i Solisti pavesi di Enrico Dindo - che abbiamo fatto più noi in una legislatura per la sinfonica e la classica di quanto era stato fatto nei trent’anni prima».Ma con la cultura si fa sviluppo?«Assolutamente sì. Abbiamo attraversato un periodo difficile. Il Covid distraeva risorse e rendeva non fruibili i luoghi della cultura. Abbiamo puntato a mettere in sicurezza il sistema e a rilanciare appena possibile. In Lombardia abbiamo il 40% delle imprese creative d’Italia. Con il progetto Innovamusei per dare una robusta spinta tecnologica alle collezioni, abbiamo fatto una realizzazione di avanguardia che ora dobbiamo portare almeno in 205 musei. Abbiamo spinto al massimo su Artbonus il sistema che consente a chi investe in cultura di avere detrazioni fiscali. Prima del Covid avevamo il 38% di finanziamento da Artbonus, ora siamo oltre il 51%. Su 400 milioni d’investimento in cultura in Lombardia il 19% viene dalla Regione, il 33% dallo Stato il 51% dalle imprese private. E anche in questo siamo di gran lunga la prima regione perché siamo passati dal concetto dell’elargizione benefica all’investimento che il privato fa in cultura. È un lavoro però a metà che spero di continuare».Con quali obbiettivi?«Rafforzare il sistema Artbonus, gestire i piccoli teatri. Ho in mente il direttore condiviso dei piccoli teatri che hanno bisogno di programmazione. Poi c’è bisogno di un sistema d’informazione sugli investimenti possibili. Capita spesso che il privato decida di restaurare, che so, la biblioteca comunale e magari c’è più bisogno per il Conservatorio. È necessario che il ministero c’informi e che la Regione possa dialogare con tutti gli attori. E poi ci sono delle scommesse da vincere, come quella di far diventare protagonista l’economia dei beni culturali. Bisogna gestire bene l’investimento in cultura a cominciare dai super cachet degli artisti. Infine abbiamo due appuntamenti cruciali: i 150 anni della morte di Alessandro Manzoni e il centenario di Giovanni Testori, un gran lombardo. Sento ancora le sue parole scritte sul Corriere della Seranel 1978. Quell’elogio della Lombardia è poesia pura».Lei si candida a Milano, ma Milano in questo discorso dov’è?«Ho sempre detto che la Lombardia è tutto ciò che non è Milano. Dopo l’Expo ha assunto un profilo internazionale, va da sé, e l’offerta culturale a Milano è in gran parte in mano al Comune. Tuttavia è diventata una città fredda, distaccata, con propri ritmi che non rappresenta in tutto lo spirito lombardo. Anche se ci sono tre luoghi, peraltro determinatisi nell’arco di un ventennio, dove questo invece è massimo».Quali sono?«Il primo è il Duomo: dai canali ai marmi di Candoglia alle sapienze artigiane. Noi diciamo che quando si mangia a sbafo si va “auf”, deriva dal fatto che sulle pietre destinate al Duomo era incisa a sigla Auf: “Ad usum fabricae”. Chi si fregava il marmo lo faceva auf! Così “magut”, che vuol dire muratore. La città eleggeva chi dovesse lavorare al Duomo e sul libro dei capimastro nell’elenco degli addetti c’era la sigla Mag, cioè “magister opera laboris”, seguito da “ut”, che stava per “come sopra”. L’altro luogo è la Ca’ Granda che custodisce anche l’anima del mecenatismo e della filantropia milanesi e soprattutto nei sotterranei, nel rifugio ci sono le testimonianze dei 150 martiri delle Cinque giornate di Milano».Il terzo luogo?«Santa Maria delle Grazie con il Cenacoloe gli orti leonardeschi. Lì sta l’anima di Milano lombarda, lì abbiamo speso risorse e ne spenderemo. Come quando mi chiama Fedele Confalonieri e mi dice: quale guglia vuoi restaurare? Alla Fabbrica del Duomo abbiamo dato 2 milioni. Sono un investimento sull’identità lombarda perché la cultura è identità».