- I banchieri centrali lanciavano l’allarme sugli incrementi salariali, invece ora si scopre che a trainare il carovita sono i profitti delle grandi aziende. Che sono cresciuti molto più dei costi.
- Ettore Prandini (Coldiretti): «Gli aumenti maggiori si sono avuti per prodotti per i quali è forte la dipendenza dall’estero, dall’olio di semi di girasole allo zucchero che è aumentato di oltre il 50%».
- Pmi e aumenti, parla Luca Paolazzi (Fondazione Nord Est).
- L’economista Fedele de Novellis: «Le materie prime calano, però le utility non si adeguano. Guadagni extra anche nel settore edilizio».
I banchieri centrali lanciavano l’allarme sugli incrementi salariali, invece ora si scopre che a trainare il carovita sono i profitti delle grandi aziende. Che sono cresciuti molto più dei costi. Ettore Prandini (Coldiretti): «Gli aumenti maggiori si sono avuti per prodotti per i quali è forte la dipendenza dall’estero, dall’olio di semi di girasole allo zucchero che è aumentato di oltre il 50%». Pmi e aumenti, parla Luca Paolazzi (Fondazione Nord Est). L’economista Fedele de Novellis: «Le materie prime calano, però le utility non si adeguano. Guadagni extra anche nel settore edilizio». Lo speciale contiene quattro articoli. Sul banco degli imputati ci sono finiti tutti. Prima i cinesi con il rincaro delle materie prime, poi la Russia con la guerra che ha fatto schizzare i prezzi dei prodotti energetici, perfino i consumatori, «colpevoli» di aver rimesso in moto la domanda, dopo la pandemia. Così nonostante le retribuzioni siano ferme da anni, c’è chi ha avuto l’ardire di tornare a parlare di spirale prezzi-salari. Ma se materie prime e gas possono essere considerati responsabili, almeno fino a qualche mese fa, dell’aumento dell’inflazione, l’asimmetria emersa nelle ultime settimane tra il raffreddamento delle quotazioni dei prodotti energetici e la permanenza dei rincari, induce a cercare altrove le cause del carovita. Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, lo va dicendo da tempo. Ma se la sua analisi rischia di essere considerata «di parte», non si può fare a meno di riflettere sulle considerazioni espresse da due rappresentanti della Bce, Fabio Panetta, probabile successore di Ignazio Visco a capo della Banca d’Italia, e il capo economista della Banca centrale europea, Philip Lane. Tutti accendono i riflettori sulle imprese. Altro che inflazione da salari. A tenere alti i prezzi sono i profitti e di fronte a questo meccanismo il lavoro salariato è assolutamente inerme. Una impotenza che affonda le sue ragioni nel famigerato accordo del 1992 sul costo del lavoro, che ridisegnò le relazioni industriali e la politica salariale. Ma torniamo al presente. La pandemia, con il blocco per circa due anni dei consumi, ha aumentato i risparmi degli italiani che hanno beneficiato anche dei sostegni all’economia. Questa mole di denaro, finito il lockdown, si è trasformata in domanda di servizi, di commercio e di turismo. Basta parlare con qualche albergatore, tour operator o compagnia aerea per sentirsi dire che sono addirittura già in overbooking per i mesi estivi. Le città sono state prese d’assalto dai flussi turistici e non solo nei classici periodi vacanzieri. Al punto che si verificano fenomeni mai visti prima, come il deficit di personale specializzato. Cosa sta accadendo? La risposta viene da un pool di studiosi che hanno riunito le loro analisi nel libro Inflazione, falsi miti e conflitto distributivo. La sintesi delle loro riflessioni è che gli industriali hanno scaricato l’incremento dei costi di produzione sui prezzi di vendita, mentre produttività e redditività sono cresciute facendo esplodere gli utili aziendali. Ci troviamo di fronte a una distribuzione del reddito sempre più sperequata a favore dei redditi da capitale-impresa, con l’inflazione che agisce da moltiplicatore di questo processo redistributivo. Nell’inflazione c’è qualcuno che vince (tipicamente le imprese) e qualcuno che perde (di solito i lavoratori). Dal canto loro i governi hanno rinunciato a una politica di controllo dei prezzi, procedendo invece a indebolire la contrattazione sindacale e precarizzare il lavoro. Le banche centrali, tra cui la Bce, nonostante siano consapevoli delle conseguenze sociali, ricorrono a politiche monetarie restrittive finalizzate alla riduzione del livello di domanda aggregata, di attività e quindi di occupazione. A pagarne il prezzo sono, come sempre, i lavoratori salariati. Uno degli autori, Joseph Halevi, professore di economia che ha insegnato a Torino, Sydney, New York, riporta alcuni studi americani dai quali emerge che l’aumento del costo del lavoro contribuisce per il 10% all’incremento dei prezzi mentre l’aumento dei profitti contribuisce per il 33-35%. Anche la presidente della Bce Christine Lagarde ha avvertito sul rischio di una inflazione da profitti. Tre economisti hanno pubblicato sul blog della Banca centrale un’analisi in cui si calcola che metà della fiammata dei prezzi nella seconda metà del 2022 è stata determinata dall’incremento degli utili delle imprese ben più di quanto abbiano pesato gli aumenti salariali. «I profitti unitari sono aumentati del 9,4% nel quarto trimestre del 2022, su base annua, e hanno contribuito per oltre la metà alle pressioni sui prezzi interni in quel trimestre, mentre i costi unitari del lavoro sono saliti del 4,7% e hanno contribuito per meno della metà», è l’analisi riportata sul blog della Bce. I tre economisti poi spiegano che «molte aziende sono apparentemente in grado di espandere i propri margini di profitto senza affrontare perdite significative di quote di mercato. Perché? Il primo motivo è che la domanda supera l’offerta in molti settori: l’aumento della domanda di determinati beni e servizi dopo la pandemia ha incontrato i diffusi vincoli di offerta delle imprese che hanno difficoltà a ottenere materie prime, beni intermedi, attrezzature e lavoratori sufficienti. I prezzi elevati degli input (ad esempio per l’energia) hanno anche reso più facile per le imprese aumentare i propri margini di profitto, perché rendono più difficile stabilire se i prezzi più elevati sono causati da costi più elevati o margini più elevati». Gli economisti hanno fatto un elenco dei settori in cui i profitti sono cresciuti più del costo del lavoro: l’agricoltura in virtù dell’aumento dei prezzi alimentari, l’energia e servizi di pubblica utilità (compresi elettricità e gas), l’edilizia, dove le imprese hanno beneficiato della maggiore domanda di alloggi dopo la pandemia, la produzione, dove l’offerta limitata ha dovuto far fronte a una domanda elevata, i servizi a causa del rimbalzo della domanda a fronte di un’offerta limitata dalla riapertura dopo la pandemia. Questo è lo scenario europeo ma anche in Italia le industrie sono riuscite a scaricare sui prezzi i maggiori costi. Cerved, tech company che fornisce consulenza alle aziende per la gestione del rischio di credito, stima che nel 2022 il fatturato delle imprese è aumentato del 19,4% rispetto al 2021. Depurata l’inflazione si ha un aumento reale del 3,5%. Nel 2024 si prevede un incremento del 27,6% sul 2021 e del 5,1% in termini reali. Nomisma osserva che quando vengono meno le cause che hanno fatto salire l’inflazione, le aziende non riducono i prezzi se non lo fanno i concorrenti per timore di perdere quote di mercato. Non tutti però traggono vantaggi dal carovita. Questo vale soprattutto per le piccole e medie imprese. Nel 2022 si stima che il 27,9% abbiano chiuso in perdita contro il 12,2% del 2021. Nel settore del latte e derivati, il 2022 si è chiuso in perdita per il 64% delle pmi contro il 25,8% del 2021 e nella carta per la casa per il 62,9%, nei mobili da cucina per il 46,7% e nelle piastrelle per il 46,3%. Queste aziende subiranno un duro colpo dall’aumento dei tassi. Inoltre incidono altri fattori di criticità come la crescita dei mancati pagamenti, dell’indebitamento e il calo del tasso di natalità di nuove realtà produttive. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/aumento-prezzi-motivi-2660477733.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="coldiretti-gli-speculatori-danneggiano-anche-noi" data-post-id="2660477733" data-published-at="1684770895" data-use-pagination="False"> Coldiretti: gli speculatori danneggiano anche noi La Bce ha detto che gran parte dell’inflazione è da profitti. I riflettori si sono accesi sul settore agroalimentare. Il presidente di Coldiretti Ettore Prandini suggerisce di non generalizzare. «Gli aumenti maggiori si sono avuti per prodotti per i quali è forte la dipendenza dall’estero, dall’olio di semi di girasole allo zucchero che è aumentato di oltre il 50%». E punta il dito contro la globalizzazione spinta. «È stata un fallimento come hanno dimostrato la pandemia e la guerra. Servono rimedi che assicurino la sovranità alimentare, riducano la dipendenza dall’estero e garantiscano un giusto prezzo degli alimenti per produttori e consumatori. Il caro prezzi ha tagliato del 4,7% le quantità di prodotti alimentari acquistate dagli italiani nel 2023 che sono però costretti a spendere comunque il 7,7% in più a causa dei rincari determinati dalla crisi energetica, nel primo trimestre del 2023». Eppure qualcuno ha guadagnato, ha fatto profitti, aumentando i prezzi? Dietro ai rincari c’è chi si arricchisce? Prandini non è d’accordo. «Dietro prezzi alti non ci sono agricoltori che si arricchiscono, anzi. Oggi oltre un terzo delle aziende agricole (34%) è costretto a lavorare in una condizione di reddito negativo, mentre il 13% è addirittura in una situazione così critica da portare alla cessazione dell’attività per i forti aumenti dei costi di produzione». Ma allora come mai la pasta è aumentata del 18% nell’ultimo anno mentre il grano duro viene pagato agli agricoltori il 30% in meno? «La pasta è ottenuta direttamente dalla lavorazione del grano con l’aggiunta della sola acqua e non trovano dunque alcuna giustificazione le divergenze registrate nelle quotazioni, con la forbice dei prezzi che si allarga e mette in crisi i bilanci dei consumatori e quelli degli agricoltori». Coldiretti ha chiesto di vigilare contro le speculazioni e di indagare sulle pratiche sleali a tutela delle 200.000 imprese agricole che coltivano grano. I ricavi non coprono infatti i costi sostenuti dalle imprese agricole che sono praticamente raddoppiati, ma mettono anche a rischio le semine future e la sovranità alimentare del Paese». Per Prandini «l’industria pastaria italiana deve decidere se continuare ad acquistare il grano sui mercati internazionali in modo speculativo o se investire sull’Italia». E sottolinea che «a gennaio 2023 sono aumentate di sei volte le importazioni di grano duro dal Canada dove si utilizza il glifosate in pre raccolta come disseccante secondo modalità vietate in Italia. Una concorrenza sleale nei confronti dei nostri agricoltori ma anche una preoccupazione per la salute». La speculazione, secondo il presidente di Coldiretti, si combatte con «accordi di filiera tra imprese agricole ed industriali con precisi obiettivi qualitativi e quantitativi e prezzi equi che non scendano mai sotto i costi di produzione». Prandini suggerisce di «lavorare per un nuovo modello di calcolo del prezzo al consumo finale che va indicizzato rispetto a quello che viene pagato all’azienda agricola. Troppe volte i prezzi nei campi diminuiscono ed aumentano sugli scaffali». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/aumento-prezzi-motivi-2660477733.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="le-pmi-hanno-sofferto-e-qualcuna-ne-ha-approfittato" data-post-id="2660477733" data-published-at="1684770895" data-use-pagination="False"> Le Pmi hanno sofferto. E qualcuna ne ha approfittato «Non si può dire che l’inflazione da profitti sia generata solo dalla grande impresa e che invece le Pmi siano fuori da questo processo. Tante grandi imprese non sono fornitori strategici e non hanno un potere tale da riuscire a traslare i maggiori costi a valle. Per numerose piccole imprese invece è più facile aumentare i prezzi. Pensiamo alla panetteria sotto casa che ha portato il prezzo del pane da 3 euro a 3,50 o a chi ha aumentato la tazzina di caffè che è passata da 80 centesimi a 1 euro, con un incremento di un quarto, non è poco. Non si può fare la narrazione dei poveri piccoli che sono intrappolati nell’incremento dei costi». A parlare è l’economista Luca Paolazzi, direttore scientifico di Fondazione Nord Est, che suggerisce di abbandonare la distinzione tra pmi massacrate dall’inflazione e grandi imprese che si arricchiscono. «Piuttosto», dice, «bisogna esaminare i singoli settori». Interessante, in tal senso, è uno studio di Ref Ricerche. Nel 2022 rispetto al 2019, il manifatturiero ha ridotto i margini lordi di 4,9 miliardi (-5%), l’energetico e le costruzioni hanno avuto aumenti esponenziali. Nell’energia elettrica i margini sono saliti del 110% pari a 25,9 miliardi in più rispetto al 2019, mentre nelle costruzioni, grazie alla concomitanza del Superbonus e dei fondi del Pnrr, si è registrato un +40% pari a 4,2 miliardi. Nei servizi non ci sono scostamenti di rilievo rispetto al pre pandemia ma in confronto al 2021 la variazione è del +5%, 22,9 miliardi. «I prezzi si sono gonfiati soprattutto nelle costruzioni e nell’energia elettrica. Sono i due settori che hanno guadagnato di più. Ma non ci dimentichiamo che le costruzioni vengono da un decennio di disastri», afferma l’economista. Poi spiega che nel manifatturiero che ha registrato una contrazione dei margini «alcuni comparti, come i mobili, sono andati molto bene. Dall’autunno del 2020 c’è stato un incremento delle spese per la casa, per l’arredamento, a causa dallo smartworking. Adesso invece siamo in una fase in cui la gente ha ripreso a muoversi e quindi il settore manifatturiero sta facendo sconti». Paolazzi spiega che anche l’automotive ha fatto profitti consistenti. «Con la crisi delle materie prime, si sono allungati i tempi delle consegne e i margini sono lievitati. Questo perché lo stesso chip poteva essere montato su una utilitaria come su una vettura a maggior costo, e dando la precedenza al secondo tipo ecco che i profitti sono saliti. La situazione è a macchia di leopardo, non si può mettere sul banco degli imputati solo la grande industria, non è una questione di dimensione aziendale». Nomisma però stima che nel 2022 il 27,9% delle Pmi abbiano chiuso in perdita contro il 12,2% del 2021. Quindi non hanno potuto scaricare i maggiori costi. «Le pmi hanno risentito molto del caro energia. Ma alcune di loro hanno potuto scaricare a valle, al consumatore, i maggiori oneri». Guardando in prospettiva, Paolazzi stima che i prezzi resteranno elevati soprattutto «in settori ad alta incidenza del costo del lavoro, come i servizi, caratterizzati anche da un’altissima domanda». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/aumento-prezzi-motivi-2660477733.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="il-mercato-regolato-non-ha-evitato-tariffe-ingiustificate" data-post-id="2660477733" data-published-at="1684770895" data-use-pagination="False"> «Il mercato regolato non ha evitato tariffe ingiustificate» «I profitti sono cresciuti di più in quei settori dove la regolazione avrebbe potuto attenuare i rincari, come nel caso dell’energia. Inoltre, c’è stata una compressione dei margini da parte di alcuni settori dell’industria, più esposti alla pressione della domanda finale in frenata», afferma Fedele De Novellis, partner di Ref Ricerche. La sua analisi è chiara: «C’è stato uno shock esterno dovuto ai rincari delle materie prime e dei prodotti energetici ai quali le imprese hanno reagito scaricando a valle il maggior onere e quindi aumentando i prezzi. Più recentemente c’è stata una riduzione dei costi a monte, ma non ancora un riallineamento dei prezzi». Questo vuol dire che i consumatori dovranno rassegnarsi ai rincari? Difficilmente le aziende rinunceranno ai maggiori profitti. «Se andiamo a vedere i diversi settori, l’aumento dei profitti è molto concentrato nelle industrie dell’energia e delle costruzioni. La prima ha un grado di monopolio elevato e i prezzi sono determinati dal regolatore. Quindi questa forte esplosione dei profitti ci dice che la regolazione non ha funzionato. Però ci sono molti settori in cui i profitti si sono ridotti perché non solo si sono svenati per pagare le materie prime, ma hanno subito i rincari energetici superiori a quello che sarebbe stato giustificato dall’aumento dei costi. Poi c’è la filiera delle costruzioni che grazie al superbonus ha guadagnato molto. Il tema degli extra profitti non è quindi un fatto generalizzato ma va ricondotto a strategie di politica economica. Ma ora che il costo del gas si sta riducendo, dobbiamo aspettarci una riduzione dei prezzi e quindi anche dei profitti del settore energetico. Pertanto le imprese che non hanno guadagnato da questa situazione, dovrebbero avere una decelerazione dei costi». Quindi una parte importante dell’inflazione è stata determinata dal regolatore che per i prezzi di elettricità e gas non ha funzionato bene? «Il grosso dell’inflazione l’hanno fatto le materie prime, poi c’è un pezzo aggiuntivo determinato dal meccanismo con cui vengono determinate le tariffe. Però bisogna considerare un problema. Le quotazioni del gas sul mercato olandese non mi dicono quanto realmente viene pagato il gas da chi lo compra. Poi ci sono i produttori di energia da solare e eolico che non stanno utilizzando il gas e quindi hanno fatto tanti soldi. In tutti i settori ci sono produttori che hanno costi diversi». Perché i prezzi dell’energia sono aumentati tanto? «La situazione del mercato energetico è stata anomala. Il gas è sempre costato 20 euro al Megawattora e all’improvviso è arrivato a 350 euro. Questa situazione non è stata gestita. I governi hanno temuto di restare senza il gas e l’estate scorsa ne hanno accumulato il più possibile. Quindi in un mercato in cui chi produce riduce l’offerta, come la Russia, e chi compra aumenta la domanda, si genera una situazione esplosiva. Ora la situazione si sta ricomponendo e dovrebbe portare ad un asciugamento di quei profitti, ad una normalizzazione. Lo stesso vale per le imprese delle costruzioni, che finita la bolla del super bonus non potranno continuare a fare profitti. Quindi questa inflazione da profitti si lega alle particolari caratteristiche della congiuntura, ma dovrebbe rientrare nei prossimi trimestri». Quali sono le condizioni affinché ci sia un rientro veloce del caro vita? «La velocità con cui le imprese riducono i prezzi quando i costi scendono, dipende dalla necessità che hanno di vendere. Se la domanda è forte, è chiaro che il consumatore acquista anche a prezzi alti. Negli ultimi mesi c’è una riduzione della domanda in alcuni settori come l’alimentare e altri beni di consumo, mentre continua ad essere forte nei servizi, soprattutto nel turismo. È un recupero fisiologico dopo il lockdown, che ha cambiato in parte gli stili di vita. Per fare un esempio, è emblematico il caso dei prezzi delle partite di calcio: sono andati a ruba i biglietti della partita Milan-Inter che ha registrato il record d’incassi. Eppure non erano a buon mercato e San Siro con 80.000 posti non è un luogo per élite. Il che dimostra una disponibilità alla spesa che prima non c’era». Perché i consumi hanno tenuto nonostante la perdita del potere d’acquisto? «Le famiglie hanno ridotto il tasso di risparmio per finanziare i maggiori consumi. La propensione al risparmio era salita molto durante la pandemia con il reddito mantenuto costante grazie alla politica dei sostegni. Stabilizzato il reddito e a fronte dei ridotti consumi a causa del lockdown, lo stock di ricchezza sui depositi è lievitato. Peraltro mantenuto soprattutto come liquidità. Ora il risparmio si sta riversando sul mercato dei beni di consumo ma con forti asimmetrie, in favore della parte più benestante della popolazione. Questo target sta mantenendo elevati i consumi. Ma è un fase transitoria. Tra sei mesi l’andamento della domanda sarà diverso, tant’è che cominciano ad esserci preoccupazioni in alcuni settori come nell’alimentare. È il primo passo del calo dell’inflazione che sarà abbastanza marcato nei prossimi mesi. Mi aspetto sotto il 3% per fine anno».
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