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2022-10-31
Attenti al Dragone
L’ultimo gol messo a segno da Pechino è stato ad Amburgo. Con una trattativa lampo, l’impresa statale Cosco ha acquisito il 24,9% di uno dei quattro terminal del porto tedesco, uno dei più importanti hub in Europa per il trasporto di container. In questo modo Cosco aggiunge Amburgo ai grandi porti europei dove ha partecipazioni: Rotterdam, Anversa, Zeebrugge e il Pireo di Atene, interamente controllato. Cosco progetta anche di entrare nel principale porto interno di Duisburg, alla confluenza tra i fiumi Reno e Ruhr. Una mossa strategica di valore geopolitico. Pechino allarga l’area di influenza commerciale in Europa. Ed è un accordo che riguarda anche l’Italia: la compagnia cinese, attraverso la Cosco shipping ports, ha il 40% della società terminalista Vado gateway, che gestisce il nuovo terminal container di Vado Ligure (Savona), controllata da Apm Terminals con il 50,1%, mentre tramite un’altra società, la Hhla Plt Italy (che fa capo alla Hamburger Hafen und Logistik), dal 2021 controlla la piattaforma logistica del porto di Trieste, cardine dei traffici marittimi in Adriatico.
La Cina investendo 5,6 miliardi di euro ha le mani sui maggiori porti europei. Sempre Cosco ha acquisito in Spagna, per 203,49 milioni di euro, il 51% della società terminalistica Noatum port holding, che gestisce i terminal container nei porti di Valencia e Bilbao e i terminal ferroviari Conterail di Madrid e Nrtz di Saragozza. Questa operazione garantisce un importante caposaldo nel Mediterraneo occidentale. In Italia, come detto, il 40% del container terminal di Vado Ligure fa capo a Cosco e il 9,9% a Qingdao port international. I cinesi sono interessati anche al porto di Taranto.
Bruxelles che fa? Sta a guardare. Non esiste ha un protocollo comunitario per monitorare le operazioni «pericolose» per la sovranità economica europea. Convenienza economica o superficiale mancanza di visione? Di fatto, da quando vent’anni fa Pechino fu ammessa all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), con l’intento di Bruxelles e Washington di sottoporre i traffici del Dragone a un sistema di regole stringenti, non solo continua a violare le norme del commercio internazionale, distruggendo milioni di posti di lavoro in Occidente, ma si è impadronita di pezzi importanti dell’economia europea riuscendo a controllare gangli vitali delle infrastrutture.
Dopo il Wto è arrivata la Via della Seta a spalancare altre porte. Mentre Germania e Italia si illudevano di fare affari con i cinesi, erano questi a mettere le mani sul loro business. Come se non bastasse, sono arrivati gli obiettivi capestro della transizione ecologica. L’attività mineraria è stata messa al bando, i centri di ricerca chiusi, le professionalità disperse mentre la Cina ha continuato a scavare, trivellare e stringere accordi con i grandi Paesi produttori di materie prime. Quegli stessi materiali necessari all’alta tecnologia di cui si nutre l’economia verde ma che l’Europa non ha, ed è costretta a importare.
Mettere il 2035 come obiettivo della decarbonizzazione mentre il presidente Xi ha indicato il 2030 come picco delle emissioni e il 2060 per l’abbattimento delle emissioni, significa fare harakiri.
La penetrazione del Dragone è avvenuta anche usando la «trappola del debito». Pechino ha fatto generosi investimenti in progetti poco redditizi con l’obiettivo recondito di portare i Paesi beneficiari a un indebitamento importante che nel tempo è diventata una vera dipendenza politica e finanziaria. È accaduto nell’area del Mediterraneo, in particolare nei Balcani. Uno studio del Torino world affairs Institute spiega che i megaprogetti infrastrutturali e gli investimenti industriali in precedenza abbandonati sono diventati l’architrave economica delle relazioni sino-balcaniche. La società statale cinese China road and bridge corporation si è aggiudicata la costruzione del ponte di Peljesac in Croazia nel 2017 e l’ammodernamento della linea ferroviaria Czyzew-Bialystok in Polonia nel 2019; la Hebei steel ha acquisito l’acciaieria di Smederevo in Serbia, a rischio bancarotta, trasformandola nel principale esportatore del Paese. In tutti i Paesi balcanici è aumentata in misura significativa la cooperazione con Pechino. E questo perché Bruxelles ha lasciato un vuoto.
Non solo le infrastrutture. La Cina ha approfittato del disimpegno europeo sull’industria mineraria, in osservanza dell’ortodossia ecologista, per consolidare l’egemonia anche in questo settore. Solo di recente la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, se ne è accorta e nel discorso sullo stato dell’Unione ha speso un paio di parole. «Litio e terre rare saranno presto più importanti del petrolio e del gas, la domanda entro il 2030 sarà cinque volte maggiore. Dobbiamo evitare di diventare dipendenti come lo siamo stati per gas e petrolio», ha detto. Ma i giochi sono fatti.
La Cina controlla il 90% delle materie prime con le quali si costruiscono i componenti dei prodotti ecologici: microprocessori, chip per computer, batterie per le auto elettriche, pannelli solari. Le regole sempre più stringenti sull’impatto ambientale rendono l’estrazione più complicata e soggetta a vincoli burocratici infiniti. In questo, l’Italia è totalmente dipendente dai mercati asiatici. In Liguria c’è il secondo giacimento europeo di ossido di titanio ma si trova in un parco naturalistico ipervincolato: guai a parlarne. Secondo un censimento dell’Ispra, nel nostro Paese ci sono almeno 3.000 miniere dismesse, 1.000 delle quali hanno ancora quantitativi interessanti di elementi indispensabili per la transizione ecologica e digitale, quali rame, piombo, zinco, argento e oro. All’industria ceramica sono mancati 4 milioni di tonnellate di argille provenienti dal Donbass. Se ci fosse stata una conoscenza maggiore dei nostri giacimenti, sarebbe andata meglio. Si potrebbero anche sfruttare gli scarti lasciato: in Sardegna ci sono 70 milioni di metri cubi di rifiuti estrattivi non utilizzati che possono contenere cobalto e terre rare. I depositi di fanghi di Monteponi sono ricchi di zinco.
La Cina è presente anche nella difesa. Secondo i dati pubblicati a luglio 2020 dall’Onu, i contingenti militari cinesi più importanti nella regione del Mediterraneo allargato sono localizzati in Libano (419 soldati), Sudan (370 soldati), Sudan del Sud (1.072 soldati) e Mali (426 soldati). È una battaglia su tutti i fronti che l’Europa sembra aver già perso.
«Francia e Germania spianano la strada agli affari della Cina»
«La Cina va gestita e occorre essere preparati. Significa trasformare le azioni di Pechino in opportunità per l’Europa senza che ci siano criticità. Tutto quello che riguarda la Cina è visto come un’offensiva, e ci sta. Ma dipende dalla capacità dell’Europa di gestire a proprio vantaggio la strategia di Pechino». Giuliano Noci è uno dei maggiori studiosi e conoscitori della Cina, è pro rettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, rendendo in questo l’università lombarda una delle più importanti e conosciute oltre la Grande muraglia.
Amburgo però è la nuova chiave di accesso per il controllo delle merci europee. Non è preoccupante?
«Amburgo è un porto molto importante che compete con Rotterdam e Marsiglia. Ma domando: pensate forse che il commercio tra Cina ed Europa nei prossimi anni vada a picco? Oggi l’80% dell’interscambio commerciale tra questi due blocchi viaggia via nave. Il che vuol dire che intercettarlo è un’opportunità di business. Quindi, se il porto di Amburgo controlla parte del flusso di merci dalla Cina è un’opportunità, ma bisogna fare in modo che quella percentuale sia sterilizzata dal punto di vista della governance. Questo non vuol dire che non si debba stare attenti».
Ma allora perché non è stata ancora definita una politica europea comune in grado di trasformare in opportunità, a proprio vantaggio, l’espansione cinese?
«Si parla di Cina senza conoscerla. L’Europa avrebbe bisogno di una visione unitaria verso la Cina. Invece Francia e Germania hanno usato l’Europa quando si trattava di dire dei no alla Cina, ma il giorno dopo andavano a fare affari a Pechino. La Germania è l’unico Paese al mondo che ha un interscambio commerciale positivo con la Cina. Ha avuto svantaggi in questi anni? Quando, durante il primo governo Conte, è stato siglato l’accordo sulla Via della seta, l’Italia fu sommersa di critiche. Ma il giorno dopo il presidente Xi è andato a Parigi, ricevuto con tutti gli onori dalla cancelliera tedesca Merkel, dal presidente Macron e dal presidente della Commissione europea. In quella occasione Parigi firmò accordi per 30 miliardi di dollari per fornire aerei. Il tema di fondo è che nessuno può prescindere dal mercato cinese».
Ma vista la forza propulsiva della Cina, non servirebbe un’Europa unita?
«Certamente. Tra l’altro avrebbe un peso enorme nei confronti della Cina, che ha nell’Europa il più grande mercato di sbocco delle proprie merci».
Ma allora perché non si fa? Che interessi ci sono sotto?
«Gli stessi interessi che portano a non chiudere un accordo sull’energia quando sarebbe semplice. Passare da più acquirenti a un solo non viene fatto perché ci sono interessi divergenti. Ed è quello che accade sulla Cina. Alcuni Paesi vogliono accaparrarsi larga parte dei benefici. Tra pochi giorni la Germania andrà in Cina e anche Macron ci sta pensando. L’Italia è rimasta al palo nonostante le straordinarie opportunità che avrebbe».
Come mai l’Italia è rimasta a guardare?
«Non c’è stata negli ultimi vent’anni una politica per la Cina. La conosciamo poco e male, mentre Pechino ha numerosi think tank che non fanno altro che studiare l’Italia. E i risultati si vedono. Quando l’Italia ha siglato il Memorandum understanding, ha dato un vantaggio politico enorme a Pechino ma non ha chiesto nulla in cambio, un errore clamoroso. Avremmo dovuto portare a casa decine di miliardi di contratti, invece nulla».
La prossima partita sarà sulle materie prime ma anche qui la Cina parte avvantaggiata.
«Mentre l’Europa cercava il petrolio, i cinesi andavano ad accaparrarsi i diritti sui giacimenti delle terre rare. Ora posseggono il 35% dei giacimenti e l’80% dei diritti di estrazione. I veti sulle trivelle e alle miniere è un modo per farsi male. È bello dire che non vogliamo inquinare ma l’inquinamento zero è sostenibile dal punto di vista economico e sociale? In questo momento no».
«Ritardi abissali sulle materie prime»
L’agenzia Fitch ratings ha stimato che in Cina operano più di 300 aziende che producono auto elettriche. Pechino possiede il 55% delle miniere e dei giacimenti mondiali, l’85% della capacità di raffinare i minerali indispensabili per la produzione e il 35% della produzione di batterie. Ne parliamo con Andrea Cardinali, direttore generale dell’Unrae (Unione nazionale dei rappresentanti degli autoveicoli esteri).
La Cina ci sta colonizzando anche nel settore auto, un tempo bandiera dell’italianità?
«Non parlerei di ondata di auto cinesi: esse rappresentano ancora uno zero virgola delle vendite. E non darei per scontata nemmeno la loro diffusione. I consumatori non si fidano di prodotti per i quali è difficile trovare i ricambi e l’assistenza non è garantita».
Diverso però è il discorso dei microprocessori, componenti essenziali delle auto elettriche e che sono monopolio cinese.
«Certo, per le materie prime siamo dipendenti dalla Cina e da quei Paesi dove si è continuato a scavare e le miniere sono rimaste aperte. Noi europei abbiamo decise di chiuderle perché non rientravano nei piani ecologici. Al momento le batterie si costruiscono oltre la Grande Muraglia, ma confido che nel giro di qualche anno l’Europa e l’Italia si mettano al passo aprendo fabbriche. Qualche progetto già c’è».
Per esempio?
«C’è quello di Stellantis per convertire il sito di Termoli in una gigafactory, la terza in Europa dopo quelle esistenti in Francia e Germania in accordo con Mercedes. Saranno investiti oltre 30 miliardi di euro entro il 2025 nell’elettrificazione e nel software, con target annunciato dai sindacati di 2.000 posti di lavoro. C’è poi l’impianto Italvolt che sarà realizzato nell’area dell’ex stabilimento Olivetti di Scarmagno, in Piemonte, con l’obiettivo di dare lavoro a 3.000 addetti e una capacità di 45 gigawattora all’anno. Si parla anche di una terza gigafactory che potrebbe essere realizzata dal gruppo Volkswagen in Emilia Romagna, nella Motor Valley».
Arrivare preparati al 2035, ce la faremo?
«Tesla ha costruito una gigafactory a Berlino nel giro di un paio d’anni».
Vuol dire che i produttori non temono i cinesi?
«I brand che sono andati a produrre in Cina, lo hanno fatto in joint venture con aziende locali, seguendo rigidissime regole. Ma sono prodotti riservati al mercato cinese che non vengono esportati in Europa. È evidente che, lavorando a stretto contatto, ingegneri e tecnici di Pechino hanno appreso la tecnologia europea e ora la stanno replicando. Ma non sono al punto di fare concorrenza ai nostri marchi che sono solidissimi. Hanno in pugno la fornitura delle batterie perché le case automobilistiche finora non si sono attrezzate per costruirle».
Le materie prime però dovranno sempre essere importate e continuerà la dipendenza?
«È inevitabile. Ma dipendiamo dall’estero anche per le materie prime delle auto a motore tradizionale. L’Europa ha rinunciato all’industria mineraria e vedo difficile recuperare il tempo perso. Se per un rigassificatore si mobilitano amministrazioni, cittadini e sindacati, figurarsi cosa può succedere per riaprire una miniera».
«Bruxelles deve difendere i marchi»
L’ultimo tentativo è stato della multinazionale a controllo cinese Syngenta che ha puntato Verisem, azienda romagnola depositaria di un pezzo del patrimonio genetico nazionale di biodiversità fatto di sementi conservate da generazioni di agricoltori. «Il governo Draghi, attivando il golden power, ha sventato l’operazione, ma i cinesi non mollano», afferma il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini.
Che cosa avrebbe significato la perdita di Verisem?
«L’acquisizione avrebbe spostato in Asia gli equilibri mondiali sul controllo delle sementi per produrre ortaggi ed erbe aromatiche. Già ora il 66% dei semi sono in mano a quattro multinazionali straniere. Ma i cinesi l’hanno spuntata su un’altra azienda gioiello».
Quale?
«Syngenta è riuscita a impadronirsi nel 2020 di Valagro, leader del mercato dei biostimolanti e delle specialità nutrizionali, con un fatturato di 175 milioni di dollari nel 2019, una significativa presenza in Europa e Nord America e un’impronta crescente in Asia e America Latina. Per l’Italia è stata una grande perdita».
Che strategia persegue Pechino?
«Nel documento programmatico del presidente Xi, il tema del cibo è al primo posto. L’approvvigionamento di cereali e la conquista di marchi di eccellenza rappresenta un fattore di forza in termini geopolitici. Non dimentichiamo che la Cina movimenta il 60% dei cereali nel mondo. Ha capito la centralità del cibo durante il Covid e nel conflitto ucraino e sta cercando di comprare tutto il disponibile sul mercato».
Come contrastarli?
«È fondamentale che il nuovo ministero della Sovranità alimentare controlli con attenzione che i marchi importanti non vengano acquisiti da operatori finanziari. Servirebbero forme di sostegno ai produttori in difficoltà. I gruppi cinesi hanno una grande capacità mimetica. Hanno società diversificate con sedi in Svizzera, sono in consigli d’amministrazione di multinazionali per cui è difficile ricondurre l’appartenenza a Pechino».
In che modo hanno trasformato il cibo in strumento di geopolitica?
«Forniscono soprattutto cereali a Paesi non autosufficienti che, pur di evitare carestie e tensioni sociali, accettano condizioni capestro».
L’Europa argina l’avanzata cinese?
«Manca una politica comune a difesa dei marchi. Bruxelles lascia che ogni Paese intervenga a modo suo. È stato grave aver consentito ai cinesi l’ingresso nell’azionariato dei porti, così hanno il controllo dello spostamento delle merci. Nel protocollo degli accordi commerciali tra Europa e Cina era stata concordata una facilitazione negli scambi delle merci in campo agricolo, ma le normative sono talmente rigide che impieghiamo anni per avere l’autorizzazione all’esportazione di un singolo prodotto».
E i cinesi esportano i loro prodotti?
«Non ancora in modo massiccio. Ma c’è il caso del concentrato di pomodoro low cost. Nei primi 7 mesi del 2022, secondo elaborazioni Coldiretti su dati Istat, sono stati importati 120 milioni di chilogrammi di derivati del pomodoro, 47 milioni dei quali proprio dalla Cina. Il concentrato di pomodoro cinese, oltre a fare concorrenza sleale alle produzioni made in Italy, potrebbe finire in prodotti trasformati nel nostro Paese che non hanno etichettatura di origine: ad esempio sughi, piatti pronti surgelati, ristorazione, prodotti esportati. La frode è dietro l’angolo».
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Il porto di Amburgo nuovo caposaldo del colosso asiatico in Europa. Un’avanzata minacciosa che non conosce fine.«Francia e Germania spianano la strada agli affari della Cina». Il vicerettore del Politecnico di Milano Giuliano Noci: «I tedeschi sono gli unici ad avere un interscambio commerciale positivo con Pechino». «Ritardi abissali sulle materie prime». Il direttore Unrae Andrea Cardinali: gli ecologisti ci hanno fatto perdere competitività.«Bruxelles deve difendere i marchi». Il presidente Coldiretti Ettore Prandini: è in atto una colonizzazione occulta che non incontra ostacoli.Lo speciale comprende quattro articoli.L’ultimo gol messo a segno da Pechino è stato ad Amburgo. Con una trattativa lampo, l’impresa statale Cosco ha acquisito il 24,9% di uno dei quattro terminal del porto tedesco, uno dei più importanti hub in Europa per il trasporto di container. In questo modo Cosco aggiunge Amburgo ai grandi porti europei dove ha partecipazioni: Rotterdam, Anversa, Zeebrugge e il Pireo di Atene, interamente controllato. Cosco progetta anche di entrare nel principale porto interno di Duisburg, alla confluenza tra i fiumi Reno e Ruhr. Una mossa strategica di valore geopolitico. Pechino allarga l’area di influenza commerciale in Europa. Ed è un accordo che riguarda anche l’Italia: la compagnia cinese, attraverso la Cosco shipping ports, ha il 40% della società terminalista Vado gateway, che gestisce il nuovo terminal container di Vado Ligure (Savona), controllata da Apm Terminals con il 50,1%, mentre tramite un’altra società, la Hhla Plt Italy (che fa capo alla Hamburger Hafen und Logistik), dal 2021 controlla la piattaforma logistica del porto di Trieste, cardine dei traffici marittimi in Adriatico.La Cina investendo 5,6 miliardi di euro ha le mani sui maggiori porti europei. Sempre Cosco ha acquisito in Spagna, per 203,49 milioni di euro, il 51% della società terminalistica Noatum port holding, che gestisce i terminal container nei porti di Valencia e Bilbao e i terminal ferroviari Conterail di Madrid e Nrtz di Saragozza. Questa operazione garantisce un importante caposaldo nel Mediterraneo occidentale. In Italia, come detto, il 40% del container terminal di Vado Ligure fa capo a Cosco e il 9,9% a Qingdao port international. I cinesi sono interessati anche al porto di Taranto.Bruxelles che fa? Sta a guardare. Non esiste ha un protocollo comunitario per monitorare le operazioni «pericolose» per la sovranità economica europea. Convenienza economica o superficiale mancanza di visione? Di fatto, da quando vent’anni fa Pechino fu ammessa all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), con l’intento di Bruxelles e Washington di sottoporre i traffici del Dragone a un sistema di regole stringenti, non solo continua a violare le norme del commercio internazionale, distruggendo milioni di posti di lavoro in Occidente, ma si è impadronita di pezzi importanti dell’economia europea riuscendo a controllare gangli vitali delle infrastrutture. Dopo il Wto è arrivata la Via della Seta a spalancare altre porte. Mentre Germania e Italia si illudevano di fare affari con i cinesi, erano questi a mettere le mani sul loro business. Come se non bastasse, sono arrivati gli obiettivi capestro della transizione ecologica. L’attività mineraria è stata messa al bando, i centri di ricerca chiusi, le professionalità disperse mentre la Cina ha continuato a scavare, trivellare e stringere accordi con i grandi Paesi produttori di materie prime. Quegli stessi materiali necessari all’alta tecnologia di cui si nutre l’economia verde ma che l’Europa non ha, ed è costretta a importare.Mettere il 2035 come obiettivo della decarbonizzazione mentre il presidente Xi ha indicato il 2030 come picco delle emissioni e il 2060 per l’abbattimento delle emissioni, significa fare harakiri.La penetrazione del Dragone è avvenuta anche usando la «trappola del debito». Pechino ha fatto generosi investimenti in progetti poco redditizi con l’obiettivo recondito di portare i Paesi beneficiari a un indebitamento importante che nel tempo è diventata una vera dipendenza politica e finanziaria. È accaduto nell’area del Mediterraneo, in particolare nei Balcani. Uno studio del Torino world affairs Institute spiega che i megaprogetti infrastrutturali e gli investimenti industriali in precedenza abbandonati sono diventati l’architrave economica delle relazioni sino-balcaniche. La società statale cinese China road and bridge corporation si è aggiudicata la costruzione del ponte di Peljesac in Croazia nel 2017 e l’ammodernamento della linea ferroviaria Czyzew-Bialystok in Polonia nel 2019; la Hebei steel ha acquisito l’acciaieria di Smederevo in Serbia, a rischio bancarotta, trasformandola nel principale esportatore del Paese. In tutti i Paesi balcanici è aumentata in misura significativa la cooperazione con Pechino. E questo perché Bruxelles ha lasciato un vuoto.Non solo le infrastrutture. La Cina ha approfittato del disimpegno europeo sull’industria mineraria, in osservanza dell’ortodossia ecologista, per consolidare l’egemonia anche in questo settore. Solo di recente la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, se ne è accorta e nel discorso sullo stato dell’Unione ha speso un paio di parole. «Litio e terre rare saranno presto più importanti del petrolio e del gas, la domanda entro il 2030 sarà cinque volte maggiore. Dobbiamo evitare di diventare dipendenti come lo siamo stati per gas e petrolio», ha detto. Ma i giochi sono fatti.La Cina controlla il 90% delle materie prime con le quali si costruiscono i componenti dei prodotti ecologici: microprocessori, chip per computer, batterie per le auto elettriche, pannelli solari. Le regole sempre più stringenti sull’impatto ambientale rendono l’estrazione più complicata e soggetta a vincoli burocratici infiniti. In questo, l’Italia è totalmente dipendente dai mercati asiatici. In Liguria c’è il secondo giacimento europeo di ossido di titanio ma si trova in un parco naturalistico ipervincolato: guai a parlarne. Secondo un censimento dell’Ispra, nel nostro Paese ci sono almeno 3.000 miniere dismesse, 1.000 delle quali hanno ancora quantitativi interessanti di elementi indispensabili per la transizione ecologica e digitale, quali rame, piombo, zinco, argento e oro. All’industria ceramica sono mancati 4 milioni di tonnellate di argille provenienti dal Donbass. Se ci fosse stata una conoscenza maggiore dei nostri giacimenti, sarebbe andata meglio. Si potrebbero anche sfruttare gli scarti lasciato: in Sardegna ci sono 70 milioni di metri cubi di rifiuti estrattivi non utilizzati che possono contenere cobalto e terre rare. I depositi di fanghi di Monteponi sono ricchi di zinco.La Cina è presente anche nella difesa. Secondo i dati pubblicati a luglio 2020 dall’Onu, i contingenti militari cinesi più importanti nella regione del Mediterraneo allargato sono localizzati in Libano (419 soldati), Sudan (370 soldati), Sudan del Sud (1.072 soldati) e Mali (426 soldati). 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Giuliano Noci è uno dei maggiori studiosi e conoscitori della Cina, è pro rettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, rendendo in questo l’università lombarda una delle più importanti e conosciute oltre la Grande muraglia. Amburgo però è la nuova chiave di accesso per il controllo delle merci europee. Non è preoccupante? «Amburgo è un porto molto importante che compete con Rotterdam e Marsiglia. Ma domando: pensate forse che il commercio tra Cina ed Europa nei prossimi anni vada a picco? Oggi l’80% dell’interscambio commerciale tra questi due blocchi viaggia via nave. Il che vuol dire che intercettarlo è un’opportunità di business. Quindi, se il porto di Amburgo controlla parte del flusso di merci dalla Cina è un’opportunità, ma bisogna fare in modo che quella percentuale sia sterilizzata dal punto di vista della governance. Questo non vuol dire che non si debba stare attenti». Ma allora perché non è stata ancora definita una politica europea comune in grado di trasformare in opportunità, a proprio vantaggio, l’espansione cinese? «Si parla di Cina senza conoscerla. L’Europa avrebbe bisogno di una visione unitaria verso la Cina. Invece Francia e Germania hanno usato l’Europa quando si trattava di dire dei no alla Cina, ma il giorno dopo andavano a fare affari a Pechino. La Germania è l’unico Paese al mondo che ha un interscambio commerciale positivo con la Cina. Ha avuto svantaggi in questi anni? Quando, durante il primo governo Conte, è stato siglato l’accordo sulla Via della seta, l’Italia fu sommersa di critiche. Ma il giorno dopo il presidente Xi è andato a Parigi, ricevuto con tutti gli onori dalla cancelliera tedesca Merkel, dal presidente Macron e dal presidente della Commissione europea. In quella occasione Parigi firmò accordi per 30 miliardi di dollari per fornire aerei. Il tema di fondo è che nessuno può prescindere dal mercato cinese». Ma vista la forza propulsiva della Cina, non servirebbe un’Europa unita? «Certamente. Tra l’altro avrebbe un peso enorme nei confronti della Cina, che ha nell’Europa il più grande mercato di sbocco delle proprie merci». Ma allora perché non si fa? Che interessi ci sono sotto? «Gli stessi interessi che portano a non chiudere un accordo sull’energia quando sarebbe semplice. Passare da più acquirenti a un solo non viene fatto perché ci sono interessi divergenti. Ed è quello che accade sulla Cina. Alcuni Paesi vogliono accaparrarsi larga parte dei benefici. Tra pochi giorni la Germania andrà in Cina e anche Macron ci sta pensando. L’Italia è rimasta al palo nonostante le straordinarie opportunità che avrebbe». Come mai l’Italia è rimasta a guardare? «Non c’è stata negli ultimi vent’anni una politica per la Cina. La conosciamo poco e male, mentre Pechino ha numerosi think tank che non fanno altro che studiare l’Italia. E i risultati si vedono. 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La Cina ci sta colonizzando anche nel settore auto, un tempo bandiera dell’italianità? «Non parlerei di ondata di auto cinesi: esse rappresentano ancora uno zero virgola delle vendite. E non darei per scontata nemmeno la loro diffusione. I consumatori non si fidano di prodotti per i quali è difficile trovare i ricambi e l’assistenza non è garantita». Diverso però è il discorso dei microprocessori, componenti essenziali delle auto elettriche e che sono monopolio cinese. «Certo, per le materie prime siamo dipendenti dalla Cina e da quei Paesi dove si è continuato a scavare e le miniere sono rimaste aperte. Noi europei abbiamo decise di chiuderle perché non rientravano nei piani ecologici. Al momento le batterie si costruiscono oltre la Grande Muraglia, ma confido che nel giro di qualche anno l’Europa e l’Italia si mettano al passo aprendo fabbriche. Qualche progetto già c’è». Per esempio? «C’è quello di Stellantis per convertire il sito di Termoli in una gigafactory, la terza in Europa dopo quelle esistenti in Francia e Germania in accordo con Mercedes. Saranno investiti oltre 30 miliardi di euro entro il 2025 nell’elettrificazione e nel software, con target annunciato dai sindacati di 2.000 posti di lavoro. C’è poi l’impianto Italvolt che sarà realizzato nell’area dell’ex stabilimento Olivetti di Scarmagno, in Piemonte, con l’obiettivo di dare lavoro a 3.000 addetti e una capacità di 45 gigawattora all’anno. Si parla anche di una terza gigafactory che potrebbe essere realizzata dal gruppo Volkswagen in Emilia Romagna, nella Motor Valley». Arrivare preparati al 2035, ce la faremo? «Tesla ha costruito una gigafactory a Berlino nel giro di un paio d’anni». Vuol dire che i produttori non temono i cinesi? «I brand che sono andati a produrre in Cina, lo hanno fatto in joint venture con aziende locali, seguendo rigidissime regole. Ma sono prodotti riservati al mercato cinese che non vengono esportati in Europa. È evidente che, lavorando a stretto contatto, ingegneri e tecnici di Pechino hanno appreso la tecnologia europea e ora la stanno replicando. Ma non sono al punto di fare concorrenza ai nostri marchi che sono solidissimi. Hanno in pugno la fornitura delle batterie perché le case automobilistiche finora non si sono attrezzate per costruirle». Le materie prime però dovranno sempre essere importate e continuerà la dipendenza? «È inevitabile. Ma dipendiamo dall’estero anche per le materie prime delle auto a motore tradizionale. L’Europa ha rinunciato all’industria mineraria e vedo difficile recuperare il tempo perso. Se per un rigassificatore si mobilitano amministrazioni, cittadini e sindacati, figurarsi cosa può succedere per riaprire una miniera». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/attenti-al-dragone-2658570997.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="bruxelles-deve-difendere-i-marchi" data-post-id="2658570997" data-published-at="1667161879" data-use-pagination="False"> «Bruxelles deve difendere i marchi» L’ultimo tentativo è stato della multinazionale a controllo cinese Syngenta che ha puntato Verisem, azienda romagnola depositaria di un pezzo del patrimonio genetico nazionale di biodiversità fatto di sementi conservate da generazioni di agricoltori. «Il governo Draghi, attivando il golden power, ha sventato l’operazione, ma i cinesi non mollano», afferma il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini. Che cosa avrebbe significato la perdita di Verisem? «L’acquisizione avrebbe spostato in Asia gli equilibri mondiali sul controllo delle sementi per produrre ortaggi ed erbe aromatiche. Già ora il 66% dei semi sono in mano a quattro multinazionali straniere. Ma i cinesi l’hanno spuntata su un’altra azienda gioiello». Quale? «Syngenta è riuscita a impadronirsi nel 2020 di Valagro, leader del mercato dei biostimolanti e delle specialità nutrizionali, con un fatturato di 175 milioni di dollari nel 2019, una significativa presenza in Europa e Nord America e un’impronta crescente in Asia e America Latina. Per l’Italia è stata una grande perdita». Che strategia persegue Pechino? «Nel documento programmatico del presidente Xi, il tema del cibo è al primo posto. L’approvvigionamento di cereali e la conquista di marchi di eccellenza rappresenta un fattore di forza in termini geopolitici. Non dimentichiamo che la Cina movimenta il 60% dei cereali nel mondo. Ha capito la centralità del cibo durante il Covid e nel conflitto ucraino e sta cercando di comprare tutto il disponibile sul mercato». Come contrastarli? «È fondamentale che il nuovo ministero della Sovranità alimentare controlli con attenzione che i marchi importanti non vengano acquisiti da operatori finanziari. Servirebbero forme di sostegno ai produttori in difficoltà. I gruppi cinesi hanno una grande capacità mimetica. Hanno società diversificate con sedi in Svizzera, sono in consigli d’amministrazione di multinazionali per cui è difficile ricondurre l’appartenenza a Pechino». In che modo hanno trasformato il cibo in strumento di geopolitica? «Forniscono soprattutto cereali a Paesi non autosufficienti che, pur di evitare carestie e tensioni sociali, accettano condizioni capestro». L’Europa argina l’avanzata cinese? «Manca una politica comune a difesa dei marchi. Bruxelles lascia che ogni Paese intervenga a modo suo. È stato grave aver consentito ai cinesi l’ingresso nell’azionariato dei porti, così hanno il controllo dello spostamento delle merci. Nel protocollo degli accordi commerciali tra Europa e Cina era stata concordata una facilitazione negli scambi delle merci in campo agricolo, ma le normative sono talmente rigide che impieghiamo anni per avere l’autorizzazione all’esportazione di un singolo prodotto». E i cinesi esportano i loro prodotti? «Non ancora in modo massiccio. Ma c’è il caso del concentrato di pomodoro low cost. Nei primi 7 mesi del 2022, secondo elaborazioni Coldiretti su dati Istat, sono stati importati 120 milioni di chilogrammi di derivati del pomodoro, 47 milioni dei quali proprio dalla Cina. Il concentrato di pomodoro cinese, oltre a fare concorrenza sleale alle produzioni made in Italy, potrebbe finire in prodotti trasformati nel nostro Paese che non hanno etichettatura di origine: ad esempio sughi, piatti pronti surgelati, ristorazione, prodotti esportati. La frode è dietro l’angolo».
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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