«Il Bitcoin può arrivare anche a 20 mila dollari. Il caso-Terra è una lezione per le criptovalute»
2022-05-16
Verità e Affari
L’opa più annunciata della storia della finanza italiana è piombata sul mercato all’ora del caffè e ha mantenuto tutte le promesse della vigilia. I Benetton e il fondo Blackstone hanno lanciato un’offerta pubblica d’acquisto sul 100% di Atlantia attraverso Schemaquarantatré la bidCo creata ad hoc con l’obiettivo di acquisire la totalità delle azioni ordinarie e a revocare la quotazione del gruppo.
La famiglia di Ponzano che attraverso Edizione detiene il 33% di Atlantia avrà il 65% del nuovo veicolo e il fondo americano si fermerà al 35%. Non entra nel consorzio, ma ha stipulato un accordo che la impegna ad aderire all’opa, la fondazione Crt che vanta il 4,54%. E secondo quanto risulta a Verità&Affari anche Gic, il fondo sovrano di Singapore socio storico con l’8,29% delle quote, sarà della partita. Il prezzo fissato per l'acquisizione è di 23 euro per azione, più un dividendo di 0,74 euro, per un contro valore, nel caso di adesione da parte di tutti i soci di 12,7 miliardi. Quindi, visto che Edizione già possiede il 33%, la valutazione complessivo della società di infrastrutture si aggira intorno ai 19 miliardi.
Per il mercato è un prezzo congruo visto che Piazza Affari prima ha superato il prezzo d’opa e poi ha chiuso con un rialzo di 4,29 punti a 22,83 euro. Con la controllata Autogrill che in scia ai buoni numeri del traffico aeroportuale degli Stati Uniti è salita dell’8,89%.
NIENTE CONTRO-OPA
E anche gli analisti la vedono allo stesso modo. «L’opa - spiegano da Exane - è molto allettante e non possiamo immaginare nessun altro scenario se non quello di un’offerta accettata (basta raggiungere il 90% del capitale ndr). I 23 euro per azione rappresentano un premio del 36,3% rispetto al prezzo medio delle azioni di Atlantia negli ultimi sei mesi». Come rivelato già ieri da Verità&Affari quindi è sempre più improbabile una contro-offerta da parte del consorzio guidato dalla Acs di Florentino Perez e dai fondi Gip e Brookfield, visto che la cordata dei Benetton può contare almeno in teoria sul 45% e passa del capitale di Atlantia. Mentre resta una porta aperta per Perez, in una fase sucessiva, quando l’opa sarà arrivata a dama (fine giugno?), si potrebbe tornare a parlare di Abertis. Il colosso spagnolo delle infrastrutture che è controllato con il 50% più uno delle azioni da Atlantia e rappresenta il vero obiettivo dell’offensiva lanciata dal presidente del Real Madrid.
«L’operazione - spiega il presidente di Edizione Alessandro Benetton - rappresenta un momento fondamentale nella nostra storia. Come più volte ribadito, il nostro investimento in Atlantia ha natura strategica ed è una nostra ferma volontà continuare a concorrere allo sviluppo sostenibile della società, mantenendone il radicamento italiano e valorizzando l’attuale disegno industriale... anche nell’ottica di mantenere il radicamento italiano... In Blackstone - continua - abbiamo trovato non solo un co-investitore di grande prestigio e solidità, ma anche un partner dichiaratamente di lungo periodo, con visione internazionale». Il fondo Usa, dal canto suo, tramite Andrea Valeri, chairman di Blackstone Italia, evidenzia di credere «nella forza dell’economia italiana e nella sua resilienza, nella crescita e nelle nuove opportunità che si scorgono nel futuro del Paese. Attraverso la partnership con la famiglia Benetton e la fondazione Crt siamo lieti di supportare Atlantia sia nel processo di consolidamento della sua leadership nel settore delle infrastrutture europee sia nella salvaguardia della sua gloriosa eredità culturale».
IL FINANZIAMENTO
Ma veniamo alle note dolenti. Come si trovano i soldi per portare a termine l’operazione? Per finanziare l’opa gli investitori Blackstone e Benetton si impegnano a un aumento di capitale o ad altri conferimenti pari a circa 4,5 miliardi, mentre un pool di banche concederà un prestito di poco superiore agli 8,2 miliardi di euro. Tra queste oltre alle big americane - Bofa Merrill Lynch, Goldman Sachs e Jp Morgan dovrebbero esserci anche Mediobanca, Intesa Sanpaolo e Unicredit.
Otto miliardi e duecento milioni, praticamente la stessa liquidità che entrerà in pancia ad Atlantia tra qualche settimane, quando, il cinque maggio, si chiuderà l’operazione di vendita dell’88% di Autostrade per l’Italia al consorzio guidato da Cdp Equity a cui partecipano anche i fondi Blackstone (lo stesso che ha lanciato l’Opa con i Benetton) e Macquarie. Una sorta di partita di giro.
Cassa Depositi e Prestiti sarà alla guida di Autostrade con il 51% delle azioni e la presidenza del manager Gianluca Ricci, ma come scrive Verità&Affari nella pagina a fianco anche i due fondi avranno diversi poteri nella gestione della società. E cosa succederà se Benetton e Blackstone non dovessero riuscire a finalizzare l’Opa? I due investitori - evidenzia l’offerta - si riservano di portare il gruppo via dalla Borsa (con gli 8 miliardi per la vendita di Autostrade) «mediante la fusione» di Atlantia in Schemaquarantatré, il veicolo creato per l’offerta.
I giorni di passione più intensi delle criptovalute sembrano essere terminati. Assorbito lo choc del collasso di TerraUSD e Luna, il mercato si sta riassestando senza sapere come la rumorosa scomparsa della stablecoin impatterà sull’attrattività del mercato.
In Italia, in particolare, i numeri erano in ascesa soprattutto tra i più giovani. «Essendo che il cliente retail si basa su entusiasmo e paura, mi aspetto che l’interesse per un periodo vada a scemare – spiega Gabriel Debach, italian market analyst di eToro intervistato da Verità&Affari – Come risponderà sul lungo periodo è la vera prova del 9».
Il momento per le criptovalute, però, era delicato anche prima di settimana scorsa.
«I fattori che incidono sono molteplici: dall’alta inflazione che fa tentennare gli investitori all’aggressività della Fed e alla mancanza di fiducia generalizzata. Le difficoltà stanno influenzando anche il mercato del mondo reale, non solo delle criptovalute, che non possono trascendere dalla situazione economica. In questo momento, le cripto sono gravate da una reazione eccessiva a un evento che ha riguardato una blockchain. Il collasso di TerraUSD e Luna non dovrebbe avere conseguenze dirette su altre criptovalute come il Bitcoin, se non una reazione di timore. È interessante il fatto che negli ultimi mesi sempre più soggetti, da Stati a compagnie aeree, stiano riconoscendo le criptovalute: si tratta di una certificazione del mondo delle valute virtuali».
Nell’ultimo periodo ha sofferto anche il Nasdaq, con un andamento molto simile a quello di Bitcoin. Condividono gli investitori?
«La correlazione tra Nasdaq e Bitcoin è sui massimi storici: 0,91 negli ultimi 30 giorni. È decisamente possibile che in questo momento ci siano gli stessi investitori, su scale di rischio e investimento diverse. In parte può essere un aspetto negativo, perché prima investire in Bitcoin offriva un’opportunità di diversificare rispetto al Nasdaq. Con una stretta correlazione cresce anche la necessità di intervenire per fare delle correzioni».
Bitcoin è tornato intorno ai 30 mila dollari, valore più basso dal luglio dell’anno scorso. È il suo plateau o ritiene possibile che la discesa continui ancora?
«Bitcoin, per sua natura, vive di momenti di crescita e di correzioni dei massimi raggiunti per lunghi periodi. Se guardiamo il suo andamento vediamo che è in un momento di correzione dal picco di novembre (69 mila dollari, ndr) da circa 180 giorni. Una correzione del 63% del valore che non rappresenta la discesa peggiore dalla sua storia: da dicembre 2017 a dicembre 2018 Bitcoin ha perso circa l’84%. Il rimbalzo di questi giorni è un bel segnale, ma non è detto che abbiamo toccato il fondo: potrebbe scendere anche intorno ai 20 mila dollari. L’alta volatilità del Bitcoin, nel bene e nel male, è il motivo per cui genera anche così tanto interesse».
Il collasso di Terra-Luna è il caso della settimana. Può spiegarci cos’è successo? Ritiene possibile che lo strumento “resusciti”?
«Partiamo dalla seconda: è difficile pensare che possa rinascere per una questione di fiducia nello strumento che ha un precedente così pesante alle spalle. Fare una ricostruzione dell’accaduto con precisione è difficile per il momento perché ci sono ancora molti elementi confusi. Quello che è certo è che c’è stato un attacco finanziario che ha generato le prime scosse. Da qui è partita una “corsa agli sportelli” simile a quella che hanno subito anche realtà della finanza tradizionale che ha fatto collassare l’intero sistema. Terra, basandosi su un algoritmo e sostenendosi con uno strumento volatile per natura come una criptovaluta, non ha retto».
Anche Tether ha tremato, ma nonostante l’oscillazione ha retto. È un segnale che le stablecoin possano effettivamente fare da architravi del sistema delle criptovalute?
«Sarà sicuramente una sfida da qui in avanti. La caduta di Terra potrebbe creare anticorpi nel mercato, farlo imparare dagli errori e correggere le falle evidenziate dal caso-Terra. Il Peg è difficile da mantenere anche per una banca centrale. Tether è stato avvantaggiato dal fatto di essere legato comunque a un valore reale. Non si tratta della prima oscillazione importante che subiscono le stablecoin. Tether, per esempio, nel 2017, aveva toccato i 92 centesimi. Penso che scosse “di assestamento” ce ne saranno ancora: sarà uno stress test per il mercato».
Il clamore suscitato dal caso-Terra ha fatto sollevare il tema di una possibile stretta della regolamentazione per dare più garanzie agli investitori. Pensa che arriverà? E nel caso, c’è il rischio di snaturare il mercato delle criptovalute?
«L’attenzione in questo momento è alta. Qualcuno ha definito Terra la Lehman Brothers delle criptovalute, il che è ironico considerato che Bitcoin è nato anche in risposta alla delusione creata dalla finanza tradizionale nel 2008. Io immagino che una restrizione arriverà visto che l’Europa sembrava già orientata in tal senso, mentre il caso Terra, negli Usa, è arrivato proprio nel momento in cui si stavano raccogliendo informazioni per prendere una decisione sulle criptovalute. Bisognerà trovare un compromesso tra gli interessi e la natura delle criptovalute, pensate per dare anche alti guadagni assumendosi rischi, e le necessità di una regolamentazione».
«Dal punto di vista economico, la guerra l’Occidente la sta perdendo».
Le sanzioni fanno male più a noi che alla Russia?
«No, praticamente fanno male solo a noi e in certi casi aiutano l’economia russa. Sono sanzioni boomerang, annunciate senza prima aver fatto analisi sul loro impatto. Sostituendo, anzi, alle analisi i desideri. L’Europa procede così, per tentativi, trial and error, in realtà più error che trial».
Michele Geraci, economista, già sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico nel governo Conte 1, è un gran conoscitore della Cina dove ha vissuto dal 2008 al 2018, e sul nodo sanzioni offre una lettura non convenzionale.
Perché dice che le sanzioni aiutano l’economia russa?
«Minacciare sanzioni che poi non applichiamo, o annunciare sanzioni che entreranno in vigore dopo qualche tempo, significa far aumentare i prezzi delle materie prime più di quanto sarebbero saliti a causa della guerra. E poi, noi pensiamo che l’economia russa dipenda moltissimo dall’energia...».
Non è così?
«Sì, ma non da quella che esporta nella Ue. Anzitutto, l’energia prodotta viene consumata internamente. Poi esportata a paesi amici, dal Kazakistan alla Cina. E infine c’è l’export in Europa: quello di gas vale il 2,2% del Pil russo, quello del greggio il 3,4%, quello del carbone lo 0,2%. È di questi numeri che si dovrebbe ragionare. Tenendo conto, peraltro, che Mosca può trovare compratori alternativi se noi ci tiriamo indietro. E che l’impatto di un eventuale calo di profitti sul gas esportato non andrebbe a cadere direttamente sulla popolazione, ma sarebbe assorbito dall’unica azienda esportatrice, il colosso di Stato Gazprom».
Negli ultimi tempi proprio sul gas sembra di cogliere in Europa segnali di resipiscenza.
«Lo spero. Noto anch’io che da un po’ la narrazione ufficiale sembra presentare dei punti di flessione, che qualcosa sembra cambiare. Però…».
Però?
«È troppo tardi! Il paradosso è che, se ora facciamo marcia indietro su gas e petrolio, diamo a Putin un segnale di debolezza. Ammettendo implicitamente che le sanzioni ci fanno male, gli diamo metaforicamente in mano una pistola. Insomma, sulle sanzioni sia l’enfasi iniziale sia la marcia indietro provocheranno danni».
È davvero possibile emanciparsi del tutto dal gas russo?
«Secondo i miei modelli, alla fine del 2024 potremmo quasi completamente eliminare le forniture dalla Russia. Ma dovremo comunque ridurre i consumi. E poi dovremo comprare molto più gas dall’Algeria, che in proporzione peserà sulle nostre importazioni più di quanto oggi pesi la Russia. Quindi niente diversificazione, solo un passaggio da un grande fornitore a un altro, che non è certo un modello di democrazia. Non basta: il gasdotto che ci porta il gas algerino transita attraverso la Tunisia, quindi dobbiamo sperare che tra i due paesi non insorgano controversie, come è accaduto tra Algeria e Marocco, da dove passa il gasdotto per la Spagna. L’area in questione è instabile, mentre invece, ci piaccia o no, la Russia è sempre stata un fornitore affidabile».
E gli altri fornitori?
«Sul gas naturale liquefatto del Qatar non contiamoci proprio. Il Qatar esporta già il 70% del suo gas in Asia e agli europei chiede un impegno chiaro ad acquisti di lungo termine, condizione che non possiamo permetterci. E poi ci mancano anche i rigassificatori adatti ad accogliere il loro gas».
Qatar a parte?
«Gli Usa ci daranno 3 miliardi di metri cubi. Attraverso il Tap, che però condividiamo con Grecia e Bulgaria, arriverà più gas dall’Azerbaijan, ma non è detto che sarà solo azero e non anche russo, attraverso triangolazioni con un Paese con cui Baku ha rapporti strettissimi... Ma in tutto questo c’è un’altra domanda da farsi».
Cioè?
«Se Putin o Zelensky ci chiudessero i rubinetti domani?».
La risposta?
«Un -7% di pil immediato».
L’Arabia Saudita non ha acconsentito alla richiesta americana di produrre più petrolio e l’India ha aumentato gli acquisti di petrolio da Mosca.
«I sauditi sono sì alleati degli americani, ma non fino al punto di sacrificare i loro interessi. E noti che hanno accettato anche di pagare in renminbi: un segnale politico non banale. Quanto all’India, Modi e Putin sono in ottimi rapporti, il primo deve dare da mangiare a un miliardo di pensione, e se mi passa il termine, se ne frega di quello che pensa la Ue… La verità è che stiamo facendo miracoli: abbiamo fatto far pace a India e Pakistan e a India e Cina. Pure Cina e Vietnam provano a ricucire i rapporti. Tutti Paesi che dispongono di risorse energetiche, minerarie, terre rare e tecnologia».
La Cina cavalcava la globalizzazione con la sua Via della Seta, ora come reagirà all’annunciata de-globalizzazione?
«Due anni fa Xi Jinping ha formalizzato la strategia della dual circulation: la domanda e l’offerta dovranno essere soddisfatte principalmente internamente, il commercio con l’estero sarà un corollario. Ma attenzione: in Cina le cose prima si fanno e solo poi le si annunciano: anche se magari non ce ne siamo accorti, il decoupling è iniziato da dieci anni: nel 2010 l’export cinese valeva il 30% del pil, oggi è al 17-18%. L’obiettivo è di portarlo e mantenerlo al 10-15%. Tenga conto comunque che visto con occhi cinesi il decoupling metterà insieme più di sei miliardi di persone tra Asia e Africa, la parte del mondo che cresce di più. E Pechino ha recentemente firmato un accordo di libero scambio con 14 Paesi asiatici (inclusi gli “occidentali” Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda) che rappresentano il 30% del pil mondiale. La geografia domina le scelte economiche. Puoi essere amico degli Usa ma il commercio lo fai coi Paesi limitrofi».
L’Occidente si ripiega su sé stesso, rivendicando la sua identità contro le autocrazie. Ci sarà meno agibilità intellettuale per chi è curioso di culture altre?
«Sarebbe la vera sconfitta dell’Occidente. Nei ristoranti cinesi il piatto si riempie scegliendo tra quello che arriva dal tavolo girevole. E’ l’approccio che dovremmo avere: guardiamo agli altri modelli e “mangiamo” quello che vogliamo. Un modello culturale non va accettato o rifiutato in blocco: c’è spazio per scegliere, per adattare. Se partiamo dall’idea che non abbiamo nulla da imparare dagli altri, perdiamo la possibilità di migliorare. Ci condanniamo al declino».
Il cosiddetto aggiornamento del catasto nasce con fini condivisibili, ma rischia di trasformarsi in un'ecatombe per le famiglie del ceto medio italiano. Che abusi edilizi e fabbricati fantasma vadano censiti deve essere patrimonio culturale comune a tutti in un Paese civile.
Che debbano essere ricondotte a reddito tutte le costruzioni che a vario titolo sfuggono alla tassazione è attività che non può non trovare condivisione. Ma questi sono principi che possono penalizzare e non poco i proprietari di abitazioni, a seconda di come saranno declinati nella norma. Il dubbio (fortissimo) è che la strada intrapresa non sia quella del mero recupero del sommerso, ma quella di procedere a un vero e proprio restyling del settore.
L'AGGIORNAMENTO
"Aggiornamento del Catasto" è denominazione che certo non lascia tranquilli i legittimi proprietari di case, regolarmente denunciate e acquistate con sacrifici e esposizione bancaria. Non li lascia tranquilli perché "aggiornare" le rendite catastali significa incidere pesantemente sul bilancio familiare, già gravato da due anni di ammortizzatori sociali (se lavoratori dipendenti) ovvero di mancati introiti (se lavoratori autonomi). Due anni durissimi per le le famiglie italiane che ora stanno facendo i conti con bollette dell'energia triplicata.
Ecco, in questo contesto nessuno si aspetta e auspica interventi che vadano a incidere in modo ulteriormente negativo sulle famiglie. Perché è noto a tutti che aumentare la rendita catastale dei fabbricati fa lievitare non solo il costo dei tributi da pagare (Imu; tassa di registro quando si compra da un privato; tassa di successione e donazione).
Ma fa anche lievitare il valore dell'Isee, che contiene anche gli immobili, richiesto non solo per stabilire i livelli di accesso e di costo di servizi (dalla mensa scolastica all'asilo dei figli, dalle tasse scolastiche a quelle universitarie, dai sussidi comunali agli sconti energetici); ma anche per avere e stabilire gli importi dell'Assegno Unico Universale, che ha sostituito da pochi mesi in un solo colpo assegni familiari e detrazioni per i figli minori, oltre che qualche altro bonus.
CORTO CIRCUITO
Questi importi infatti sono scomparsi di colpo abbattendo di non poco l'importo percepito in busta paga. Dal mese di marzo invece l'Assegno viene erogato dall'Inps, non più soltanto in base ai redditi percepiti (come era prima), ma proprio in virtù dei valori contenuti nell'Isee, che varierebbero pesantemente nel caso di aumento delle rendite catastali, incidendo cosi sulla quantificazione dell'assegno stesso.
Insomma un corto circuito perfetto, talmente perfetto da sembrare costruito a tavolino. Un corto circuito che vedrebbe penalizzate le ignare famiglie italiane, che si vedono cambiare la normativa e le regole senza avere fatto nulla di male per meritarlo. Ecco, se da un lato la Riforma del Catasto è giustissimo che persegua chi ha tenuto nascosto immobili o li abbia costruiti abusivamente; dall'altro è impensabile che vada a toccare il valore dei fabbricati regolarmente accatastati dopo perizie e sopralluoghi.
Se il Legislatore vorrà essere credibile e giusto non potrà prevedere nuove regole, che cambino la classificazione delle abitazioni, facendo assomigliare l'intervento tanto a una tassa patrimoniale. La casa è un patrimonio familiare che va tutelato e non utilizzato per introdurre nuovi e celati costi, diretti o indiretti.*Presidente Fondazione Studi Consulenti del Lavoro