2023-01-23
«Asportare organi è una scelta da fare in casi molto rari»
L’esperto di bioetica Maurizio Calipari: «Prevenire non vuol dire mutilare. Non c’è la certezza che una alterazione del Dna sviluppi la patologia». «La medicina preventiva oggi è un’opportunità in più a disposizione dei medici, ma esige una riflessione etica»: lo dice il professor Maurizio Calipari, docente di bioetica all’Università europea di Roma e portavoce dell’associazione Scienza e vita. In cosa consistono questi test genetici? «Tecnicamente, attraverso un semplice prelievo di sangue analizzato da laboratori specialistici, si individua l’eventuale presenza di geni mutati, “predittivi” di patologie - prevalentemente tumorali - che potrebbero presentarsi in futuro nel soggetto. Si tratta di capire come agire di fronte al rischio dell’insorgenza futura di queste malattie». Quindi non ci sono sintomi di malattie né certezze che si verificheranno in futuro. «No. Nessuno può certificare che negli anni a venire, anche in presenza di una mutazione genetica, si svilupperà con certezza assoluta la malattia». Nel caso di Balti e Jolie il rischio si avvicinava al 70-80%. La mastectomia era una strada obbligata? «Non si può generalizzare, come il messaggio social della Balti potrebbe indurre a fare. Ogni persona ha la propria storia clinica e nella scelta operativa entrano in gioco anche altri elementi di valutazione importanti come, l’età, la condizione di vita, la presenza di figli». Non c’è il rischio di una emulazione anche per situazioni che non giustificherebbero la sala operatoria? «Il principio etico generale cui fare riferimento in questo caso è il cosiddetto “principio terapeutico”, che prevede la possibilità di agire - anche eliminandola, se necessario - su una parte dell’organismo in sé sana, ma che è terreno di accrescimento di una malattia grave. Tutto questo per perseguire la salute dell’organismo intero. In presenza di geni con una particolare mutazione, la logica medica suggerisce l’opportunità di intervenire preventivamente, date le alte probabilità di sviluppare in futuro un tumore; il fatto è che l’intervento preventivo consiste nell’eliminare parti dell’organismo al momento perfettamente sane». Che alternative si pongono al paziente? «Può optare per una soluzione meno impattante nell’immediato, monitorando la situazione per agire soltanto quando vi siano i primi segni concreti della malattia in atto. Oppure può eliminare il problema alla radice mutilando una parte sana nel timore che in futuro si presenti la temuta patologia». Come decidere? «Di fronte a uno scenario così complesso, non ci può essere una regola apodittica che vale per tutti e in ogni circostanza. Nel caso del tumore alla mammella, il test genetico è indicato quando ci sono fattori familiari e individuali che lo raccomandano. Questa decisione va presa su indicazione del medico oncologo e del genetista. La scienza mette a disposizione uno strumento di conoscenza, ma l’uso che se ne fa dipende dai singoli casi e, in ultima analisi, dalla coscienza del soggetto interessato». Sono auspicabili screening genetici a tappeto sulla popolazione? «È un’ipotesi di poca utilità concreta, che probabilmente finirebbe per provocare più danni che benefici. Una persona che presenta una determinata mutazione genetica potrebbe, in assenza di altri fattori di rischio, anche non sviluppare mai la malattia, quindi uno screening di massa potrebbe diffondere in tante persone la convinzione di essere malate pur non essendolo». Oltre ai test genetici, che strumenti d’indagine ci sono per prevenire il tumore alla mammella? «I più diffusi sono ecografia e mammografia. Danno informazioni dirette sull’organo senza dover arrivare all’analisi del dna e sono utilissimi per una diagnosi precoce che, come ben sappiamo, nelle patologie tumorali è fondamentale per una terapia efficace. L’approccio più adatto, quindi, va valutato per ogni singolo caso».
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