
Sole e Corriere svelano il piano della famiglia per mollare Autostrade che, senza concessione, sarebbe una scatola vuota. Aprire allo Stato, magari con penale ridotta, lascerebbe ad Atlantia Abertis e aeroporti. Ma con 8,2 miliardi di debiti in meno.Per una prova, secondo Agatha Christie, servono almeno tre indizi. Due indizi, però, bastano per un sospetto ben fondato. E due articoli che ipotizzano la stessa eventualità, soprattutto se pubblicati in rapida successione su due quotidiani importanti, sono due indizi grossi come una casa. Giovedì il Corriere della Sera, e Il Sole 24 Ore, hanno rivelato, sia pure con toni diversi, che i Benetton si starebbero preparando a uno scenario senza la società Autostrade per l'Italia, di cui sono azionisti all'88% attraverso la loro Atlantia. Il Sole, in particolare, ieri ha scritto che «il piano segreto non è più segreto e anzi ora è la strada maestra», e ha confermato l'esistenza di «un documento riservato» che ragionerebbe sul contrattacco della famiglia di Ponzano Veneto. L'uscita di Atlantia da Aspi ha la sua giustificazione nella minaccia della revoca della concessione statale sui 3.000 chilometri di rete, lanciata dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte all'indomani del crollo del ponte Morandi di Genova e confermata dai due ministri Luigi Di Maio e Danilo Toninelli come «sanzione» per i mancati controlli che hanno portato al disastro. È evidente, quindi, che quella minaccia ha colpito nel segno. Perché oggi i vertici di Atlantia si sono resi conto che, di fronte alla rescissione del contratto, potrebbero anche tentare un'azione legale, ma questa di certo durerebbe molti anni e avrebbe esiti del tutto incerti. La stessa cifra dell'indennizzo che il governo dovrebbe/potrebbe versare, del resto, sta diventando sempre più ballerina: giorni fa si parlava quasi con certezza di 15-20 miliardi di euro come penale per la rottura anticipata di un contratto con scadenza fino al 2042, ma poi la cifra ha iniziato a subire ondeggiamenti paurosi, per i Benetton. Mercoledì lo stesso autorevole ufficio studi di Mediobanca, l'istituto di cui gli stessi Benetton sono azionisti, aveva rivelato in un suo report che la cifra più concretamente ipotizzabile sarebbe sceso quasi alla metà, tra 8,5 e 11 miliardi (salvo poi rettificare bruscamente la valutazione poche ore dopo, riportandola a 22 miliardi forse per qualche autorevole intervento esterno). Giovedì Banca Akros ha ipotizzato un altro numero: 14,8 di miliardi. Com'è ovvio, i consulenti del governo formulano cifre molto inferiori. A prescindere dall'indennizzo, comunque, una Società autostrade privata della concessione diventerebbe la classica scatola vuota. Che cosa se ne farebbero, i Benetton? Così, l'ipotesi ripetuta di un loro disimpegno da Aspi (per di più ventilata su due giornali di certo non ostili alla famiglia) sta cominciando ad assomigliare sempre più a un ballon d'essai. Come se, attraverso le insistenti indiscrezioni giornalistiche, Atlantia intendesse avviare un negoziato a distanza con il governo, proponendo uno scambio: noi usciamo da Aspi, magari in cambio di una penale di qualche miliardo (e di un prezzo calmierato per rilevare Autostrade per l'Italia), e in questo modo a voi non servirà nemmeno modificare il veicolo sociale che governa le autostrade. In tutto questo, lo Stato potrebbe entrare in Aspi con una quota di maggioranza senza essere costretto a un'Opa totalitaria come invece dovrebbe fare se per caso decidesse di acquisire la maggioranza di Atlantia. Certo, a quel punto resterebbero due grosse incognite. Che cosa farebbe lo Stato con Autostrade per l'Italia? E che cosa farebbe Atlantia (15.800 dipendenti circa) senza la gallina dalla uova d'oro che l'ha sostenuta per anni? Partiamo dal primo quesito. Se passasse l'ipotesi del passo indietro, non servirebbe più revocare la concessione perché non ci sarebbero più i Benetton di mezzo, e il controllo di Aspi sarebbe in mano pubblica, riportando quindi la situazione a quando l'azienda era a controllo statale. Ma, se la Cassa depositi e prestiti è stata scartata per un ingresso nel capitale di Aspi, si potrebbe ipotizzare l'arrivo di Anas. Forse non ci sarebbe nemmeno bisogno di una gara, trattandosi già di un ente pubblico. In alternativa, con un ingresso del ministero dei Trasporti, si potrebbe decidere di affidare la gestione autostradale dei 3.000 chilometri che erano in capo ad Aspi (la metà dell'intera rete italiana) a un «Maradona» della gestione autostradale che si assuma l'arduo compito di gestire la concessione privilegiando sì la sicurezza degli automobilisti, ma che - allo stesso tempo - riesca a produrre utili e dividendi per gli altri due azionisti di Aspi: i cinesi di Silk Road Fund (che ha il 5%) e Allianz Capital (con il 6,94%). Anche se i due colossi potrebbero non guardare con favore il passaggio di mano verso un azionista di controllo che deve seguire anche logiche statali e non solo di profitto. C'è poi il nodo di Atlantia, privata del suo asso nella manica. Il colpo sarebbe durissimo, certo, però l'azienda potrebbe comunque camminare con le sue gambe. Il motivo è semplice: il debito di Atlantia è in gran parte sulle spalle di Autostrade (8,2 miliardi su un totale di 9,4, che finirebbe ipoteticamente ad Anas o a un'altra realtà pubblica). Atlantia, dunque, direbbe addio ai margini di Aspi, ma anche ai debiti. Senza considerare che il gruppo resterebbe comunque con Abertis, gli aeroporti di Roma e i tre della Costa Azzurra, Telepass, le società di costruzioni Spea e Pavimental e una quota nell'Eurotunnel.L'unione di questi gruppi farebbe scendere il fatturato a circa 2,6 miliardi rispetto ai quasi sei (5,97) prodotti con l'apporto di Aspi. Così, però, i Benetton si scrollerebbero di dosso una bella gatta da pelare e lo Stato risparmierebbe tempo e risorse, da utilizzare in una gestione autostradale che ci si augura migliore di quella attuale.
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