
Gli Usa fissano un vertice a Ramstein e aprono una task force bellica a Stoccarda. Sergio Mattarella agli italiani: «Sacrifici per Kiev».La cancelleria tedesca, timida sulle sanzioni agli oligarchi russi, parca nell’invio di armi all’Ucraina e atterrita da un embargo sul gas di Mosca, si trova ormai accerchiata. Dall’interno, per via delle pressioni di media e pezzi di classi dirigente; e dall’esterno, alla luce delle «infiltrazioni» di attori stranieri, che sul suolo teutonico starebbero addirittura organizzando le forniture belliche a beneficio di Kiev. Il socialdemocratico Olaf Scholz, ieri, è passato sulla difensiva: «Le possibilità dell’esercito tedesco di consegnare armi dal proprio arsenale sono ampiamente esaurite», ha spiegato allo Spiegel. «Quello che può ancora essere messo a disposizione», ha poi giurato, «continueremo certamente a consegnarlo», ma la priorità resta «evitare un’escalation». Il leader dell’Spd è stato bersagliato dal quotidiano economico Handelsblatt, che gli rinfaccia le esitazioni nella vicenda ucraina, ricondotte alla «rete russa del suo partito», da cui egli dovrebbe affrancarsi. L’Spd ha espresso, non a caso, un cancelliere - Gerhard Schröder - divenuto in seguito capo del consorzio Nord stream 2. Imbarazzanti altresì le rivelazioni di Bloomberg: dei 35 miliardi di beni congelati in Europa ai paperoni vicini a Vladimir Putin, in Germania sono stati sequestrati patrimoni per soli 341.600 euro. Quanto alle armi, ricostruisce la Frankfurter Allgemeine Zeitung, Berlino avrebbe sì dato l’assenso alla fornitura di mezzi pesanti agli ucraini, però indirettamente: cedendo, cioè, i propri carrarmati alla Slovenia, affinché questa consegnasse i suoi alla resistenza. «Scambio-carosello», l’ha definito la Faz, mentre la Bild ha coniato un neologismo per sbeffeggiare il cancelliere: il verbo «scholzen», sinonimo di «tentennare». Per la verità, persino chi incalza il capo della grande coalizione, tipo la verde Annalena Baerbock, propone un divorzio da Gazprom non immediato, bensì entro fine anno. Quando la guerra potrebbe essere finita - ce lo auguriamo. Quelle della leadership tedesca sono indecisioni che hanno indignato l’ex presidente della Repubblica, Joachim Gauck. Costui rimprovera ai concittadini di non essere più avvezzi alle deprivazioni. Invece, pur di aiutare gli aggrediti, bisognerebbe essere disposti a compiere sacrifici: ad esempio, la recessione e un tasso di disoccupazione al 6% (le previsioni di ieri della Banca centrale, in caso di boicottaggio dell’oro azzurro russo, sono ben più cupe). Bisogna decidere «quale Germania vogliamo essere», ha incalzato Gauck. «Se non abbiamo intenzione di combattere, facciamo ciò che è umanamente possibile»: armi agli ucraini e rubinetti del gas chiusi. Esortazioni un po’ ipocrite, considerato che Gauck fu al vertice della Bundesrepublik proprio negli anni in cui Angela Merkel consolidava le già solide relazioni con Mosca. L’apertura alla Russia, a fronte dei rapporti personali talora tesi tra Mutti e lo zar, è stata un tratto distintivo della condotta internazionale della Germania, allorché essa tentò di affrancarsi dalla dipendenza dagli Stati Uniti. Non da quella militare, ma almeno da quella strategica: la Ostpolitik è un’invenzione che risale agli anni Settanta. La retorica di Gauck è la stessa cui ha attinto ieri il nostro capo dello Stato, Sergio Mattarella: l’appello alla «solidarietà» nei confronti dell’Ucraina, anche se «è possibile che questo comporti alcuni sacrifici». Nel filone: «Preferite la pace o l’aria condizionata?». È così che l’élite atlantista - spesso schiacciatasi soltanto in tarda età sui desiderata dell’anglosfera - prepara il paziente alle lacrime e al sangue che scorreranno dopo lo stop ai flussi di metano. Qui e oltre le Alpi.Ma se l’Italia, non più signora di province, può essere facilmente piegata ai dettami di Washington, l’anello mancante nell’ingranaggio perfetto del blocco occidentale, come avveniva durante la prima guerra fredda, è proprio la grande Germania. La quale, appunto, è la principale potenza europea: qualsiasi iniziativa continentale non può decollare, senza la propulsione di Berlino. Per questi motivi, al pressing sul titubante Scholz, stanno subentrando veri interventi a gamba tesa. A partire da quello che ha descritto il New York Times: a Stoccarda, nel Comando europeo degli americani, starebbe operando una task force, con ufficiali di collegamento incaricati da 14 Paesi, inclusa l’Ucraina, di raccogliere le richieste di Kiev e organizzare la consegna di armi e rifornimenti. Nel frattempo, Washington ha convocato nella base statunitense di Ramstein, per martedì prossimo, una riunione con i vertici militari dei Paesi alleati, in cui si discuterà della crisi ucraina e delle questioni di sicurezza da essa sollevate. Dalla moral suasion di ex politici e giornali, ai boots on the ground degli yankee, installati direttamente sul territorio tedesco. Per un simile assedio a Berlino, noi non possiamo certo esultare: le ritrosie e le ambiguità della Germania sono l’ultima barriera che ci separa dall’annientamento economico e sociale nel nome di Joe Biden, per interposta Ucraina. Quello bellico rischia di essere il passo successivo. A differenza che in passato, è dunque la riluttanza dell’egemone d’Europa il nostro jolly. Salvarsi in angolo, in tedesco, oggi si dice «scholzen».
Ansa
Dieci anni fa scoppiò il Dieselgate, la truffa di Volkswagen sulle emissioni scoperta dagli statunitensi, già in guerra commerciale con Berlino. Per riprendersi, l’azienda puntò sull’elettrico e ottenne il sostegno di Ursula. Ma ad approfittarne sono stati i cinesi.
Alice Weidel (Ansa)
I Maga sfidano le censure del Vecchio continente: la vice di Alice Weidel e un militante escluso dalle elezioni per sospetti sulla sua «lealtà alla Costituzione» vanno a Washington dai funzionari di Marco Rubio e di Jd Vance.
Paolo Longobardi (Getty images)
Il presidente di Unimpresa: «Va data sicurezza alle transazioni delle pmi che operano in più valute. L’Occidente imponga standard di qualità contro la concorrenza sleale».
Mario Draghi (Ansa)
L’ex premier si accorge soltanto ora che gli obiettivi green sono «irrealizzabili». Poi critica la burocrazia continentale: «Troppo lenta, potrebbe non riuscire a riformarsi». Il suo piano B: alcuni Stati facciano da sé.