
Antesignano della gastrosofia, fu anche il precursore dell’arte conserviera, tentativo di bloccare il tempo dandogli un sapore Una scommessa sul futuro che tende a mantenere intatto il frutto. Catone ne studiò l’essiccazione. Luigi XIII vi inserì lo zuccheroÈ il momento delle conserve. È tempo di aprire i vasi e i barattoli dove abbiamo imprigionato pezzi d’estate per scaldare l’inverno. Chi più ha conservato, più estate ha a disposizione: marmellate, giardiniere, salsa di pomodoro o di basilico; pesche, pere e fichi sciroppati; asparagi, cardi, carciofini, acciughe sott’olio; radicchio di campo e tarassaco sott’aceto; cipolline, cetrioli, melanzane in salamoia; uva, mirtilli e lamponi sotto spirito; asparagine selvatiche, fagioli, aglio orsino, piselli surgelati.Conservare frutta, erbe e ortaggi è un’arte, una soddisfazione antica, una «febbre» ereditata dalla nonna. Beato chi ne è stato contagiato. Non ha soltanto imparato a serbare in latta o sotto vetro cose buone, ma, come dice Gerolamo Sineri, acuto sociologo rurale, ha bloccato la storia guadagnando un atomo d’immortalità: «La conserva è ansia allo stato puro, il tentativo di bloccare la Storia dando ad essa un sapore. Chi prepara conserve cerca l’immortalità: non essicco pomodori ma proietto nel tempo la paura della morte. La conserva casalinga non è un metodo per preservare il cibo, è una scommessa sul futuro. Chi farebbe mai più marmellate se non avesse la speranza di vivere almeno il tempo di poterle mangiare?». Gastrosofia? Può darsi visto che tra i protagonisti della plurimillenaria storia della conservazione dei cibi troviamo Aristotele, campione del pensiero occidentale. Il filosofo s’era posto il problema: come conservare una mela appena staccata dal melo impedendole di marcire? Avvolgendola in un involucro di creta di vasaio e lasciarvela fino al momento del consumo, anche parecchio tempo dopo. Rotta la creta la mela era pronta, croccante, al morso. «Succede altrettanto», ironizza Corrado Barberis, «con le maschere antirughe con cui estetiste e istituti di bellezza combattono l’avvizzimento delle gote e i solchi sul viso».Anche per Barberis, padre della sociologia rurale, il grande vecchio che ha salvato tanti prodotti tipici, la possibilità di trasmettere intatto un frutto appena colto dall’albero è una versione prefaustiana del mito dell’eterna giovinezza. «Ma se di eternità si tratta», conclude, «è ben misera perché circoscritta al tempo tra l’uno e l’altro raccolto». Barberis definisce «aristotelica» l’arte conserviera che si propone di mantenere intatto il frutto. Chiama «catoniana» la seconda fase, quella dell’essiccazione, perché fu Catone a spingere la politica delle conserve essiccate ordinando alla sua fattoressa di conservare tutti gli anni «pere secche, sorbe, fichi, uva secca, sorbe nella sapa, pere e uve nelle giare, mele, uva nelle vinacce e nei vasi interrati, nocciole di Preneste, mele di Scanzio nelle giare». Alla faccia del frugale Censore. Fu il Paperon de’ Paperoni dei vegetariani. Lui sì che scommetteva sul futuro. Infatti campò fino a 85 anni, un record per allora. «Borboniana» è la terza e ultima fase. L’omaggio di Barberis è a Luigi XIII, il re francese che preparava personalmente le marmellate. È lo stadio dello zucchero che arriva in Europa dopo la scoperta dell’America. «Nelle marmellate di oggi», dice il sociologo, «non si celebra la gloria della singola frutta, ma è lo zucchero che celebra la propria avendo come piedistallo una così nobile materia prima».Sulla marmellata, caposaldo della colazione italiana (pane, burro e marmellata) ci sarebbe da scrivere un’enciclopedia. Pare che il nome derivi dal greco antico: melimelon, mela di miele, una confettura ottenuta bollendo le mele cotogne con il miele. Da melimelon alla portoghese marmelada il passo non è breve, ma un nesso c’è: marmelada significa «confettura di marmelo» e cioè di mela cotogna. Una seconda versione fa risalire la «marmellata» alla regina Maria Stuarda che, alla metà del ’500, morto il marito Francesco II, lascia la Francia e torna in Scozia portandosi dietro una scorta industriale di conserva di arance amare che considerava una medicina: ogni volta che le saliva la febbre, ne prendeva qualche cucchiaiata. Era la sua tachipirina. Servitori e domestici chiamarono il «farmaco» «Marie-malade». Da qui «marmalade», marmellata.Massimo Montanari, docente di Storia e cultura delle civiltà all’Università di Bologna, sostiene che furono due gli stimoli che misero in moto le rotelline dei nostri primitivi antenati per risolvere il problema di conservare i cibi: «L’ansia e la fiducia». «Elaborare metodi efficaci per mantenere i prodotti vegetali e animali, e poterli utilizzare ben oltre il loro ciclo «naturale» di vita è stata nei secoli una delle principali strategie per affrontare il problema della fame. Il metodo più usato fu quello dell’essiccazione, praticata al calore del sole (dove il clima lo consentiva) o col fumo (nei Paesi freddi), ma più normalmente, e dappertutto, col sale, protagonista di primissimo piano della storia dell’alimentazione e della sicurezza alimentare». Con il passare dei secoli i procedimenti di conservazione si perfezionarono. Gli Egiziani trafficavano pesce salato e affumicato. I Fenici caricavano sulle loro navi grandi quantità di anfore con carne secca, pesci affumicati e sotto sale. Greci e Romani perfezionarono ancor più l’arte conserviera. Gabrio Apicio conservava la carne senza sale, con il miele; i pesci fritti coprendoli d’aceto caldo appena tolti dall’olio; rape, navoni, tartufi allineandoli a strati nella segatura.Dal Mille in poi le tecniche si affinarono ancor più dettate da nuovi bisogni: i lunghi viaggi per mare, le spedizioni militari. Ma fu durante la rivoluzione francese che si compì la... rivoluzione delle conserve. Un patisseur francese, Nicola Appert, s’accorse che i cibi cotti chiusi ermeticamente in vasi di vetro duravano un’eternità. Era il principio della sterilizzazione. C’era arrivato anche il nostro Lazzaro Spallanzani, ma anche allora, come adesso, i cugini francesi erano più bravi a vendere la loro merce. Appert lo era davvero tanto. Scrisse un libro, Livre de tous les ménages, ou l’art de conserver pleusieurs années toutes les substances animales et végétales (1804) nel quale annunciò al mondo: «Con questo processo, vi sarà possibile trasferire nella vostra cantina tutto quanto il vostro orto produce in primavera, in estate e in autunno e dopo parecchi anni troverete i vostri alimenti vegetali ancora buoni e sani come quando li avete raccolti». Henry David Thoreau, scrittore e filosofo americano, vissuto nel 19° secolo, progenitore del movimento hippy, passò due anni della sua esistenza nei boschi del Massachusset per conservare intatta la sua libertà. Raccontò l’esperienza in Walden, vita nei boschi. Il suo slogan era: «Bisogna conservare un po’ d’estate anche in pieno inverno». Estendiamo il pensiero: le conserve sono libertà. Petronilla, pseudonimo di Amalia Moretti Foggia, medico e giornalista con rubrica fissa sulla Domenica del Corriere, in 200 suggerimenti per questi tempi (maggio 1943) insegna alle sue lettrici la libertà dalla fame in quei tempi di guerra: «Nel caldo estivo conservate verdure e frutta, per averle così pronte per il freddo invernale». Petronilla suggeriva come imbottigliare l’estate: preparando fiaschi e fiaschi di condimento di pomodoro («non avrete a pentirvi»); seccando verdure e frutta; conservando le verdure sott’aceto («non essendo permesso di serbarle sott’olio»); serbandole sotto sale.I metodi Appert, Pasteur, Giuseppe Lancia (rifornì l’esercito piemontese in Crimea di cibo in scatola), Francesco Cirio (inondò l’Italia con i pelati), Pierre Durand (latta al posto del vetro), Ruben Rausing (tetrapak) sono stati tradotti dall’industria nelle conserve che riempiono gli scaffali dei supermercati: salumi, formaggi, confetture, dolci, gelati, crostacei, zuppe... Tutto buono, ma volete mettere il piacere e la soddisfazione di conservare l’estate come facevano le nostre nonne?
John Grisham (Ansa)
John Grisham, come sempre, tiene incollati alle pagine. Il protagonista del suo nuovo romanzo, un avvocato di provincia, ha tra le mani il caso più grosso della sua vita. Che, però, lo trascinerà sul banco degli imputati.
Fernando Napolitano, amministratore delegato di Irg
Alla conferenza internazionale, economisti e manager da tutto il mondo hanno discusso gli equilibri tra Europa e Stati Uniti. Lo studio rivela un deficit globale di forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero, elementi chiave che costituiscono il dialogo tra imprese e decisori pubblici.
Stamani, presso l’università Bocconi di Milano, si è svolta la conferenza internazionale Influence, Relevance & Growth 2025, che ha riunito economisti, manager, analisti e rappresentanti istituzionali da tutto il mondo per discutere i nuovi equilibri tra Europa e Stati Uniti. Geopolitica, energia, mercati finanziari e sicurezza sono stati i temi al centro di un dibattito che riflette la crescente complessità degli scenari globali e la difficoltà delle imprese nel far sentire la propria voce nei processi decisionali pubblici.
Particolarmente attesa la presentazione del Global 200 Irg, la prima ricerca che misura in modo sistematico la capacità delle imprese di trasferire conoscenza tecnica e industriale ai legislatori e agli stakeholder, contribuendo così a politiche più efficaci e fondate su dati concreti. Lo studio, basato sull’analisi di oltre due milioni di documenti pubblici elaborati con algoritmi di Intelligenza artificiale tra gennaio e settembre 2025, ha restituito un quadro rilevante: solo il 2% delle aziende globali supera la soglia minima di «fitness di influenza», fissata a 20 punti su una scala da 0 a 30. La media mondiale si ferma a 13,6, segno di un deficit strutturale soprattutto in tre dimensioni chiave (forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero) che determinano la capacità reale di incidere sul contesto regolatorio e anticipare i rischi geopolitici.
Dai lavori è emerso come la crisi di influenza non riguardi soltanto le singole imprese, ma l’intero ecosistema economico e politico. Un tema tanto più urgente in una fase segnata da tensioni commerciali, transizioni energetiche accelerate e carenze di competenze nel policy making.
Tra gli interventi più significativi, quello di Ken Hersh, presidente del George W. Bush Presidential Center, che ha analizzato i limiti strutturali delle energie rinnovabili e le prospettive della transizione energetica. Sir William Browder, fondatore di Hermitage Capital, ha messo in guardia sui nuovi rischi della guerra economica tra Occidente e Russia, mentre William E. Mayer, chairman emerito dell’Aspen Institute, ha illustrato le ricadute della geopolitica sui mercati finanziari. Dal fronte italiano, Alessandro Varaldo ha sottolineato che, dati alla mano, non ci sono bolle all’orizzonte e l’Europa ha tutti gli ingredienti a patto che si cominci un processo per convincere i risparmiatori a investire nelle economia reale. Davide Serra ha analizzato la realtà Usa e come Donald Trump abbia contribuito a risvegliarla dal suo torpore. Il dollaro è molto probabilmente ancora sopravvalutato. Thomas G.J. Tugendhat, già ministro britannico per la Sicurezza, ha offerto infine una prospettiva preziosa sul futuro della cooperazione tra Regno Unito e Unione Europea.
Un messaggio trasversale ha attraversato tutti gli interventi: l’influenza non si costruisce in un solo ambito, ma nasce dall’integrazione tra governance, innovazione, responsabilità sociale e capacità di comunicazione. Migliorare un singolo aspetto non basta. La ricerca mostra una correlazione forte tra innovazione e leadership di pensiero, così come tra responsabilità sociale e cittadinanza globale: competenze che, insieme, definiscono la solidità e la credibilità di un’impresa nel lungo periodo.
Per Stefano Caselli, rettore della Bocconi, la sfida formativa è proprio questa: «Creare leader capaci di tradurre la competenza tecnica in strumenti utili per chi governa».
«L’Irg non è un nuovo indice di reputazione, ma un sistema operativo che consente alle imprese di aumentare la protezione del valore dell’azionista e degli stakeholder», afferma Fernando Napolitano, ad di Irg. «Oggi le imprese operano in contesti dove i legislatori non hanno più la competenza tecnica necessaria a comprendere la complessità delle industrie e dei mercati. Serve un trasferimento strutturato di conoscenza per evitare policy inefficaci che distruggono valore».
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