
Il fatto che la cosa più sensata nel dibattito sul politicamente corretto l'abbia detta Lisa Simpson, cioè un personaggio immaginario, rende bene l'idea dell'ambiente culturale in cui viviamo. Tutto nasce dalla querelle su Apu Nahasapeemapetilon, l'indiano molto stereotipato che gestisce il supermercato di Springfield, la cittadina in cui si svolgono le avventure dei personaggi creati da Matt Groening. Ebbene, da tempo c'è chi sta portando avanti una battaglia contro il personaggio, ritenendolo offensivo nei confronti della minoranza indiana e, in generale, il tipico frutto di un certo modo superato di fare ironia scherzando sui cliché culturali.
Hari Kondabolu, stand-up comedian americano nato da genitori indiani immigrati negli Usa, ci ha pure fatto su un documentario, intitolato The problem with Apu. Ora, però, i Simpson hanno risposto alle accuse. In una puntata andata in onda qualche giorno fa, dal titolo No good read goes unpunished («Nessuna buona lettura resta impunita»), a un certo punto la famiglia Simpson rinuncia alla tecnologia e Marge, la mamma, decide di leggere a sua figlia Lisa un libro di diversi anni prima. Scopre però che il libro è pieno di stereotipi, che lei corregge e rimuove prima di darlo a Lisa. Dopo aver sentito la storia narrata nel libro e corretta da Marge, Lisa dice che il libro è troppo breve e i personaggi non sono per niente sviluppati. Poi si rivolge direttamente agli spettatori e dice: «Qualcosa che quando iniziò decenni fa era apprezzato e considerato non offensivo, ora è ritenuto politicamente scorretto. Cosa ci possiamo fare?». Poi Lisa chiede a Marge come si possa gestire la cosa e Marge risponde: «Di certe cose ci occuperemo più avanti». Lisa aggiunge: «O forse mai». Mentre Lisa dice queste parole si vede sul suo comodino una foto di Apu, con una dedica per Lisa scritta da lui: «Non mangiare una mucca, Apu».
Insomma, il messaggio è chiaro: basta isterie, la società si evolve, è normale che alcune cose possano essere guardate con occhi diversi a molti anni di distanza, ma non è il caso di farne un dramma. Kondalobu, tuttavia, non è sembrato soddisfatto dalla replica: «Wow. “Politicamente scorretto"? È questa la morale che hanno tratto dal mio film e lo spunto per la discussione? Mi piacevano davvero i Simpson. È triste». La polemica, quindi, resta aperta. «Ogni cosa di Apu è un continuo scherzo. E il continuo scherzo è il fatto che lui è indiano», aveva detto l'autore del documentario al New York Times. Sotto accusa anche il marcato accento indiano del gestore del Jet Market, messo in discussione anche perché il doppiatore è Hank Azaria, attore statunitense di origini ebraiche e greche, non certo indiane. Azaria si è ispirato ai gestori dei minimarket di Los Angeles con cui aveva interagito quando si era trasferito in quella città, e anche al personaggio di Hrundi V. Bakshi, interpretato da Peter Sellers nel film Hollywood Party. Apu, inoltre, «viene praticamente definito dal suo lavoro», aveva aggiunto Kondalobu alla Bbc, «ma ha anche otto bambini, una presa in giro del fatto che in India ci sono così tante persone, e si è sposato con un matrimonio combinato».
Ad ogni modo Apu, nella serie, non esce in modo particolarmente negativo: ha un dottorato in scienze informatiche, mentre il suo approccio non talebano al veganesimo viene utilizzato nella serie per spiegare all'estremista Lisa che non bisogna giudicare gli altri troppo severamente. Quando corteggia sua moglie Manjula, tutte le donne di Springfield lo ammirano, partecipa attivamente alla vita della cittadina, in cui è perfettamente integrato, e così via. A ben vedere, agli indiani, con Apu è andata meglio che a noi italiani a cui tocca Luigi Risotto, il pizzaiolo napoletano con gli immancabili baffi neri, il mafioso Tony Ciccione e Milhouse, il migliore amico di Bart, che in una puntata mostra di avere origini italiane, tanto da avere come secondo cognome... Mussolini. Pizza, mafia e fascismo. Ma sono anni che il mondo ci prende in giro su questi argomenti, che del resto, in un modo o nell'altro, della nostra storia fanno parte realmente.
Ma è tutto il cartone a essere basato su caricature e cliché: lo scozzese litigioso, incolto e rude, il vecchio rimbambito, il bambino tedesco con l'accento marcato e il vestito da tirolese, il sindaco corrotto e donnaiolo, il poliziotto ciccione e un po' scemo, il pastore disincantato con la moglie bigotta, il comico ebreo, il magnate ricchissimo e perfido, l'allocco tarato e incestuoso. Per non parlare di Homer Simpson, la macchietta dell'americano medio: ignorante, dipendente dalla tv, amante del cibo spazzatura, spaccone e un po' tonto. Tutto, nei Simpson, è stereotipo. Più volte, del resto, la serie si prende in giro da sola proprio su questo argomento: una delle squadre di bowling della città, per dire, si chiama The Stereotypes e raccoglie il cuoco Luigi, lo scozzese Willie, il capitano dei pirati e il redneck Cletus. Nelle puntate in cui la famiglia gialla si reca all'estero (in Brasile, in Inghilterra, in Giappone o, appunto, in Italia), tutto viene rappresentato in forma caricaturale, anche se poi non è chiaro se la presa in giro sia per gli altri popoli o per le aspettative dell'americano medio, formattate su pochi luoghi comuni standard. Si tratta, tuttavia, di cliché inoffensivi, in fondo bonari, tanto più innocui nella misura in cui non c'è praticamente minoranza che non sia rappresentata. Mal comune, mezzo gaudio. Ma non ditelo a Kondabolu.






