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2023-04-12
Approvato il Def. Solo 3 miliardi per tagliare il cuneo ai redditi bassi
Giancarlo Giorgetti (Imagoeconomica)
Nel pomeriggio di ieri il Def 2023 è stato approvato dal cdm. Si tratta dell’ossatura di quella che sarà la politica economica del governo nel breve e medio termine. Il Documento di economia e finanza «tiene conto di un quadro economico-finanziario che, nonostante l’allentamento negli ultimi tempi degli effetti negativi derivanti dalla pandemia e dal caro energia, rimane incerto e rischioso a causa della guerra in Ucraina, di tensioni geopolitiche elevate, del rialzo dei tassi di interesse ma anche per l’affiorare di localizzate crisi nel sistema bancario e finanziario internazionale», spiega una nota del Mef. Per questo «l’economia italiana continua a mostrare una notevole dose di resilienza e vitalità. Il 2022 si è chiuso con il Pil in aumento del 3,7% e, nonostante il rallentamento congiunturale della seconda metà dell’anno, i più recenti indicatori, tra cui gli indici di fiducia di famiglie e imprese, segnalano che nei primi mesi del 2023 l’economia del Paese ha ripreso a crescere». Così, le stime di crescita del Pil «si collocano nel solco già tracciato dal Documento programmatico di bilancio di novembre e dalla legge di bilancio, confermando l’approccio prudente e realistico, finalizzato a mostrare serietà e affidabilità sia ai mercati sia all’Unione Europa, e che punta a raggiungere risultati più ambiziosi».
Le risorse, insomma, vanno dosate con cura e il ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti in più di una occasione ha fatto notare che il governo segue la strada della prudenza. Ecco perché, a fronte di una stima di deficit tendenziale per il 2023 pari al 4,35% del Pil, spiega il Mef dopo l’approvazione del Documento di economia e finanza, il mantenimento dell’obiettivo di deficit esistente (4,5%) permetterà di introdurre, con un provvedimento di prossima attuazione, un taglio dei contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi di circa 3 miliardi di euro a valere sull’anno in corso.
Fatto sta che 3 miliardi non sono poi molti e, con queste risorse, una spesa mirata delle risorse del Pnrr diventa fondamentale. Se invece l’Italia continuerà a disperdere i fondi in mille rivoli per opere tutt’altro che strategiche, come ha denunciato La Verità, il rilancio del Paese sarà sempre più difficile. L’ultimo Italian Macroeconomic Bulletin di Ey ha avvertito che, se le risorse nel Pnrr verranno spese per il 70% e il 90% di quanto previsto nel 2023 e 2024 il Pil potrebbe non crescere quest’anno e aumentare dell’1,8% il prossimo. Se invece venisse utilizzato circa il 50% delle risorse previste, l’economia italiana tornerebbe a crescere nel 2024 a un tasso dell’1,5%, dopo una contrazione dello 0,3% nel 2023. Molto dipenderà anche dal decreto sul Pnrr atteso oggi in Senato in cui si cambierà la governance.
All’interno del Def si stima dunque che la pressione fiscale dovrebbe scendere dal 43,3% del 2023 al 42,7% entro il 2026: un dato incoraggiante, ma non certo sufficiente a far tirare un sospiro di sollievo ai lavoratori italiani che hanno visto l’inflazione mangiare il potere d’acquisto dei salari. Altro argomento caldo è quello delle pensioni. Con ogni probabilità slitterà l’ipotesi di Quota 41, tanto gradita alla Lega. Il motivo è che i risparmi potrebbero non essere sufficienti a sostenere un sistema previdenziale impegnativo come Quota 41. Per il 2024, quindi, si va verso una proroga di Quota 103. In fatto di aiuti per la spesa energetica, l’esecutivo ha intenzione di portare avanti anche per la seconda parte dell’anno gli sconti applicati a famiglie e imprese, pur sperando che i prezzi di luce e gas continuino a calare e che quindi in futuro vi sia sempre meno bisogno di risorse per questa misura.
Nel cdm di ieri si è parlato anche della riforma del mercato dei capitali. L’obiettivo è quello di adottare una serie di semplificazioni per rendere più agevole lo sbarco in Borsa delle piccole e medie imprese. Il disegno di legge di riforma della Borsa consta di 22 articoli e comprende una serie di disposizioni riguardanti la convocazione delle assemblee, il voto plurimo per certe categorie di azioni, agevolazioni per l’investimento delle casse di previdenza, norme per facilitare le operazioni finanziarie e così via. Tutto finalizzato a semplificare l’iter di quotazione e la permanenza in Borsa. In particolare, per rendere il tutto più agevole, il governo avrebbe deciso di abrogare le norme «nazionali», che si accavallano con il Libro verde europeo, creando complessità e quindi ostacoli difficili da superare per le Pmi.
Giorgia Meloni, inoltre, ha anticipato che «dalla prossima legge di bilancio bisogna porsi con concretezza il problema del calo demografico e delle nuove nascite, con misure adeguate», come riferito dall’Ansa. Il premier ha sottolineato: «Il governo oggi ha tracciato la politica economica per i prossimi anni, una linea fatta di stabilità, credibilità e crescita. Rivediamo al rialzo con responsabilità le stime del Pil e proseguiamo il percorso di riduzione del debito pubblico. Sono le carte con le quali l’Italia si presenta in Europa. Abbiamo, inoltre, deciso lo stato di emergenza sull’immigrazione per dare risposte più efficaci e tempestive alla gestione dei flussi».
Sì alla vendita di Priolo ai ciprioti. Ma con il cordone del golden power
Il Consiglio dei ministri ha dato anche il via libera alla vendita della raffineria Isab di Priolo al fondo Goi energy, che ha avuto come advisor legale lo studio BonelliErede. Come anticipato ieri dalla Verità, però, si tratta di un ok condizionato con il varo di un dpcm per l’applicazione del golden power. In sostanza, il governo Meloni esercita i poteri speciali in materia di asset strategici, autorizzando l’operazione con una serie di rigide prescrizioni. Ai ciprioti sono dunque chieste tre tipi di garanzie: occupazionali, ambientali (bonifiche, limiti di scarico e uso del depuratore) e, soprattutto, relative agli affari che gli acquirenti potranno fare e alla tracciabilità della provenienza delle forniture. Per almeno dieci anni, infatti, non sarà possibile fare trading sulle materie prime, sul petrolio e sui derivati russi.
La raffineria in provincia di Siracusa copre il 20% del fabbisogno annuale dell’Italia e rischiava lo stop dopo l’embargo sul petrolio russo. Il 9 gennaio era stato raggiunto un accordo tra Litasco, società svizzera controllata dai russi di Lukoil cui fa capo la Isab, e Goi energy, il ramo del settore energetico di Argus, fondo di private equity e asset management di Cipro. L’ad di Goi, Michael Bobrov, è anche azionista di maggioranza di Green oil energy, che a sua volta controlla Bazan, uno dei più grandi gruppi energetici in Israele. «Non abbiamo nessuna fobia nei riguardi dei capitali stranieri», aveva dichiarato l’11 gennaio il ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, rispondendo in commissione Trasporti alle domande sul cosiddetto decreto Lukoil. «Abbiamo costituito una cornice sanitaria e useremo il golden power per mettere dei vincoli a salvaguardia di occupazione, produzione e ambiente», aveva aggiunto. All’inizio di febbraio, con un dpcm, il governo aveva dichiarato il complesso degli stabilimenti di proprietà di Isab di interesse strategico nazionale e riconosciuto come beni strumentali allo stabilimento industriale gli impianti di depurazione di Priolo Gargallo e Melilli, in quanto infrastrutture necessarie ad assicurare la continuità produttiva. Un successivo decreto interministeriale, delle Imprese e del made in Italy di concerto con il ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica, ha collegato i limiti per la messa a norma degli impianti con le esigenze di continuità dell’attività produttiva e di salvaguardia dell’occupazione.
Partner chiave della cordata di Goi è Trafigura, con cui Goi energy ha siglato accordi esclusivi di fornitura a lungo termine. Trafigura, che ha sede in Svizzera e Singapore, è uno dei più grandi trader di materie prime indipendenti al mondo e per anni, prima dell’invasione dell’Ucraina, ha fatto a gara con le rivali come Vitol e Glencore per fare affari con l’altro colosso russo del petrolio, Rosneft. Proprio il confronto con Trafigura è stato il tassello determinante del ciclo di audizioni che il governo ha concluso lo scorso 4 aprile. Nel destino di Priolo entra in gioco non solo l’aspetto economico - al fine di garantire la continuità produttiva e occupazionale in un settore strategico - ma anche geopolitico considerando che a 30 chilometri dall’impianto c’è la base militare americana di Sigonella. Non a caso gli americani si erano fatti avanti per acquisire l’impianto siciliano attraverso il fondo Crossbridge, legato a Postlane capital partners con sede a New York.
La cessione della raffineria siciliana a Goi energy ha un valore che si aggirerebbe attorno a 1,2 miliardi di euro e dovrebbe concretizzarsi nelle prossime settimane.
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Nuovi aiuti per le bollette, mentre slitta Quota 41. Quotazioni più semplici. Giorgia Meloni: «Nel bilancio misure per la natalità».Sì alla vendita di Priolo ai ciprioti. Cessione condizionata: per almeno dieci anni vietato fare affari con il petrolio russo.Lo speciale contiene due articoli.Nel pomeriggio di ieri il Def 2023 è stato approvato dal cdm. Si tratta dell’ossatura di quella che sarà la politica economica del governo nel breve e medio termine. Il Documento di economia e finanza «tiene conto di un quadro economico-finanziario che, nonostante l’allentamento negli ultimi tempi degli effetti negativi derivanti dalla pandemia e dal caro energia, rimane incerto e rischioso a causa della guerra in Ucraina, di tensioni geopolitiche elevate, del rialzo dei tassi di interesse ma anche per l’affiorare di localizzate crisi nel sistema bancario e finanziario internazionale», spiega una nota del Mef. Per questo «l’economia italiana continua a mostrare una notevole dose di resilienza e vitalità. Il 2022 si è chiuso con il Pil in aumento del 3,7% e, nonostante il rallentamento congiunturale della seconda metà dell’anno, i più recenti indicatori, tra cui gli indici di fiducia di famiglie e imprese, segnalano che nei primi mesi del 2023 l’economia del Paese ha ripreso a crescere». Così, le stime di crescita del Pil «si collocano nel solco già tracciato dal Documento programmatico di bilancio di novembre e dalla legge di bilancio, confermando l’approccio prudente e realistico, finalizzato a mostrare serietà e affidabilità sia ai mercati sia all’Unione Europa, e che punta a raggiungere risultati più ambiziosi».Le risorse, insomma, vanno dosate con cura e il ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti in più di una occasione ha fatto notare che il governo segue la strada della prudenza. Ecco perché, a fronte di una stima di deficit tendenziale per il 2023 pari al 4,35% del Pil, spiega il Mef dopo l’approvazione del Documento di economia e finanza, il mantenimento dell’obiettivo di deficit esistente (4,5%) permetterà di introdurre, con un provvedimento di prossima attuazione, un taglio dei contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi di circa 3 miliardi di euro a valere sull’anno in corso. Fatto sta che 3 miliardi non sono poi molti e, con queste risorse, una spesa mirata delle risorse del Pnrr diventa fondamentale. Se invece l’Italia continuerà a disperdere i fondi in mille rivoli per opere tutt’altro che strategiche, come ha denunciato La Verità, il rilancio del Paese sarà sempre più difficile. L’ultimo Italian Macroeconomic Bulletin di Ey ha avvertito che, se le risorse nel Pnrr verranno spese per il 70% e il 90% di quanto previsto nel 2023 e 2024 il Pil potrebbe non crescere quest’anno e aumentare dell’1,8% il prossimo. Se invece venisse utilizzato circa il 50% delle risorse previste, l’economia italiana tornerebbe a crescere nel 2024 a un tasso dell’1,5%, dopo una contrazione dello 0,3% nel 2023. Molto dipenderà anche dal decreto sul Pnrr atteso oggi in Senato in cui si cambierà la governance.All’interno del Def si stima dunque che la pressione fiscale dovrebbe scendere dal 43,3% del 2023 al 42,7% entro il 2026: un dato incoraggiante, ma non certo sufficiente a far tirare un sospiro di sollievo ai lavoratori italiani che hanno visto l’inflazione mangiare il potere d’acquisto dei salari. Altro argomento caldo è quello delle pensioni. Con ogni probabilità slitterà l’ipotesi di Quota 41, tanto gradita alla Lega. Il motivo è che i risparmi potrebbero non essere sufficienti a sostenere un sistema previdenziale impegnativo come Quota 41. Per il 2024, quindi, si va verso una proroga di Quota 103. In fatto di aiuti per la spesa energetica, l’esecutivo ha intenzione di portare avanti anche per la seconda parte dell’anno gli sconti applicati a famiglie e imprese, pur sperando che i prezzi di luce e gas continuino a calare e che quindi in futuro vi sia sempre meno bisogno di risorse per questa misura.Nel cdm di ieri si è parlato anche della riforma del mercato dei capitali. L’obiettivo è quello di adottare una serie di semplificazioni per rendere più agevole lo sbarco in Borsa delle piccole e medie imprese. Il disegno di legge di riforma della Borsa consta di 22 articoli e comprende una serie di disposizioni riguardanti la convocazione delle assemblee, il voto plurimo per certe categorie di azioni, agevolazioni per l’investimento delle casse di previdenza, norme per facilitare le operazioni finanziarie e così via. Tutto finalizzato a semplificare l’iter di quotazione e la permanenza in Borsa. In particolare, per rendere il tutto più agevole, il governo avrebbe deciso di abrogare le norme «nazionali», che si accavallano con il Libro verde europeo, creando complessità e quindi ostacoli difficili da superare per le Pmi.Giorgia Meloni, inoltre, ha anticipato che «dalla prossima legge di bilancio bisogna porsi con concretezza il problema del calo demografico e delle nuove nascite, con misure adeguate», come riferito dall’Ansa. Il premier ha sottolineato: «Il governo oggi ha tracciato la politica economica per i prossimi anni, una linea fatta di stabilità, credibilità e crescita. Rivediamo al rialzo con responsabilità le stime del Pil e proseguiamo il percorso di riduzione del debito pubblico. Sono le carte con le quali l’Italia si presenta in Europa. Abbiamo, inoltre, deciso lo stato di emergenza sull’immigrazione per dare risposte più efficaci e tempestive alla gestione dei flussi».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/approvato-def-3-miliardi-cuneo-2659837879.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="si-alla-vendita-di-priolo-ai-ciprioti-ma-con-il-cordone-del-golden-power" data-post-id="2659837879" data-published-at="1681262730" data-use-pagination="False"> Sì alla vendita di Priolo ai ciprioti. Ma con il cordone del golden power Il Consiglio dei ministri ha dato anche il via libera alla vendita della raffineria Isab di Priolo al fondo Goi energy, che ha avuto come advisor legale lo studio BonelliErede. Come anticipato ieri dalla Verità, però, si tratta di un ok condizionato con il varo di un dpcm per l’applicazione del golden power. In sostanza, il governo Meloni esercita i poteri speciali in materia di asset strategici, autorizzando l’operazione con una serie di rigide prescrizioni. Ai ciprioti sono dunque chieste tre tipi di garanzie: occupazionali, ambientali (bonifiche, limiti di scarico e uso del depuratore) e, soprattutto, relative agli affari che gli acquirenti potranno fare e alla tracciabilità della provenienza delle forniture. Per almeno dieci anni, infatti, non sarà possibile fare trading sulle materie prime, sul petrolio e sui derivati russi. La raffineria in provincia di Siracusa copre il 20% del fabbisogno annuale dell’Italia e rischiava lo stop dopo l’embargo sul petrolio russo. Il 9 gennaio era stato raggiunto un accordo tra Litasco, società svizzera controllata dai russi di Lukoil cui fa capo la Isab, e Goi energy, il ramo del settore energetico di Argus, fondo di private equity e asset management di Cipro. L’ad di Goi, Michael Bobrov, è anche azionista di maggioranza di Green oil energy, che a sua volta controlla Bazan, uno dei più grandi gruppi energetici in Israele. «Non abbiamo nessuna fobia nei riguardi dei capitali stranieri», aveva dichiarato l’11 gennaio il ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, rispondendo in commissione Trasporti alle domande sul cosiddetto decreto Lukoil. «Abbiamo costituito una cornice sanitaria e useremo il golden power per mettere dei vincoli a salvaguardia di occupazione, produzione e ambiente», aveva aggiunto. All’inizio di febbraio, con un dpcm, il governo aveva dichiarato il complesso degli stabilimenti di proprietà di Isab di interesse strategico nazionale e riconosciuto come beni strumentali allo stabilimento industriale gli impianti di depurazione di Priolo Gargallo e Melilli, in quanto infrastrutture necessarie ad assicurare la continuità produttiva. Un successivo decreto interministeriale, delle Imprese e del made in Italy di concerto con il ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica, ha collegato i limiti per la messa a norma degli impianti con le esigenze di continuità dell’attività produttiva e di salvaguardia dell’occupazione. Partner chiave della cordata di Goi è Trafigura, con cui Goi energy ha siglato accordi esclusivi di fornitura a lungo termine. Trafigura, che ha sede in Svizzera e Singapore, è uno dei più grandi trader di materie prime indipendenti al mondo e per anni, prima dell’invasione dell’Ucraina, ha fatto a gara con le rivali come Vitol e Glencore per fare affari con l’altro colosso russo del petrolio, Rosneft. Proprio il confronto con Trafigura è stato il tassello determinante del ciclo di audizioni che il governo ha concluso lo scorso 4 aprile. Nel destino di Priolo entra in gioco non solo l’aspetto economico - al fine di garantire la continuità produttiva e occupazionale in un settore strategico - ma anche geopolitico considerando che a 30 chilometri dall’impianto c’è la base militare americana di Sigonella. Non a caso gli americani si erano fatti avanti per acquisire l’impianto siciliano attraverso il fondo Crossbridge, legato a Postlane capital partners con sede a New York. La cessione della raffineria siciliana a Goi energy ha un valore che si aggirerebbe attorno a 1,2 miliardi di euro e dovrebbe concretizzarsi nelle prossime settimane.
Sara Kelany
Funzionano i centri?
«Stanno cambiando cose. In meglio. Oggi sono Cpr ordinari. Il nostro obiettivo era ed è quello di renderli centri per l’espletamento delle procedure accelerate di frontiera. Sentenze ideologizzate di alcuni giudici italiani hanno incagliato la dinamica. Col pretesto dei Paesi sicuri. Sottolineo che nessuna delle ordinanze emesse ha trattato la posizione dei singoli migranti rispetto al loro diritto di ottenere protezione. Stabilivano che non è lo Stato che può individuare i Paesi sicuri. Ma può esserlo un giudice. Ritenevano che Egitto e Bangladesh non fossero Paesi sicuri».
Lo sono?
«Premesso che sono anche egiziana, ora in Europa la situazione si è finalmente ribaltata. Optando per accelerare sul Patto per la migrazione e l’asilo. Nel Consiglio dei ministri dell’Interno si è approvato un regolamento. Si è fatta una lista dei Paesi sicuri e, guarda caso, sono ricompresi Egitto e Bangladesh. L’Ue dà ragione alle politiche migratorie del governo Meloni, quindi quando entrerà in vigore questo regolamento i centri potranno ritornare pienamente in attività».
Tempistiche?
«Verosimilmente tra gennaio e febbraio il Parlamento Ue dovrà esprimersi. I regolamenti sono direttamente applicabili dagli Stati membri, non abbiamo bisogno di fare direttive di recepimento».
La parola remigrazione rimane un tema. E il 2023 rimane «annus horribilis» in termini di sbarchi.
«Uso più volentieri il termine “rimpatrio”. Il problema dei rimpatri è diffuso in tutta Europa. Abbiamo aumentato e stiamo aumentando del 100% l’anno i rimpatri forzosi. E abbiamo un grandissimo numero di rimpatri volontari assistiti con l’ausilio di Unhcr. Stanno alleggerendo di molto la posizione italiana. Con riferimento al 2023, i dati erano connessi a motivi esogeni. Il conflitto russo-ucraino, disordini e colpi di Stato nel Sahel, tensioni in Libia e Tunisia. Nel 2024, a seguito anche delle politiche di questo governo, che si basano sui controlli delle frontiere, sulla lotta ai trafficanti e sulla esternalizzazione della gestione dei flussi migratori irregolari in partnership coi Paesi terzi, segnatamente Albania, abbiamo registrato un meno 57% di sbarchi sul territorio nazionale. Sulla base di questi dati l’Europa ha guardato con occhi completamente diversi all’Italia e infatti si sta spostando sulle nostre politiche. Governi anche di estrazione diametralmente opposta a quella italiana ci prendono ad esempio. Vedi la Danimarca. Non parliamo di Ue ma di Europa. La Gran Bretagna è laburista. Starmer è venuto in Italia a chiedere alla Meloni: “Come hai fatto?”».
Come spiegarsi il rapporto speciale che c’è fra Italia e Albania?
«Si fonda su due basi. L’autorevolezza del nostro presidente del Consiglio e la personale empatia tra i due presidenti. Il presidente Rama è un socialista ma indipendentemente dall’estrazione politica, quando un premier è autorevole agli occhi del mondo, non può cambiare un rapporto con lo Stato solo e unicamente perché si viaggia su linee politiche differenti».
Zelensky è andato a Londra e ha incontrato Macron, Starmer e Merz. Dopodiché è venuto a Roma. Quei tre non sono stati in grado di dargli delle garanzie e lui è venuto a chiederle a Giorgia Meloni?
«Per l’Ucraina l’Italia è un partner fondamentale nella risoluzione del conflitto. Siamo sempre stati al suo fianco. Siamo sempre stati convinti che difendere l’Ucraina fosse una questione anche di principio, per la difesa di principi democratici europei. Kyev è vittima di un’orrida guerra di aggressione da parte della Russia. L’Italia, oltre ad avere questo tipo di approccio nei confronti dell’Ucraina, è anche una delle nazioni con il miglior rapporto gli Stati Uniti. Non ci dobbiamo dimenticare che gli Usa sono fondamentali affinché si arrivi a una risoluzione. Ed è ineliminabile l'apporto di Donald Trump in questa faccenda, così come lo è stato e lo sarà nelle questioni mediorientali. Giorgia Meloni è il leader, tra questi che mi hai menzionato, più forte e più stabile in Europa. Macron, Starmer e Merz sono più deboli. La loro debolezza interna si riflette anche in politica estera».
Il documento pubblicato sul sito della Casa Bianca è motivo di imbarazzo o di orgoglio per voi?
«Non è né motivo di imbarazzo né motivo di orgoglio. È una fotografia. Naturalmente la grammatica politica degli Stati Uniti non è la nostra. Noi non possiamo guardare la politica statunitense con i nostri occhi. Non siamo abituati ai loro toni. Ciò non significa che noi non dobbiamo continuare a conservare un rapporto privilegiato. Saldamente ancorato all’Occidente. Perché io mi chiedo e chiedo alle sinistre italiane: l’alternativa qual è? La Cina? Noi non vogliamo avere come alternativa la Cina. Finché ci saremo noi al governo».
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Elly Schlein e Stefano Bonaccini (Ansa)
L’assemblea dem non incorona Schlein come candidata premier Gori si fa portavoce dei riformisti: «Il Green deal va ripensato».
Suggerimento, gratis, per i talk televisivi: si sottopongano Elly Schlein e i dirigenti del Pd, tipo l’economista Francesco Boccia, al test della michetta. Ieri la segretaria che sperava di cambiare lo statuto – tentativo fallito – per farsi incoronare candidata unica alla presidenza del Consiglio e che sta tentando di rinviare il congresso (cade a marzo 2027 e se per caso lo perdesse non riuscirebbe neppure ad avvicinarsi a Palazzo Chigi), se n’è uscita con una battuta alimentare: «Meloni festeggia l’Unesco, ma il frigo degli italiani è sempre più vuoto, la sua calcolatrice è rotta: vada nei supermercati e guardi quanto sono aumentati i prezzi». Chissà se Elly Schlein sa quanto costa il pane al chilo e un etto di mandorle. Lei è vegetariana e chiederle del prosciutto sarebbe indelicato.
L’assemblea del Pd, convocata ieri a Roma in concomitanza con Atreju per non lasciare troppo spazio a Giorgia Meloni, ha ricordato, se ancora ce ne fosse bisogno, che per i dem vale tutto. Ma soprattutto ha lasciato in sospeso le polemiche interne: congelate perché si doveva tentare di offuscare la comunicazione Fdi. La Schlein ha evitato qualsiasi voto e qualsiasi argomento divisivo. Ha fatto un po’ di propaganda e nulla più. Così vale che Stefano Bonaccini, dopo averne dette di ogni contro la segretaria annunci che la sua corrente Energia popolare rientra in maggioranza e porti solidarietà ai giornalisti del gruppo Gedi così come l’hanno data alle vittime ebree di Bondi Beach. A Repubblica e alla Stampa al massimo cambiano padrone, in Australia gli amici di Hamas, non così distanti dai pro Pal e da Francesca Albanese a cui i sindaci Pd consegnano le chiavi delle città, hanno ammazzato. Ma è brutto dirlo nel giorno in cui Elly Schlein s’ingegna a sfidare Giorgia Meloni su tutto. «Anche tanti di coloro che hanno votato per questa destra capiscono che non ha fatto nulla per la crescita; Arianna Meloni ci ha detto che loro priorità sono il premierato e la legge elettorale perché hanno paura di perdere». La Schlein si sente già al governo e annuncia: «Metteremo 3 miliardi in più sulla sanità, faremo il salario minimo a 9 euro, abbatteremo il prezzo dell’energia scollegandolo da quello del gas». Il fatto è che per battere «queste destre che delegittimano l’Onu, il diritto internazionale e facendo i vassalli non difendono l’interesse nazionale» ci vogliono i voti. Elly Schlein azzarda: «I voti assoluti della nostra coalizione e di quella del governo sono sostanzialmente pari ma siamo il primo partito con i voti reali, non nei sondaggi, nei voti veri». A essersi rotta deve essere la sua calcolatrice, non quella della Meloni.
Comunque la prospettiva – anche se Giuseppe Conte proprio da Atreju le ha fatto sapere che i 5 stelle non sono alleati col Pd – è «confrontiamoci anche aspramente, ma costruiamo l’alternativa: è tempo che l’Italia ricominci a sognare e a sperare». Così da gennaio lei parte per un tour programmatico. Doveva andare in giro a parlare del Pd, ma meglio dare addosso alla Meoni che fare i conti con i suoi. Che ieri hanno disertato la direzione nazionale che ha solo votato la relazione della segretaria (225 voti a favore e 36 astenuti) per evitare di palesare le fratture che invece ci sono. L’ala dura dei riformisti ha scelto di rinviare il confronto salvo Giorgio Gori, eurodeputato ex sindaco di Bergamo che all’assemblea ha scandito: «Il Pd ha perso la fiducia, sia della maggioranza degli operai, ma anche degli imprenditori. La sinistra è considerata lontana dal mondo dell’impresa. Serve il riformismo concreto e coraggioso di cui parla Prodi. Il Green deal fatica a tenere insieme obiettivi ambientali e tutele sociali, dobbiamo avere il coraggio di dirlo e promuovere un nuovo e diverso Green deal», ha concluso Gori, «proporre un patto fra istituzioni, imprese e lavoro. La destra porta il Paese al declino, il Pd può presentarsi e vincere le elezioni come partito della crescita e della redistribuzione». La Schlein per ora si occupa dei supermercati, la grande distribuzione.
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Meloni ha poi lanciato un altro attacco all’opposizione a proposito di Abu Mazen, presidente della Palestina: «La sua bella presenza qui ad Atreju fa giustizia delle accuse vergognose di complicità in genocidio che una sinistra imbarazzante ci ha rivolto per mesi». E ancora contro la sinistra: «La buona notizia è che ogni volta che loro parlano male di qualcosa va benissimo. Cioè parlano male di Atreju ed è l’edizione migliore di sempre, parlano male del governo, il governo sale nei sondaggi, hanno tentato di boicottare una casa editrice, è diventata famosissima. Cioè si portano da soli una sfiga che manco quando capita la carta della Pagoda al Mercante in fiera, visto che siamo in clima natalizio. E allora grazie a tutti quelli che hanno fatto le macumbe». L’altra stilettata ironica a proposito del premio dell’Unesco che riconosce la cucina italiana come bene immateriale dell’umanità: «A sinistra non è andato bene manco questo. Loro non sono riusciti a gioire per un riconoscimento che non è al governo ma alle nostre mamme e nonne, alle nostre filiere, alla nostra tradizione, alla nostra identità. Hanno rosicato così tanto che è una settimana che mangiano tutti dal kebabbaro. Veramente roba da matti». Ricordando l’unità della coalizione, Meloni ha sottolineato che questa destra «non è un incidente della storia» rivendicando le iniziative adottate in tre anni di esecutivo. Il premier ha poi toccato i temi di attualità e a proposito dell’equità fiscale rivendicata dall’opposizione ha scandito: «Non accettiamo lezioni da chi fa il comunista con il ceto medio e il turbo capitalista a favore dei potenti. Oggi il Pd si indigna perché gli Elkann vogliono vendere il gruppo Gedi e non ci sarebbero garanzie per i lavoratori però quando chiudevano gli stabilimenti di Stellantis ed erano gli operai a perdere il posto di lavoro, tutti muti. Anche Landini sul tema fischiettava». Non sono mancati i riferimenti ai temi caldi del centrodestra: immigrazione, riforma della giustizia, guerra in Ucraina ed Ue con il disimpegno di Trump e il Green Deal.
Sul palco anche i due vicepremier. «La mia non vuole essere solo una presenza formale, ma una presenza per riconfermare un impegno che tutti noi abbiamo preso nel 1994» ha detto il leader di Fi Antonio Tajani. «Ma gli accordi di alleanze fatte soprattutto di lealtà e impegno, devono essere rinnovati ogni giorno. La ragione di esistere di questa coalizione è fare l’interesse di ciascuno dei 60 milioni di cittadini italiani. E lo possiamo fare garantendo, grazie all’unità di questa coalizione, stabilità politica a questo Paese». Per il leader leghista Matteo Salvini “c’è innanzitutto l’orgoglio di esserci dopo tanti anni. Ci provano in tutti i modi a far litigare me e Giorgia. Ma amici giornalisti, mettetevi l’anima in pace: non ci riuscirete mai». Poi il ministro dei Trasporti ha assicurato che farà «di tutto» per avviare i lavori per il Ponte sullo Stretto, ha rilanciato sull’innalzamento del tetto del contante e sull’impegno anti maranza e infine ricordato come il governo stia facendo un buon lavoro nella tassazione delle banche.
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