2024-02-19
Antonio Catania: «La censura c’è, ma io l’ho beffata»
L’attore: «In “Boris” bisognava stare attenti a tutto quello che si diceva, però qualche scorrettezza è passata. Le polemiche sulle nomine nei teatri? La sinistra nella cultura ama tenere il pallino: se le sfugge, fa casino».È in tournée con C’eravamo forse amati. Ma non avevamo detto per sempre?, sul palco di numerosi teatri con Tiziana Foschi, regia di Antonio Pisu. Una commedia sulla difficoltà di dirsi addio, «con tante dinamiche che fanno ridere ma pure una buona dose di malinconia» e un finale che Antonio Catania non ci vuole svelare. La chiacchierata con La Verità - lo raggiungiamo al telefono tra una data e l’altra - avviene nelle settimane di attesa per la prossima serata degli Oscar, sarà agli inizi di marzo. Lui che fu nel cast di Mediterraneo, quella sera della statuetta del 1992 se la ricorda per filo e per segno, «e come dimenticarla».Partiamo dalle origini? Classe ’52, natali ad Acireale, provincia di Catania.«Un luogo ricco di voci e suoni, simili forse solo all’arabo. Dove vivevano personaggi bizzarri e io da bambino mi emozionavo con l’opera dei pupi di un grande artista, Emanuele Macrì. Ricordo una voce potente o suadente a seconda del personaggio, una gamma di vocalità infinita il cui tratto comune era l’accento siciliano».Fu il primo incontro con la recitazione. «Sì. E forse mi sono portato dietro dalla Sicilia anche l’ironia, e quella del catanese è simile a quella dei personaggi di Andrea Camilleri, poi “trasferiti ”a Vigata in un secondo momento».Gli studi di recitazione però furono dalla parte opposta della Penisola.«Mi trasferii a Milano con la famiglia che avevo 16 anni».Impatto con i lombardi?«Drammatico (ride, ndr) anche perché allora gli stranieri eravamo noi meridionali. In classe mi chiamavano “marocco”, per spiegargliela in breve. E al liceo Vittorio Veneto gli insegnanti erano tremendi, in particolare uno che credo mi bocciò appena mi vide la prima volta e poi ancora a settembre».Ha poi fatto pace con Milano?«In realtà devo tutto a Milano. La scoprii poi, negli anni Settanta, come un luogo di creatività, musica, offerte per i giovani che recitavano nelle piazze e nei centri sociali. Cambiai liceo, e poi mi presero alla scuola Paolo Grassi. Incontrai Gabriele Salvatores che mi chiese se volevo entrare nella compagnia del Teatro Elfo, ed è stato il nostro inizio: dieci anni di collaborazione».Con Salvatores poi il film da Oscar. Lo accompagnò quella notte a Los Angeles?«Partirono soltanto lui, Diego Abatantuono, il produttore Gianni Minervini e Cecchi Gori. Noi del cast - indimenticabile, eravamo molto legati - eravamo tutti raggruppati in uno studio dell’allora TelePiù, ad aspettare». Ci speravate?«Ma figuriamoci, una cosa come l’Oscar è come vincere alla lotteria. Anche se a posteriori ho ripensato di quando a Toronto - dove ero stato a presentare il film con Giuseppe Cederna - trovai un’accoglienza bellissima da parte di persone di etnie diverse, dagli italiani, ai turchi, ai libanesi. Una particolare alchimia, dettata anche dal fatto che agli americani piace immaginarci un po’ come eravamo un tempo, con nostalgia forse».E quando arrivò la proclamazione?«Ricordo il brindisi, e la festa grande, infinita. E ricordo anche il commento di Gabriele, che si sentiva indegno di un premio così importante e parlava di Lanterne rosse come un film che forse avrebbe meritato di più. E noi a dirgli: ma che ci importa dei caos della Cina, abbiamo vinto».Siete rimasti amici, con Salvatores?«Sì, e proseguiamo con il sodalizio professionale: sono nel cast anche del suo ultimo film, che uscirà a breve: Napoli-New York, con Pierfrancesco Favino».Quest’anno è Io capitano di Matteo Garrone il candidato dell’Italia al miglior film internazionale.«A proposito di alchimie. Trattando di argomenti sensibili bisognerà vedere come gira all’Academy, forse se hanno forti sensi di colpa…».Classe 1952, troppo presto per i bilanci?«Eccome se ne è tempo».Gli incontri migliori, oltre a Salvatores?«Dico subito Ettore Scola, per cui nutro un particolare affetto. Fu l’incontro con il cinema di una volta, con tante settimane di lavorazione e la calma che i budget di oggi non concedono. Lavorai con Sordi, Morricone - uomo di grande autorità e mestiere - Giannini, Vittorio Gassman, Stefania Sandrelli…».E poi?«Leone Pompucci è un regista che ho sempre adorato, geniale e forse sottovalutato. Carlo Mazzacurati, personalità importante sia nel contenuto che nella sceneggiatura. Con Carlo Verdone e Aldo Giovanni e Giacomo mi sento a casa. Impossibile dirli tutti: sono stato fortunatissimo nella mia vita non solo professionale».Lavoro singolarissimo, quello dell’attore, ma sembra ci sia una coralità, nell’ambiente.«È così, sì».In qualche articolo la definiscono un caratterista. Le calza?«Sinceramente mi sta stretto. È una parola che deriva dall’inglese, e prevede che tu proponga sempre te stesso. Pur se stimo molto i grandi caratteristi della storia del cinema, da Gigi Ballista a Carlo Pisacane, a Nino Taranto».Rimpianti? Errori?«Quello dell’attore è un mestiere in cui si guarda poco indietro e le occasioni perse spesso non sono perse per colpa tua. Potrei nominarne qualcuno, dei registi bravi con cui vorrei lavorare, ma nel momento in cui non ti chiamano occorre farsene una ragione».In carriera anche la tv, con Boris. L’esempio di quando la comicità batte il politicamente corretto?«Bisognava stare attenti a tutto, perché c’era un controllo da parte della piattaforma di streaming, e ci dicevamo spesso di non sbagliare. Ma qualcosa è passato inosservato». Per esempio?«C’è una scena in cui ho un colloquio con un cinese, per fargli un contratto, e gli chiedo in che ristorante lavori. Al suo “non ho un ristorante” la mia faccia eloquente è quella di chi non ci crede manco per sbaglio. Una scena - se vuole - di un razzismo impressionante, ma visto che mancava la battuta ed era solo espressività forse ai censori è sfuggita».Lo scorretto fa più ridere?«Ed è liberatorio. Si esagera pure nelle favole, no? Certo, occorre sempre il rispetto e forse pure adeguarsi ai tempi, non passare per positivi dei contenuti negativi, ma pur di suscitare una risata…».Il palco e il sipario restano una sua passione. Gode di buona salute?«A Roma non molto, purtroppo. Forse a Milano va meglio, ma nella Capitale tanti hanno chiuso e c’è la questione delle nomine che fa arrabbiare molti. Peccato, perché spesso è gente di mestiere e in grado di fare il lavoro per cui è stata nominata». E invece si intromette la politica?«Che vuole che le dica, a sinistra amano tenere il pallino e se sfugge fanno casino. Peccato, perché il teatro Argentina ad esempio è in crisi e l’unica cosa importante è dargli un futuro». Normale che la politica si immischi nella cultura? «Così è, la definirei una sorta di risacca. In carriera ho fatto il cabaret con Claudio Bisio e la politica noi non la trattavamo, ma ho lavorato al fianco di Paolo Rossi che invece di Berlusconi ne ha dette, come si sa, di tutti colori. E non solo lui. Ma Berlusconi si prestava, non lo immaginavo certo contento, ma sono certo che essendo di grande spirito e in qualche modo artista a suo modo, non si è quasi mai offeso per davvero».Occorre che l’arte critichi?«Fin dai tempi delle corti, il giullare critica il principe, critica il potere. È insito nella satira. Oggi di materiale ce n’è, e tanto, per scatenarsi, ma pure la sinistra di bacchettate ne ha prese, eh. Anche se non so bene cosa significhi ora dire “sinistra” visto che non mi pare sia quella parte politica che sta dalla parte degli operai, né delle questioni sociali, se non a parole». Poi però ci sono le poltrone.«Ah in quel caso ho visto tante trattative: basta pareggiare. Si mettono d’accordo sempre».Tra attori di politica ne discutete?«Evito, perché ciascuno ha le sue idee e si finisce per litigare come tra me e Abatantuono per Inter - sono un tifoso - e Milan. Ricordo quella volta che lavorai però con Dario Fo e fu Repubblica a criticarci con asprezza».In che occasione?«Spettacolo teatrale Sotto paga! Non si paga!, correva l’anno 2008 e con me c’era Marina Massironi. Una commedia, nella quale una coppia che faticava ad arrivare alla fine del mese decideva di pagare una cifra ritenuta da loro giusta al supermercato. Io facevo il bacchettone, che considerava la cosa delinquenziale, e Marina la rivoluzionaria. Ma nel finale la commedia diventava un comizio, e cambiava ogni volta: la scena me la mandava Dario Fo per fax sulla base dell’attualità».Esperienza strana, quella di un finale ogni giorno diverso?«Ero convinto che fosse uno spettacolo divertente, ma scrissi a Fo che quel finale rischiava di trasformarsi in farsa. Perché lasciava un po’ di amaro in bocca, era roba quasi da Brigate rosse certi giorni».Come andò con il pubblico?«Fu un grande successo soprattutto tra i giovani, sia a Milano allo Strehler che dovunque lo abbiamo portato. Resto della mia idea, in fondo: è il pubblico che giudica, e occorre sempre saper giocare con le motivazioni dell’uno e dell’altro. Senza voler appendere manifesti».
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco