
Ci avevano detto che, con il presidente democratico, il 2021 sarebbe stato l’anno della rinascita americana. Raramente una profezia si è rivelata tanto miope e sbagliata. «Le scelte del gabinetto di Joe Biden inviano un messaggio chiaro: gli adulti sono tornati al comando», così titolava un articolo di Vogue America il 24 novembre del 2020. Tutti ricordiamo del resto come in quei giorni la stampa si sperticasse in elogi enfatici dell’allora presidente americano in pectore. Elogi che, laddove possibile, si sono fatti anche più intensi lo scorso 20 gennaio, in occasione dell’insediamento di Biden e Kamala Harris alla Casa Bianca. Se torniamo con la mente a quel giorno, gran parte dei giornali (internazionali e nostrani) preconizzava l’avvento di una nuova epoca, il ripristino della democrazia perduta, il ritorno dei «competenti» alla guida degli Stati Uniti. Peccato che tutta questa enfasi si sia rapidamente sciolta come neve al sole. Eh sì, perché, sin dalle sue primissime settimane di vita, la nuova presidenza americana ha cominciato a ritrovarsi invischiata in una serie di crisi che, nei fatti, non è ancora riuscita a risolvere. È quindi in questo senso che il 2021 può benissimo essere definito come l’annus horribilis di Joe Biden: un anno, cioè, scandito da crisi gravissime che, in appena 11 mesi, hanno fatto letteralmente colare a picco la popolarità del presidente e della sua vice. La crisi migratoria L’anno fiscale 2021 (conclusosi lo scorso 30 settembre) ha registrato un numero record di arrivi al confine meridionale degli Stati Uniti: un aumento significativo che ha avuto inizio a partire dalla metà di gennaio 2020, pochi giorni prima, cioè, dell’insediamento di Biden. Secondo quanto riferito dal Washington Post a fine ottobre, le autorità hanno complessivamente arrestato 1,7 milioni di clandestini: un cifra che ha toccato «i livelli più alti mai registrati». Uno dei fattori che hanno portato a questa situazione risiede nella retorica elettorale aperturista adottata da Biden nel corso del 2020: una retorica che ha alimentato le speranze di molte persone soprattutto in Centro America. La gestione della frontiera è quindi ben presto diventata una spina nel fianco del presidente, che si è ritrovato assediato dai repubblicani e dalla sinistra del suo stesso partito. Se i primi lo accusano di incapacità, la seconda lo taccia di scarsa discontinuità rispetto alle politiche di Donald Trump. Il risultato è stata una linea ondivaga che ha aggravato il problema, contribuendo ad azzoppare la popolarità di Biden. La crisi sanitaria Biden aveva fatto campagna elettorale sostenendo di essere la persona migliore per sconfiggere il Covid-19. Effettivamente va detto che, durante i primissimi mesi di presidenza, la campagna vaccinale negli Stati Uniti procedesse a passi spediti. Poi però qualcosa si è incagliato. E Biden, anziché correre ai ripari, ha iniziato un’intensa attività di scaricabarile. Prima ha accusato Facebook di favorire la diffusione di fake news sui vaccini. Poi se l’è presa con quei governatori repubblicani che – pur essendo vaccinati e avendo esortato i loro cittadini a vaccinarsi – sono tuttavia contrari agli obblighi vaccinali. Il risultato è che la campagna complessiva al momento è su numeri non esaltanti, mentre la Casa Bianca si è ritrovata irretita in un elevato numero di ricorsi legali contro gli obblighi vaccinali che ha imposto. Una situazione di sostanziale stallo, che certo stride con le promesse elettorali di Biden. La crisi afgana La caduta di Kabul, lo scorso 15 agosto, ha rappresentato uno spartiacque per la presidenza Biden. La gestione disastrosa dell’evacuazione è infatti alla base della crisi di popolarità in cui è piombato l’attuale presidente americano. Ma il problema è più profondo e più grave dei soli sondaggi. La crisi afgana ha infatti dimostrato che l’amministrazione americana sia internamente divisa e attraversata da pericolose disfunzionalità. Basti pensare al rimpallo di responsabilità tra il Pentagono e l’intelligence o allo scaricabarile verificatosi tra lo stesso Pentagono e il Dipartimento di Stato. Un caos che stride enormemente con l’immagine del governo di «competenti», gabellata per molto (forse troppo) tempo da parte di certa stampa. Teniamo tra l’altro presente che la crisi afgana implica anche (se non soprattutto) una crisi di leadership ai vertici della Casa Bianca. Senza poi trascurare che la caduta di Kabul, come un effetto domino, ha avuto – e continua ad avere – ripercussioni nocive su altri dossier (dall’Ucraina a Taiwan). La crisi energetica e della catena di approvvigionamento Uno dei problemi maggiormente rilevanti che Biden si è trovato ad affrontare è costituito dalla crescita dell’inflazione e dall’aumento del costo della benzina. Un nodo non di poco conto, che ha contribuito a danneggiare significativamente la sua popolarità. Un nodo che, tra l’altro, l’inquilino della Casa Bianca, ha cercato di risolvere in modo del tutto inadeguato. Ad agosto, ha infatti chiesto all’Opec allargato di aumentare la produzione di petrolio. Una mossa che ha procurato al presidente soltanto guai. Innanzitutto l’Opec stesso gli ha risposto picche. In secondo luogo, Biden è stato duramente criticato dagli ambientalisti, che lo hanno tacciato di incoerenza, visti i suoi proclami elettorali a favore del clima e di una riduzione degli idrocarburi. Dulcis in fundo: il presidente si è ritrovato assediato nuovamente dai repubblicani, che lo hanno accusato di mettere a repentaglio l’indipendenza energetica degli Stati Uniti. In tutto questo, la strozzatura della catena di approvvigionamento (che riguarda soprattutto i porti di Los Angeles e Long Beach) ha fatto schizzare i prezzi alle stelle, danneggiando i consumatori durante il Giorno del Ringraziamento.
L’aumento dei tassi reali giapponesi azzoppa il meccanismo del «carry trade», la divisa indiana non è più difesa dalla Banca centrale: ignorare l’effetto oscillazioni significa fare metà analisi del proprio portafoglio.
Il rischio di cambio resta il grande convitato di pietra per chi investe fuori dall’euro, mentre l’attenzione è spesso concentrata solo su azioni e bond. Gli ultimi scossoni su yen giapponese e rupia indiana ricordano che la valuta può amplificare o azzerare i rendimenti di fondi ed Etf in valuta estera, trasformando un portafoglio «conservativo» in qualcosa di molto più volatile di quanto l’investitore percepisca.
Per Ursula von der Leyen è «inaccettabile» che gli europei siano i soli a sborsare per il Paese invaso. Perciò rilancia la confisca degli asset russi. Belgio e Ungheria però si oppongono. Così la Commissione pensa al piano B: l’ennesimo prestito, nonostante lo scandalo mazzette.
Per un attimo, Ursula von der Leyen è sembrata illuminata dal buon senso: «È inaccettabile», ha tuonato ieri, di fronte alla plenaria del Parlamento Ue a Strasburgo, pensare che «i contribuenti europei pagheranno da soli il conto» per il «fabbisogno finanziario dell’Ucraina», nel biennio 2026/2027. Ma è stato solo un attimo, appunto. La presidente della Commissione non aveva in mente i famigerati cessi d’oro dei corrotti ucraini, che si sono pappati gli aiuti occidentali. E nemmeno i funzionari lambiti dallo scandalo mazzette (Andrij Yermak), o addirittura coinvolti nell’inchiesta (Rustem Umerov), ai quali Volodymyr Zelensky ha rinnovato lo stesso la fiducia, tanto da mandarli a negoziare con gli americani a Ginevra. La tedesca non pretende che i nostri beneficati facciano pulizia. Piuttosto, vuole costringere Mosca a sborsare il necessario per Kiev. «Nell’ultimo Consiglio europeo», ha ricordato ai deputati riuniti, «abbiamo presentato un documento di opzioni» per sostenere il Paese sotto attacco. «Questo include un’opzione sui beni russi immobilizzati. Il passo successivo», ha dunque annunciato, sarà «un testo giuridico», che l’esecutivo è pronto a presentare.
Luis de Guindos (Ansa)
Nel «Rapporto stabilità finanziaria» il vice di Christine Lagarde parla di «vulnerabilità» e «bruschi aggiustamenti». Debito in crescita, deficit fuori controllo e spese militari in aumento fanno di Parigi l’anello debole dell’Unione.
A Francoforte hanno imparato l’arte delle allusioni. Parlano di «vulnerabilità» di «bruschi aggiustamenti». Ad ascoltare con attenzione, tra le righe si sente un nome che risuona come un brontolio lontano. Non serve pronunciarlo: basta dire crisi di fiducia, conti pubblici esplosivi, spread che si stiracchia al mattino come un vecchio atleta arrugginito per capire che l’ombra ha sede in Francia. L’elefante nella cristalleria finanziaria europea.
Manfred Weber (Ansa)
Manfred Weber rompe il compromesso con i socialisti e si allea con Ecr e Patrioti. Carlo Fidanza: «Ora lavoreremo sull’automotive».
La baronessa von Truppen continua a strillare «nulla senza l’Ucraina sull’Ucraina, nulla sull’Europa senza l’Europa» per dire a Donald Trump: non provare a fare il furbo con Volodymyr Zelensky perché è cosa nostra. Solo che Ursula von der Leyen come non ha un esercito europeo rischia di trovarsi senza neppure truppe politiche. Al posto della maggioranza Ursula ormai è sorta la «maggioranza Giorgia». Per la terza volta in un paio di settimane al Parlamento europeo è andato in frantumi il compromesso Ppe-Pse che sostiene la Commissione della baronessa per seppellire il Green deal che ha condannato l’industria - si veda l’auto - e l’economia europea alla marginalità economica.




