
La Bibbia rivela di che cosa erano ghiotti i putti, un cibo tradotto in diverse ricette dolciarie che dà pure il nome a un protagonista delle abbuffate natalizie: il pandoro. Una leggenda narra che sia stata la sorella di Mosè a inventare la cottura «a bagnomaria».Gli angeli, in cielo, mangiano? E se sì, cosa mangiano? La risposta è nella Bibbia al salmo 78, versetti 24 e 25: il salmista glorifica la fedeltà e la pazienza di Jahvè verso il popolo che ha fatto uscire dalla schiavitù dell’Egitto. Il quale popolo, nonostante abbia visto il mare dividersi in due per farlo passare, teme di morire di fame nel deserto e mormora contro Mosè. C’era di che arrabbiarsi e difatti Dio si arrabbiò, ma poi fece piovere la manna dal cielo. L’autore del salmo riferisce: «L’uomo mangiò il pane degli angeli, diede loro cibo in abbondanza».Gli angeli, dunque, mangiano pane. E, se proprio non lo mangiano, lo impastano, lo infornano e lo distribuiscono gratis anche agli ubbiosi. Sono i fornai del panificio celeste. Salomone, nel libro della Sapienza, precisa: «Sfamasti il tuo popolo con il cibo degli angeli, dal cielo offristi loro un pane già pronto senza fatica». Al mattino il pane e alla sera carne di quaglia.Sul «pane degli angeli» teologi, scienziati, storici, rabbini, credenti, dubbiosi e non credenti discutono da migliaia di anni senza arrivare a una comune conclusione. E mentre loro discutevano e ancora discutono sull’aspetto spirituale, sull’incorporeità degli angeli, su metafore, significati e significanti, i golosi, laicamente più disponibili alla fede cieca, sono arrivati a interpretare la ricetta del pane angelico traducendola in una torta fatta con zucchero, burro, uova, vanillina. È nata così, anche grazie all’aiuto pubblicitario di una nota ditta produttrice di lievito, la torta Pane degli angeli.È pur vero che anche tra i gastronauti non mancano discussioni: c’è chi contrappone quella degli angeli con la Torta del paradiso (uova, burro, farina, fecola di patate, zucchero a velo, buccia di limone grattugiata). Altri sfornano i Biscotti degli angeli, altri ancora già pregustano le natalizie Stelle degli angeli fatte di pastafrolla. Sul tema, anche gli americani dicono la loro: gli spiriti alati mangiano l’Angel cake, un ciambellone made in Usa soffice, spugnoso, fatto di soli albumi, che uscì per la prima volta dai forni yankee all’inizio dell’Ottocento.Anche a Verona c’è una versione del «pane degli angeli»: è il pan de oro, il pandoro. Gli scaligeri sono talmente sicuri che nel loro dolce di Natale c’è un tocco angelico che, in una scommessa, si giocherebbero l’Arena. Un veronese, Giorgio Gioco, poeta e indimenticabile cuoco del ristorante 12 Apostoli, maestro di Giancarlo Perbellini, chef tristellato attuale padrone del locale, ricopriva la fetta di pandoro con un’abbondante cucchiaiata di zabaione. «Così», assicurava, «il pandoro diventa celestiale e gli angeli lo gradiscono ancor più». Anche perché lo zabaione, crema preparata con tuorli, zucchero e vin santo (ma anche il Marsala va benissimo), profuma di santità.Una leggenda racconta che lo zabaione fu creato da un fraticello francescano spagnolo vissuto nel Cinquecento, illetterato ma dotato di scienza infusa e destinato agli onori dell’altare: San Pasquale Baylòn. A Torino, lo zabaione fu introdotto 500 anni fa. I pasticcieri elessero subito San Pasquale a loro patrono e chiamarono crema di San Baylon la dolce salsa. Da qui a Sambajon, come viene tuttora chiamato in Piemonte (e in Spagna) e poi a zabaione, il passo è breve come dalla lingua al palato. Non solo pane, però. Nei libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, dalla Genesi all’Apocalisse di Giovanni ci sono tanti di quei cibi da riempire le dispense di qualche ordine conventuale: dal pesce di Tobiolo accompagnato dall’arcangelo Raffaele al vitello grasso del figliol prodigo; dalle focacce e dal vitello con panna e latte che Abramo offre ai tre ospiti misteriosi alla zuppa di lenticchie di Esaù; dal banchetto in casa di Levi al vino delle nozze di Cana. E ancora: erbe amare, semi, frutti, capre, pecore, agnelli, volatili, pesci arrostiti del lago di Tiberiade, perfino cavallette e miele selvatico di Giovanni il Battista. La Bibbia non suggerisce solo cibo, ma anche i modi per cuocerlo: braci, forno, spiedo, lesso.In Ezechiele (capitolo 24), Dio suggerisce al profeta una parabola dove, tra l’altro, dice: «Metti su la pentola, mettila e versaci acqua. Mettici dentro i pezzi di carne, tutti i pezzi buoni, la coscia e la spalla e riempila di ossi scelti; prendi il meglio del gregge. Mettici sotto la legna e falla bollire molto, sì che si cuociano dentro anche gli ossi». Una leggenda attribuisce a Maria (Miriam in ebraico), sorella di Mosè e di Aronne, l’invenzione della cottura a bagnomaria. Non c’è cuciniere o casalinga, cuoca o cuoco, lavapiatti o chef che non conosca questo metodo di preparare le vivande evitando ai cibi e agli ingredienti delicati di subire stress termici: basta mettere il recipiente con l’alimento in un altro più capiente contenente acqua mantenuta calda dal fuoco. La cottura della vivanda nella pentola più piccola avviene in modo lento e omogeneo, senza sbalzi di temperatura.Ma la Maria del bagnomaria è davvero la sorella di Mosè? No, la Bibbia al proposito non dice niente. La leggenda è altomedioevale. È più credibile una seconda versione, che parla di un’altra donna israelita vissuta nel tardo impero romano: Maria l’ebrea o Maria la giudea, donna realmente esistita. Questa Maria era un’alchimista che nei suoi esperimenti usava metodi e strumenti creati da lei. Maria l’ebrea non aveva inventato la cottura a bagnomaria per cucinare, ma per miscelare sostanze chimiche con la speranza di realizzare il sogno di tutti gli alchimisti: ottenere l’oro filosofale. L’alchimista non vide mai comparire il giallo metallo nei suoi pentolini, ma ci lasciò comunque un tesoro: la cottura a bagnomaria, oggi molto usata in cucina, in pasticceria per preparare zabaioni, gelatine, budini e altre leccornie e nelle liquorerie per ottenere, tramite gli alambicchi, grappe e distillati.Maria non è stata la sola a consegnare il proprio nome al vocabolario della gastronomia. La storia della tavola è ricca di personaggi celebri e di illustri sconosciuti che hanno ceduto il loro nome a un piatto, una salsa, un metodo di cottura. Qualche nome straniero è di uso talmente comune da essere diventato più italiano dei corrispondenti sinonimi italiani. Un esempio? Eccone uno che conoscono anche i bambini dell’asilo: il buffet.Se si vuole avere un folto pubblico a un convegno politico, a un noiosissimo incontro culturale o a un dibattito sull’arte in Patagonia, bisogna scrivere sul biglietto d’invito o sui manifestini che alla fine dell’evento (sono tutti eventi) «sarà offerto un buffet». Chi scrive «sarà offerta una credenza» o «una dispensa», sono sinonimi di buffet, troverà la sala desolatamente vuota. È vero che anche il rinfresco (altro sinonimo) attira, ma è moderato. Volete mettere un buffet? Basta il nome per vedere apparecchiate tavole di panini, pizzette, tartine, patatine fritte, fette di crudo e scaglie di parmigiano. Per non parlare delle colazioni a buffet allestite in alberghi e hotel per aree: qui le bevande calde e fredde, là il pane di vari tipi e focacce, torte, salumi, formaggi e uova, brioches di almeno tre tipi, cereali, frutta, insalate, pan cake, salmone affumicato… Per tutto questo bendidio a portata di polpastrelli, i ghiottoni ringrazino Pierre Buffet, cuoco di Francesco I re di Francia. Fu lui a inventare il self service nella prima metà del Cinquecento per favorire i pasti del sovrano, lontano dalle comodità e dalla cucina di palazzo durante i lunghi trasferimenti o nelle campagne di guerra. Buffet aveva ideato una grande cassa all’interno della quale sistemava vasellame e vivande. Una volta preparato il pranzo, la cassa diventava una tavola sulla quale erano esposti i vassoi con i cibi dai quali le auguste mani del re prima e quelle dei cortigiani poi, attingevano i bocconi migliori.
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