2024-09-09
Andrea Venanzoni: «Ci vogliono imporre la verità di Stato»
Il giurista Andrea Venanzoni: «Col pretesto della lotta alle fake news, le autorità politiche puntano a impartire ai social direttive stringenti sulla rimozione di contenuti sgraditi. Tanti presunti liberali aspirano a silenziare il dibattito».Andrea Venanzoni salto a piè pari ogni riferimento al caso Sangiuliano-Boccia. Credo ne abbiamo tutti abbastanza. Ed in quanto giurista, saggista e soprattutto opinionista anarco-libertario le chiedo subito qualcosa sulla censura che scorre potente sui social ormai da tempo. Tema enormemente più serio...«Concordo, come no!».Interessa le piattaforme più diverse (da Telegram ad X passando per Facebook) ed in ogni parte del mondo (Europa, Usa e Brasile, solo per limitarsi ai casi più recenti). Viviamo davvero in un villaggio globale. Tutto il mondo vuole mettere le mani sui social network.«Domanda da saggio monografico. Le piattaforme sono diverse (messaggistica, blogging e microblogging). Aggiungiamoci Amazon che un social non è. Per volumi finanziari ed interconnessioni globali, questi soggetti vanno incontro ad una sorta di quasi “statizzazione”. Espressione su cui molti esperti concordano e che personalmente uso da tempo. Nessuna banca e nessuna assicurazione potrebbero mai competere quanto a mole di dati posseduti. Lo Stato italiano durante la pandemia ha dovuto scendere a patti con Google ed Apple perché la app Immuni si sincronizzasse sui vari smartphone».Ecco perché i social fanno gola.«Potere finanziario, conoscenza, dati. Ma soprattutto veicolano e plasmano l’opinione pubblica. Ricorderà lo scandalo Cambridge Analytica in cui i profili su Facebook venivano profilati in maniera illegale. O la pittoresca Operazione Narvalo in cui Obama effettuava una profilazione legale ed analitica dei tanti account Facebook a mezzo di un algoritmo».Un peso politico enorme. «Su più direttrici. Indirizzano da un lato il dibattito pubblico. Prenda il caso di X, già Twitter. Un’enorme Public Square dove ti capita di dialogare con la rockstar o il grande scrittore. Discussioni che sono materiale per i giornali del giorno dopo. Inoltre, le piattaforme finiscono poi per sviluppare una loro agenda politica. Ed io qui tendo a scindere la figura del ceo o dell’azionista (molto coreografate e pittoresche talvolta) dalla struttura che governano. Non sono affatto sicuro che Mark Zuckerberg sia un progressista. Ma poco importa. Perché la struttura fatta di dirigenti, quadri, programmatori, moderatori ha a che fare con le amministrazioni pubbliche, che impartiscono direttive stringenti sull’eventuale rimozione dei contenuti».Quando Twitter bannava Trump in molti giustificavano la cosa dicendo: «Sono compagnie private. Sei in casa loro e devi adeguarti». La lettera scritta da Zuckerberg ci conferma però che queste compagnie private agivano su input del potere politico.«In Italia la giurisprudenza si è espressa, così come avevano fatto prima molti accademici. Ma questi in pochi se li filano se non quando diventano appariscenti e flamboyant. I social non sono un giardinetto privato per cui il proprietario può fare ciò che vuole. Il Tribunale di Roma - sezione imprese - si è espresso dando ragione a CasaPound che era ricorsa contro la chiusura del suo profilo da parte di Facebook. A differenza di Forza Nuova, che si vide soccombere e che oggettivamente postava contenuti pesanti, CasaPound utilizzava il profilo in maniera statica come vetrina per i propri eventi e contenuti. Si vide dare ragione perché la chiusura interferiva non solo con l’applicazione dell’articolo 21 della Costituzione - riguardante la libertà di espressione - ma pure con l’articolo 49 che sancisce il valore costituzionale del partito in quanto tale in Italia».Orientamento generalizzato anche a livello internazionale?«In America non proprio. Il primo emendamento stabilisce paletti forti e cogenti a tutela della libertà di espressione. Ma la norma si applica storicamente soltanto nei rapporti fra un soggetto privato da una parte e l’amministrazione pubblica dall’altra. Non si arriva cioè a stabilire la natura semi pubblicistica di queste piattaforme». L’asimmetria rimane. Loro ti chiudono con un click. Tu devi andare per avvocati e tribunali a farti dare ragione!«Il paradosso è questo. Anche l’Unione europea non arriva a definire i requisiti di ammissibilità dei contenuti all’interno dei social. Ma di fatto impone l’applicazione di codici di autoregolamentazione interna, le cosiddette policy, di cui la piattaforma deve dotarsi affinché il ceo non faccia la fine di Durov. Ma questo inevitabilmente comporta la cosiddetta esternalizzazione di funzioni in favore di questi soggetti privati. Non è più il Tribunale ad ordinare la rimozione dei contenuti, ma il proprietario stesso del social network. E questo ha un impatto sulla formazione dell’opinione pubblica. I social si dotano cioè di strumenti e pratiche (quali il supervisory board, che esamina ed effettua la cosiddetta content moderation) che hanno un valore segnaletico nei confronti dell’amministrazione pubblica».A proposito di Unione europea, il cosiddetto Digital Service Act che norma è?«Da giurista posso dire che ci stava un certo tipo di processo normativo, visto che comunque l’Ue è un mercato importante; anche se per estrazione libertaria io avrei declinato la cosa in chiave antitrust. Il Digital Service Act per certi aspetti si incastra con il Gdpr, vale a dire il cosiddetto codice privacy. La criticità più forte che io vedo, però, è nella sua finalità esplicita. Il contrasto alle cosiddette fake news. Ma cosa è una fake news?».Il titolo di Repubblica in prima pagina sull’abolizione dell’assegno unico, io direi…«Ginevra Cerrina Feroni, vicepresidente dell’autorità sulla protezione dei dati personali e costituzionalista autorevole, evidenziava come fosse un concetto a geometria aperta e che rischiava di farci incamminare lungo una china potenzialmente sdrucciolevole. La stessa Commissione Ue non ha adottato la definizione di fake news che aveva fatto propria alcuni anni prima. Quella di “notizia falsa, imprecisa e fuorviante”. Concetto semanticamente significativo, ma indefinibile da un punto di vista giuridico. E comunque si torna al punto di partenza di cui parlavamo prima. Si delega la decisione ad un soggetto esterno. E questo ha un grande impatto sulla libertà di espressione».Ai tempi di Barack Obama e Matteo Renzi in camicia bianca e così bravi a gestire la comunicazione, i social network erano fichissimi. Dopo Brexit e Trump invece sono un rischio per la democrazia per dirla alla Gentiloni…«Solito doppio standard morale perché hanno scoperto la rilevanza politica delle piattaforme social nel momento in cui gli avversari sanno usarle meglio di loro. Si ritorna all’impalpabilità della definizione di fake news».Il calciomercato? Cosa di più falso in tanti articoli in proposito?«Qualcuno potrebbe contestare che non hanno una rilevanza sistemica, ma molte società sono quotate in borsa e le voci di mercato hanno un impatto sui titoli quotati. Lo storico francese Marc Bloch -resistente francese fucilato dalla Gestapo - scriveva come le false notizie ed il loro utilizzo tendenzialmente distorto - ovvero veicolato in maniera capziosamente e strumentalmente distorto - lo fa prima di tutto il potere pubblico. Le fake news sono la verità di Stato che fa il gioco dello status quo. Io monitoro con attenzione molti progetti di legge fortunatamente giacenti in Parlamento. Dico fortunatamente perché sono lì e non vanno avanti. Uno, il più clamoroso, del 2017 proposto dalla montiana Scelta Civica proponeva l’istituzione di nuovi reati. E dava poteri forti e cogenti ad autorità esistenti o nuove per stabilire ciò che fosse vero e ciò che non lo era».Scelta Civica, preclaro esempio di forza talmente «autenticamente liberale» che propone cose che vanno bene anzi benissimo ai veri comunisti…«La cosa non mi ha mai stupito. Tecnici e presunti liberali prestati alla politica sono fautori di questa regolazione e di queste derive pan-penalistiche. Proporre cioè nuovi reati per fronteggiare le emergenze ed andare sui giornali. In maniera latente e larvata c’è sempre quell’aspirazione a decretare la verità di Stato silenziando il dibattito».Infine, veniamo all’arresto in Francia del proprietario di Telegram Durov. Cosa non torna? «I giuristi dovrebbero essere abituati a leggere soprattutto le carte. E qui di carte ne abbiamo viste poche. Giusto il comunicato del 26 agosto. Data a suo modo storica, perché coincide con la lettera con cui Zuckerberg ha rivelato le pressioni ricevute dall’amministrazione americana affinché Facebook censurasse alcuni contenuti. Le contestazioni si rifanno all’estensione di una responsabilità penale “oggettiva”. Il che in termini di diritto penale liberale è un abominio. Decideranno ovviamente gli organi giudicanti e non inquirenti. Non stiamo cioè parlando di un’omissione da content moderation Ma di una vera e propria accusa di complicità per reati aberranti come pedopornografia e terrorismo. Una cosa simile stava per essere fatta in America al ceo di Apple Tim Cook nel 2016. Ciò che qualifica sistemi o piattaforme come quelli di Apple e Telegram non è tanto il sistema di cifratura in sé delle comunicazioni end to end, quanto l’esplicita volontà di non collaborare con gli Stati. Cosa che la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo lo scorso 13 febbraio ha definito essere un valore aggiunto. Che aria tira lo si capisce sempre quando si evocano reati abominevoli come pedopornografia».Chi mai si sognerebbe di difendere lo stato di diritto per un pedofilo?«Come scrivo nel mio saggio Pornoliberismo, la pedofilia è il reato perfetto per scatenare la riprovazione sociale da cui deve scaturire il superamento della civiltà liberale».
L'ex procuratore di Pavia Mario Venditti (Ansa)
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