2024-01-17
Ora anche la Shell abbandona il Mar Rosso
Il colosso petrolifero britannico dice addio alla rotta che passa per il Canale di Suez. Un problema enorme: probabile un’impennata dei prezzi (non solo del greggio). Finalmente si muove pure Bruxelles: via libera a missione navale europea per fermare gli Huthi.Intanto l’Iran lancia missili su Siria e Iraq: «Abbiamo colpito una base del Mossad».Lo speciale contiene due articoli.Petrolio greggio e carburante. Trasportano soprattutto questo le navi che attraversano il Mar Rosso. Bab al-Mandab, o porta delle lacrime, è la rotta più importante e trafficata del mondo ma adesso, giorno dopo giorno, sono sempre meno i cargo che la navigano a causa degli scontri innescati dagli Huthi, i ribelli yemeniti. Il traffico di navi container attraverso la foce del Mar Rosso nella prima settimana di gennaio è diminuito del 90% rispetto all’anno precedente. Le linee di trasporto container hanno iniziato a deviare verso la rotta del Capo di Buona Speranza già alla fine di novembre, quando sono iniziati gli attacchi. Tra gli abbandoni più importanti, quello di QatarEnergy. Il secondo esportatore mondiale di gas naturale liquefatto ha smesso di inviare navi cisterna. Non è il primo. E adesso anche il colosso petrolifero britannico Shell ha sospeso tutte le spedizioni a tempo indeterminato. Secondo il Wall Street Journal, che ha dato la notizia, ci sarebbe il forte timore di un’improvvisa escalation. Un’escalation che Gran Bretagna e Stati Uniti vogliono evitare a tutti i costi. L’11 gennaio i Navy seal statunitensi, supportati da aerei, elicotteri e droni, hanno abbordato un’imbarcazione vicino alla costa della Somalia nelle acque internazionali del Mar Arabico e hanno sequestrato missili e componenti di fabbricazione iraniana che avrebbero dovuto rifornire le milizie Huthi dello Yemen. Tra le armi sequestrate anche missili da crociera: lo stesso tipo usato dagli Huthi per attaccare navi commerciali nel Mar Rosso. Si tratta del primo sequestro di armi convenzionali avanzate letali fornite dall’Iran agli Huthi yemeniti dall’inizio degli attacchi a navi cargo nel Mar Rosso, da novembre 2023. «È chiaro che Teheran continua a inviare aiuti letali agli Huthi. Questo è un altro esempio di come l’Iran semini attivamente instabilità in tutta la regione in diretta violazione della risoluzione 2216 sulla sicurezza delle Nazioni Unite e del diritto internazionale», ha dichiarato il generale Usa Michael Erik Kurilla, «continueremo a lavorare come partner regionali e internazionali per denunciare e interdire questi sforzi e, in definitiva, ristabilire la libertà di navigazione». Anche l’Europa dopo un iniziale attendismo ha deciso di intervenire. Ieri gli Stati membri dell’Unione europea hanno dato un via libera iniziale alla creazione di una missione navale per proteggere le imbarcazioni dagli attacchi dei ribelli Huthi. L’obiettivo dichiarato è quello di istituire la missione entro il 19 febbraio al più tardi, per farla diventare operativa subito dopo. La missione opererà in coordinamento con altri partner nella regione come parte degli sforzi per fermare le interruzioni della rotta commerciale. Infatti tra i 27 sembra esserci un ampio consenso sulla necessità di agire «in modo rapido e pragmatico» per garantire la navigazione nel Mar Rosso e contrastare le azioni degli Huthi. Ora si chiederà al Gruppo politico-militare di fornire le sue «raccomandazioni» e al Comitato militare dell’Ue di fornire «al più presto» le indicazioni militari sul concetto di gestione della crisi. Sulla situazione nel Mar Rosso, Italia e Francia si sono confrontati con il ministro della Difesa, Guido Crosetto, e il suo omologo francese, Sébastien Lecornu, che insieme esprimono la volontà di «dare rapido impulso a una missione europea alla quale potrebbero partecipare anche Paesi non Ue che condividano l’importanza della libera navigazione e le cui rotte commerciali siano messe in pericolo dagli attacchi terroristici Huthi».Secondo alcuni analisti, gli Huthi starebbero ottenendo ciò che vogliono, ovvero «apparire come l’attore regionale più coraggioso quando si tratta di affrontare la coalizione internazionale, che è in gran parte a favore di Israele e non si preoccupa della popolazione di Gaza»: ne è certo Laurent Bonnefoy, ricercatore sullo Yemen a Sciences Po a Parigi, secondo cui le azioni dei ribelli «generano loro una qualche forma di sostegno, sia a livello internazionale che interno». Come lui, la pensa anche l’ex ambasciatore americano nello Yemen, Gerald Feierstein: «Un attacco statunitense (o di altri Paesi) contro obiettivi militari Huthi convaliderebbe, dal loro punto di vista, la loro propaganda secondo cui stanno combattendo in prima linea a sostegno dei palestinesi e le loro operazioni stanno riuscendo a minacciare gli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati».Intanto ieri un missile degli Huthi è riuscito a colpire la Zografia, una nave portarinfuse di proprietà greca battente bandiera di Malta, mentre navigava al largo delle coste dello Yemen. La nave avrebbe subìto lievi danni, hanno riferito fonti marittime all’agenzia di stampa Reuters. La stessa agenzia riferisce che gli Usa avrebbero reagito effettuando un nuovo attacco nello Yemen contro quattro missili balistici antinave dei miliziani. «Il mondo deve rifiutare l’idea che un gruppo come gli Huthi possa mettere in ginocchio il commercio mondiale», è stato il commento di Jake Sullivan, consigliere nazionale per la Sicurezza americano.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/anche-shell-abbandona-mar-rosso-2666971335.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-sauditi-vogliono-la-pace-a-gaza-disposti-a-riconoscere-israele" data-post-id="2666971335" data-published-at="1705433476" data-use-pagination="False"> I sauditi vogliono la pace a Gaza: «Disposti a riconoscere Israele» Nella notte tra lunedì e martedì, l’Iran ha bombardato in Siria e in Iraq. Le Guardie della rivoluzione hanno detto di aver colpito «obiettivi Isis» a Idlib e un «quartier generale del Mossad a Erbil». Pur nella drammaticità della situazione, si fatica a non sorridere a una notizia del genere, tanto è assurda, dato che i servizi segreti israeliani in quell’area non hanno certo strutture fisse, oltretutto riconoscibili. Detto questo, la Ong norvegese Hengaw su X ha scritto: «Durante l’attacco a Hawler (Erbil) almeno 5 civili, tra cui un bambino di 11 mesi, hanno perso la vita e molti altri bambini sono rimasti feriti». Mentre in Siria pare non ci siano state vittime. Le Guardie della rivoluzione, nella bufera per non aver saputo prevedere l’attacco dello Stato islamico dello scorso 3 gennaio a Kernan, che ha causato 103 vittime e 211 feriti, hanno affermato di avere lanciato 24 missili: 13 contro Idlib dalla provincia sudoccidentale iraniana del Khuzestan e gli altri 11 contro Erbil. Gli Stati Uniti hanno condannato gli attacchi, definendoli «irresponsabili» e lo stesso hanno fatto la Germania e l’Iraq, e in tal senso bisognerà capire se e come ci sarà una risposta, dato che secondo Abc News, che ha parlato con una fonte locale, vicino al consolato americano a Erbil ci sono state diverse esplosioni «che hanno preso di mira otto obiettivi». La stessa fonte riferisce che non ci sarebbero state perdite umane tra le forze della coalizione o tra le forze Usa che, durante gli attacchi, hanno anche abbattuto tre droni vicino all’aeroporto di Erbil. Le Guardie della rivoluzione, all’agenzia statale Irna ripresa dai media iraniani, hanno annunciato con toni trionfalistici «la distruzione di un quartier generale delle spie e di gruppi terroristici anti-iraniani in alcune parti della regione con missili balistici». Non c’è dubbio che l’operazione dell’altra notte è una mossa sconsiderata degli iraniani che cercano (evidentemente) il definitivo allargamento del conflitto, operazione peraltro già in corso con gli Hezbollah e gli Huthi nel Mar Rosso. Ma qui è diverso perché i missili sono partiti dall’Iran e potrebbero superare la cosiddetta «linea rossa» di Washington. Se gli iraniani alzano il livello dello scontro, l’Arabia Saudita, pur sostenendo la causa palestinese, ieri in una mossa ha fatto «scacco matto». Il ministro degli Esteri saudita, Faisal Bin Farhan, durante un panel al World economic forum di Davos alla domanda «l’Arabia Saudita potrebbe riconoscere Israele come parte di un accordo più ampio dopo la risoluzione del conflitto palestinese?», ha risposto: «Certamente». Prima di lui, l’ambasciatore saudita nel Regno Unito, il principe Khalid Bin Bandar al-Saud, alla BBC ha fatto alcune importanti rivelazioni. Ad esempio, che poco prima degli attacchi omicidi di Hamas «un accordo di normalizzazione con Israele mediato dagli Stati Uniti era vicino». Poi al-Saud ha proseguito: «C’è un chiaro interesse nel perseguire questo obiettivo ma ciò richiederà che il conflitto finisca a Gaza. Un accordo era vicino, non ci sono dubbi. Per noi, il punto finale includeva niente di meno che uno Stato indipendente di Palestina. Quindi, anche se continuiamo a credere nella normalizzazione, andando avanti dopo il 7 ottobre, questa non avviene a scapito del popolo palestinese. A settembre eravamo vicini alla normalizzazione, quindi vicini a uno Stato palestinese. L’uno non viene senza l’altro». Dopo il «certamente» pronunciato da Faisal Bin Farhan è evidente che Mohammed Bin Salman vuole chiudere il conflitto partendo dal dialogo con Israele e si tratta di un fatto a dir poco epocale.
Jose Mourinho (Getty Images)