
Contatti, accordi ed endorsement: il neocolonialismo africano di Pechino passa dal petrolio di Tripoli. Contro Usa ed Egitto.Il bilancio si aggrava di ora in ora: ieri alle 15 era di 262 il numero di vittime della guerra civile libica, di cui 80 bambini. E mentre l'Europa guarda con apprensione al conflitto e alle decine di migliaia di sfollati pronti a bussare alle sue porte, qualcun altro, ben più lontano, ben più potente, studia attentamente le sue mosse. La Cina vuole piantare una bandierina rossa sulla Libia. E per riuscirci appoggia il legittimo governo del presidente Fayez al Serraj. Un interesse del Dragone nell'ex colonia italiana non deve certo sorprendere. Da anni è in linea con la politica espansionistica dei cinesi nel Continente. Il petrolio libico aiutava il febbrile fabbisogno del gigante asiatico già ai tempi di Muhammar Gheddafi, quando ben 36.000 cinesi vivevano nel Paese, principalmente impiegati nel settore dell'estrazione petrolifera. La caduta del Colonnello (che fu dolorosa per la Cina, e nel 2011 lo riprovò lo scoop del giornale canadese The Globe and Mail che raccontò l'offerta di enormi quantità di armi a un Gheddafi in difficoltà, contravvenendo all'embargo internazionale) rappresentò una battuta d'arresto. In attesa di vedere gli sviluppi nel Paese a noi vicino, il presidente Xi Jinping rafforzava l'espansione cinese in Sudan e poi Sud Sudan, in Algeria, a Gibuti (dove sta ampliando un'importante la base militare), in Mali e in molte altre aree. Una neocolonizzazione. Non per niente oggi si parla di Cinafrica. La sua politica dell'investire in zone ad alto rischio di instabilità ha pagato. Risorse naturali e influenza politica in cambio di investimenti e aiuti. Così nella corsa internazionale a coprire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti dopo la disastrosa politica estera del presidente americano Barack Obama, sono in vantaggio. Poi, nell'ultimo anno e mezzo, torna a pesare in Libia. Nel giugno 2018 nell'ambasciata cinese a Tripoli firma un accordo per 6 milioni di dollari in aiuti sanitari. In luglio il governo di unità nazionale libico firma una dichiarazione d'intesa per aderire alla Belt and road initiative (o Nuova via della seta) durante un summit sulla cooperazione sinoaraba (durante il quale il presidente cinese annuncia anche che fornirà 23 miliardi di dollari per progetti infrastrutturali, stabilità sociale e supporto umanitario in Siria, Yemen, Giordania e Libano). Nel febbraio 2019, alla Conferenza sulla sicurezza tenuta a Monaco di Baviera, c'è un incontro bilaterale tra Serraj e il consigliere di Stato cinese, Yang Jiechi, al termine del quale l'emissario di Xi dice che «Pechino è pronta a garantire stabilità nel Paese». Fondamentalmente cooperazione economica per aiutare nel processo di ricostruzione. Una cooperazione costante che ha portato, come primo impatto, a un enorme vantaggio dal punto di vista del fabbisogno energetico: le esportazioni di greggio dalla Libia alla Cina erano di 1,7 miliardi di barili nel 2017, nel 2018 sono saliti a più di 3,5. L'influenza cinese pesa certamente in chiave anti generale Khalifa Haftar, appoggiato da sauditi ed Egitto, che non vede di buon occhio l'espansionismo cinese in Africa. Come non lo vedono di buon occhio gli Stati Uniti, che non a caso - dopo essersi chiamati fuori - stanno tornando a far sentire il loro peso sulla questione libica proprio dalla parte dell'uomo forte della Cirenaica e dei suoi alleati (Russia, Egitto, Arabia Saudita e Francia). Pochi giorni fa, come La Verità ha raccontato, Donald Trump ha riconosciuto gli sforzi di Haftar «per combattere il terrorismo e mettere in sicurezza le risorse petrolifere del Paese». Una giravolta per alcuni, un vero e proprio tradimento per altri. Eppure la chiave anticinese - con cui si possono leggere tante scelte strategiche del presidente americano - ancora una volta potrebbe essere quella giusta.Anche perché - per completare la fotografia - Pechino sta iniziando a voler pesare pure dal punto di vista militare in Africa, dove sotto l'egida dell'Onu sono già presenti 2.500 soldati. Caschi blu impiegati in due operazioni delle Nazioni Unite, in Mali e Sud Sudan. Anche qui, non a caso, ovviamente. In Mali il Dragone ha infatti investito ingenti risorse nelle estrazioni minerarie, in Sud Sudan in petrolio: a oggi 3,5 miliardi di barili di greggio l'anno. Senza contare le infrastrutture (principalmente per trasportarlo) su cui ci sono crescenti investimenti. In un quadro come questo non sorprenderà sapere che presto, proprio in Sud Sudan ci saranno esercitazioni militari. Un modo per testare la capacità di pronto intervento dell'esercito di Pechino, che certo ha muscoli ma non esperienza.
Ansa
L’ateneo milanese forma e dà lavoro a tanti protagonisti delle inchieste sull’urbanistica. Ma chi insegna e progetta spesso approva pure i cantieri: un intreccio rimarcato dai pm.
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Ansa
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