2019-05-04
«Amo il cinema, ma non l’ambiente. Fabrizi è stato il mio unico amico»
Carlo Delle Piane, attore, 110 film all'attivo, festeggia 70 anni di carriera: «Non sempre sono stato apprezzato per quello che valevo. Ho rifiutato ruoli di scarsa qualità, vivendo momenti difficili. Mi hanno salvato i fratelli Avati».Lunedì prossimo, al teatro Quirino di Roma, ci sarà un piccolo grande evento. In vista del debutto dell'adattamento teatrale, in scena dal giorno dopo, non solo verrà riproiettato quel capolavoro che è Regalo di Natale - film cult sull'amicizia tradita, di rara maestria narrativa e di struggente amarezza - ma gli stessi attori (tranne Diego Abatantuono, assente giustificato) saranno sul palco con Pupi Avati, che lo scrisse e diresse: Gianni Cavina, George Eastman Alessandro Haber. E soprattutto Carlo Delle Piane, che prestò la sua strepitosa recitazione all'infingardo avvocato Antonio Santelia, un baro, una carogna che si nutriva di patate bollite, vincendo la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile al Festival di Venezia del 1986. Ho incontrato questo nostro grande attore - nato il 2 febbraio 1936 a Roma, 110 film all'attivo, l'ultimo due anni fa - nella clinica in cui ha scelto di dimorare da qualche tempo. Presente la moglie Anna Crispino, cantante e musicoterapeuta napoletana - conosciuta 11 anni fa, sposata nel 2013, ma con cui non ha mai convissuto - che lo accudisce amorevolmente e ha organizzato la grande serata in programma all'Auditorium di Roma il 17 maggio prossimo, per festeggiare i 70 anni di carriera di Delle Piane: «In verità era prevista per l'anno scorso, perché il debutto di Carlo è avvenuto nel 1948, ma causa problemi di salute, conseguenti all'ictus del 2015, siamo stati costretti a rinviarla». Innanzitutto come sta, Delle Piane?«Con qualche acciacchetto, una mezza bronchite, le ossa che ogni tanto fanno male. Ma sento che anche il mio coetaneo Silvio Berlusconi si barcamena con la salute. L'importante è resistere, resistere, resistere».Sarà un piacere rivederla in pubblico, in un'occasione così speciale.«Finché non ho incontrato Antonio e Pupi Avati, nessun regista mi aveva preso sul serio. Gli sono stato, sono e sarò sempre grato».A quando risale la vostra prima collaborazione?«Al film Tutti defunti...tranne i morti, che è del 1977 e in cui mi affidò il ruolo del protagonista Dante. Avevo 41 anni, e il nostro sodalizio ha segnato l'avvento della mia maturità artistica».Avati ha ricordato come lei, nella sua carriera, avrebbe meritato più premi, maggiore attenzione da parte di registi e produttori, sostenendo che all'estero questa doverosa considerazione l'avrebbe ottenuta.«Amo il cinema, ma non il suo ambiente. Non ho mai fatto parte di certi giri, frequentato determinati salotti, non ho mai coltivato le pubbliche relazioni, ho sempre pensato a far valere il mio merito attraverso il mio lavoro». Mai patiti torti o tradimenti, magari da qualche amico che tale era magari solo a parole, che poi è il tema di Regalo di Natale?«Onestamente, non sono stato sempre apprezzato da colleghi e registi per quello che valevo realmente. Ma non mi sono mai soffermato troppo a pensarci. Sarebbe stato uno spreco di energia, rimanere intrappolato nel risentimento, non ne valeva la pena. Potevo fare di più? Certo, ma questo non mi ha avvilito o demotivato. Ho sempre guardato avanti». L'ultimo film, nel 2017: Chi salverà le rose? di Cesare Furesi. Con altri due arzilli «ragazzi terribili», anagraficamente più anziani di lei: Lando Buzzanca, che è del 1935, e Philippe Leroy, classe 1930. «Bravi senza dubbio, ma non abbiamo legato fuori dal set. Splendida invece l'intesa con Furesi, mi piacerebbe avere la possibilità di lavorare ancora con lui».Esordio nel 1948, scelto da Vittorio De Sica come Garoffi, il «traffichino» del Cuore deamicisiano. Una cavalcata lunga 70 anni, non so quanti altri attori possano vantare una simile longevità professionale. E lei ha iniziato per caso.«Avevo 12 anni, facevo le medie al Pio XI di Roma, vennero a scuola a cercare tra gli alunni i ragazzi da far recitare. Mi divertii molto, ma non avevo ancora il sacro fuoco della passione: per me era come un gioco, un modo di non andare a scuola, alternare le partitelle a pallone con le riprese nei teatri di posa a Cinecittà». È grazie al calcio, diciamo così, se lei ha un volto immediatamente riconoscibile.«Avevo 10 anni e durante una partita un giocatore avversario rinviò il pallone con molta vigoria, centrandomi in faccia e provocandomi la frattura del setto nasale. Ex malo bonum, come diceva Sant'Agostino. Un incidente che mi ha reso inconfondibile». Famiglia di artisti, la sua?«No. Mio padre Francesco era un sarto, mia madre Olga una casalinga. Ma in effetti mio padre un po' attore lo era: quando doveva inventarsi delle scuse per i ritardi nelle consegne degli abiti, recitava che era una meraviglia».Aveva dei modelli cui ispirarsi?«Mi piaceva l'impostazione di Buster Keaton, che lavora per sottrazione, asciutto, essenziale. E che dire di Marlon Brando in Fronte del porto? Prima di lui gli attori erano tutti così misurati, impostati, ingessati. Con lui la recitazione acquistava la naturalezza dell'autenticità. E poi naturalmente Aldo Fabrizi, che è stato come un padre putativo, soprattutto l'unico vero amico tra i colleghi, che non lo amavano perché diceva sempre quello che pensava e rifiutava i compromessi». Avete lavorato insieme anche a teatro.«In Rugantino, inizio anni Sessanta, siamo andati in giro per il mondo. Ero er Bojetto, il figlio del boia Mastro Titta, che era lui, il grande Aldo. Ricordo quando la domenica facevamo due rappresentazioni al teatro Sistina: tra la prima e la seconda, Fabrizi si rifocillava prendendo una ciriola (una «rosetta» di pane affusolata, ndr), svuotando della mollica e riempiendola di rigatoni all'amatriciana».Però: uno snack macrobiotico. Un film dietro l'altro, nei tanti capitoli della commedia all'italiana. Con il rischio di non uscire più dal cliché della maschera sempre uguale a sé stessa: la «spalla» brutta ma simpatica.«A 15 anni ero Pecorino, «Pecorì», nella famiglia Passaguai di Fabrizi: nella finzione, il figlio di Aldo e Ave Ninchi. Da lì sono cresciuto, ma poi, a un certo punto, ho deciso di fermarmi. Ho cominciato a rifiutare ruoli che mi venivano proposti stancamente, puntando solo a quelli di qualità. Non ho difficoltà ad ammettere che qualche momento non è stato economicamente felice, ma ho tenuto il punto, finché per mia fortuna la mia strada si è incrociata con quella dei fratelli Avati». 1986, un anno magico. A settembre lei vince a Venezia, a ottobre arriva nelle sale Il nome della rosa con Sean Connery. Che lei si rifiutò di fare. Arrogante...«Ma per carità, quando mai. Il regista Jean Jacques Annaud venne appositamente a Roma per incontrarmi, capisce? Per incontrare me e convincermi a interpretare un frate. Solo che bisogna dialogare in inglese, che io non parlo. Lui disse che mi avrebbe messo a disposizione i migliori insegnanti per le battute, ma non me la sentii di recitare senza capire cosa dicessero gli altri». Lei perdonerà la mia invadenza nel chiederle di un aspetto della sua personalità, ma devo. Negli anni lei ha sviluppato una serie di idiosincrasie e fobie, tipo il miliardario americano Howard Hughes: evita il contatto con gli altri, non dà la mano per salutare, sta molto attento a dove si siede o alle cose che tocca, sempre con un asciugamano o un fazzoletto di carta a portata di mano. «Mia madre era allergica al contatto fisico, forse deriva tutto da lì. Sicuramente emersero dopo un incidente stradale a metà degli anni Sessanta a Ostia, ero con un'amica dentro una macchina che si andò ad accartocciare contro un albero. Quando dopo un mese mi risvegliai dal coma, c'era Fabrizi accanto al letto che mi apostrofò: «“A Carle', ma quanto cazzo hai dormito?"».Scusi, come ha fatto negli anni a recitare? Costringeva la troupe a sterilizzare il set?«Oh no, quando lavoro non sono Carlo, ma il personaggio che interpreto: mi sdoppio, divento “lui", quindi il problema non si pone».Lei è un romano di Campo de' Fiori, in questi anni ha visto e vissuto tutte le trasformazioni, urbanistiche e antropologiche, della Capitale.«Sempre in peggio, purtroppo».Non si è fatto affascinare dalla giunta comunale e dal governo nazionale del cambiamento?«Quale cambiamento? Non voto da anni, ma non sono un qualunquista: mi ci hanno fatto diventare i politici, con le loro eterne promesse disattese. Ipocrisia, falsità, corruzione, una permanente presa in giro della buona fede delle persone».Ci sarà stato pure qualcuno che le avrà riscosso, nel tempo, il suo gradimento.«Uno sì: Enrico Berlinguer. Austero, serio, onesto, se ne percepiva la tensione ideale e morale. E infatti alla fine per questo ci è morto, durante un comizio».Sua moglie ha una figlia, lei no. Perché?«Sono stato un grande egoista. Ho sempre amato i miei spazi, vivere da solo. Però qualcosa ho fatto: da una decina d'anni, tramite la Caritas di Parma, io e mia moglie abbiamo adottato a distanza tre bambine. Una quarta è cresciuta e si è sposata. Ma farà sempre parte di questa “famiglia allargata"».Quali panni non ha ancora indossato al cinema?«Ruoli negativi ne ho ricoperti, quello di cattivo, di malvagio vero, ancora no. Ma mai dire mai. E mai mettere limiti alla Divina provvidenza. C'è tempo, a Dio piacendo».Ci crede nell'Altissimo?«Sì, ma Lui mi perdonerà se confesso che ancora non bramo troppo di incontrarlo. E comunque, in omaggio alle mie ossessioni, mi raccomando sempre con Anna: ricordati di far pulire bene la bara».
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