2018-08-08
Amate dalle star, odiate dagli stilisti: le infradito sono ai piedi del mondo
Le indossano in 3 miliardi, sono più vendute delle scarpe da ginnastica. Assieme alle bottigliette usa e getta figurano tra le cause principali dell'inquinamento dei mari. In Italia il mercato frutta oltre 20 milioni di euro.Nell'antico Egitto, le infradito erano indossate da ricchi, sacerdoti e faraoni. Oggi sono ai piedi di 3 miliardi di persone, per lo più povere. Sono le scarpe più vendute al mondo, anche rispetto alle scarpe da ginnastica. Fatte di plastica, prodotte in Paesi a basso reddito come la Cina o l'Etiopia, ogni anno producono giri d'affari miliardari. Alcuni scienziati tedeschi della German association for environmental protection hanno analizzato i materiali con cui sono realizzate, scoprendo che contengono solventi della plastica, piombo e zinco, materiali dannosi per l'ambiente ma anche per gli uomini. Stando alla Cnn, insieme alle bottigliette usa e getta le infradito sono una delle ragioni principali dell'inquinamento dei mari. Motivo per il quale, negli ultimi anni, sempre più case produttrici hanno preso la via ecologica: per ridurre la contaminazione e per calzare i piedi di ricchi e famosi. Oggigiorno un paio di infradito di marca costa dai 18 ai 290.000 euro. Un miliardo di persone al mondo è costretto a camminare a piedi nudi. Pitture neolitiche nelle caverne dimostrano che le infradito esistevano già 15.000 anni fa. Secondo Cameron Kippen, autore di The History of Footwear «nell'antica Grecia il fermo era tra il primo e secondo dito, mentre i romani usavano farlo tra il secondo e il terzo dito. In Mesopotamia si usava tra il terzo e il quarto dito del piede. In India, erano d'uso comune le Paduka, ciabatte con solo un fermo non legante tra il primo e il secondo dito». Pare che le cortigiane romane infilassero dei chiodini sotto le suole dei loro sandali per lasciare la scritta «seguimi» nelle orme sulla polvere delle strade.Le infradito moderne, in plastica, vengono dal Giappone. Durante la Seconda guerra mondiale, il Paese del Sol levante divenne un grande produttore di gomma e realizzò queste ciabattine sul modello degli zōri, gli zoccoli giapponesi in suola di paglia intrecciata ricavata dalla pianta di riso con stringa di stoffa nera. A sdoganarle però fu il Brasile, nel 1962, con le Havaianas. Colorate e leggere, le Havaianas vendono, solo in Brasile, 200.000 paia di sandali l'anno. Uno per ogni abitante della nazione. Negli anni Ottanta il governo brasiliano affermò che le Havaianas sono «beni di necessità». All'inizio erano di un solo colore: suola bianca e strisce blu ma una volta, per un errore, un intero lotto fu prodotto in verde: un successo. Ora i colori sono più di 20. Anche in Italia il mercato di queste ciabattine brasiliane è fiorente. Assorbe il 25 per cento dei ricavi annuali dell'area Emea (Europa, Medio Oriente e Africa). Spiegava qualche settimana fa Carla Schmitzberger, responsabile del brand Havaianas, al Sole 24 Ore: «L'Italia è il nostro primo mercato per ricavi della divisione Sandali nell'area Emea. È da sempre un Paese molto “forte" in termini di vendite, forse anche per l'assonanza della cultura italiana con quella brasiliana, e continua a crescere a doppia cifra». Si parla di un mercato da oltre 20 milioni di euro.In Australia le infradito si chiamano thongs, che vuol dire tanga, negli Usa flip flop, a imitazione del rumore che producono camminandoci. Un paio di infradito Havaianas dura 2.600 chilometri. Costano dai 16 euro in su, il prezzo aumenta in base al modello. L'edizione più cara, quella in serie limitata disegnata nel 2004 dalla maison di gioielleria H. Stern, è realizzata in oro a 18 carati incastonato di diamanti. Le italiane Beechic Virtuosà hanno tomaie intrecciate a mano in raso francese, su cui poggiano due gioielli in oro 24 carati con 9 zaffiri blu e 3 diamanti per sandalo. Vengono vendute a 290.000 euro con una garanzia di manutenzione di 100 anni.I sandali infradito sono l'articolo più venduto durante la stagione delle piogge a Bangkok, in Thailandia.I sandali Birkenstock con plantare ergonomico furono inventati in Germania nel 1774. Quando arrivarono in Italia, nel 1958, molti negozianti sentenziavano: «Queste scarpe non si venderanno mai». Da allora ne sono state vendute 3,5 milioni. Stando ai podologi, indossare le infradito causa dolori alle giunture, distorsioni alle caviglie e, alla lunga, mette a rischio gli stinchi e i tendini di Achille. Uno studio di 8 anni fa del servizio sanitario inglese ha rivelato che lo Stato è costretto a sborsare 40 milioni di sterline l'anno per curare oltre 200.000 pazienti che si presentano negli ospedali, lamentando dolori e problemi causati dall'uso prolungato delle ciabattine. Oltre a provocare danni alla salute, possono provocare anche incidenti. Dal 1993 in Italia non è più vietato guidare l'auto con le ciabatte o a piedi nudi. Tuttavia, se il guidatore in infradito è coinvolto in un incidente, la Polizia nello scrivere il verbale può indicare che indossava scarpe non adatte. Di conseguenza l'assicurazione potrebbe chiedere una perizia per stabilire se la calzatura abbia contribuito a provocare il sinistro: se riesce a dimostrarlo, concederà al guidatore un rimborso danni ridotto. Bon ton vuole che queste ciabatte vengano usate solo in spiaggia o a bordo piscina. Ma le infradito calcano i corridoi di scuole, uffici e tribunali, costringendo le amministrazioni a vietarle. Le flip flop sono finite anche alla Casa Bianca quando le studentesse della Northwestern University nel 2005 si presentarono, tutte, al cospetto del presidente in sandali facendo inorridire il Chicago Tribune.In città sono decisamente poco igieniche. Le infradito lasciano una notevole porzione di piede a contatto con l'esterno, provocando verruche, piede dell'atleta. Rari i casi di infezioni da stafilococco in cui si è resa necessaria l'amputazione dell'arto. «Le infradito sono selezionate geneticamente per esser prive di qualsiasi strategia di seduzione» (il costumista Quirino Conti).Fatto sta che da più di 50 anni le infradito sono sulla cresta dell'onda, molto apprezzate anche dalle star di Hollywood: da Geena Davis a Halle Berry, da Audrey Hepburn a Greta Garbo, da Sophia Loren a Liz Taylor. Per lei Enzo Albanese firmò le prime infradito tempestate di diamanti e Swarovski nel 1959. Anche Sylvester Stallone quand'era un attore porno e non aveva una lira andava in giro in infradito. Negli anni Sessanta le infradito furono il simbolo della globalizzazione: le indossavano ricchi e poveri di tutto il mondo. Tra i fanatici delle infradito anche Tony Curtis, che ci andava perfino al casinò; Barack Obama che quando era studente all'Occidental College di Los Angeles le indossava abbinate ai pantaloncini e Marc Zuckerberg, ceo di Facebook, che ci va persino in ufficio.La modella Gisele Bündchen ha disegnato le flip flop Ipanema, economiche, anallergiche, in materiale riciclabile per sostenere una campagna contro l'inquinamento. Anche le Chipkos firmate dall'artista David Palmer sono ecosostenibili, ma costano 18.000 dollari. Realizzate con materiale riciclabile, sono dipinte a mano e impreziosite con 6 grammi di oro eco-friendly. Palmer si è poi impegnato a devolvere buona parte degli introiti per proteggere la foresta pluviale nel Costa Rica. Esistono anche infradito con erba sintetica sulla suola a contatto col piede, per dare l'impressione di camminare scalzi sul prato. Tra i rifiuti spiaggiati ogni anno sulle coste africane, ci sono 90 tonnellate di infradito. Trasportate delle correnti oceaniche arrivano da Asia, India e Cina e finiscono per lo più sulle bianche sabbie del Kenya. A recuperarle Ocean sole, l'impresa sociale per la tutela ambientale fondata nel 1998 che trasforma 50 tonnellate di ciabatte di plastica in opere d'arte. Ecologiche o no, le infradito sono odiate da molti stilisti. Fanno rabbrividire Valentino («Un uomo non può presentarsi in braghe corte e infradito. Ma per piacere, no, no...») e Tom Ford («Non mi ci farei neanche seppellire»).Sandale Man, la serie tv che ha conquistato il Senegal, realizzata da Ayina Thiam, un regista ventiduenne appassionato di fantascienza e cartoni animati, ha per protagonista un super eroe dalle infradito magiche. «A volte le convenzioni servono, e le flip flop dimostrano come sia facile sbragare violentemente» (Giuseppe Scaraffia).
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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