Durante le feste sono attesi 2 miliardi di brindisi che, per lo spumante tricolore, valgono 236 milioni di euro. Secondo l’Osservatorio unione italiana vini, entro Capodanno verranno stappate 316 milioni bottiglie made in Italy: 88 milioni nel nostro Paese e 228 all’estero. Complessivamente, nel 2021 il valore alla produzione degli spumanti italiani supererà per la prima volta i 2,4 miliardi di euro, un incremento a cui si aggiunge un volume produttivo in costante ascesa, il 170% in più in un solo decennio. Un anno da record che fa molta invidia allo Champagne. Nel 2020 le bollicine d’oltralpe hanno registrato grossi cali nei consumi per via della pandemia: 100 milioni di tappi non saltati per una perdita di 1,7 miliardi di euro di fatturato, una crisi di settore più grave di quella registrata nella Grande depressione nel 1929. Solo l’11 maggio, data della liberazione dal confinamento, i francesi hanno brindato alla grande: quel giorno le vendite hanno registrato un balzo del 74%. Nel 2021 i consumi sono tornati alla normalità: 305 milioni bottiglie per un fatturato di 5 miliardi di euro, ma la grandine ha distrutto più di 500 ettari di vitigni, le gelate - solitamente alleate dello Champagne - hanno causato un calo del 30 per cento sulla produzione, le muffe un altro calo del 30 per cento. La raccolta non è mai stata così bassa dagli anni Cinquanta. Fortunatamente per i francesi il sistema della riserva ha permesso di accantonare per tempi difficili circa 8.000 litri di media a cantina. A dare un’altra bastonata allo Champagne ci ha pensato a luglio Vladimir Putin che ha firmato una legge secondo la quale lo Champagne, quello francese, non può più essere venduto come tale ma solo come semplice «vino frizzante», perché l’appellativo champanskoïe è riservato solo ai produttori di bollicine russe. La Francia bloccò l’export in Russia salvo fare marcia indietro a settembre, perché Putin non ha cambiato idea. L’idea di produrre champagne sovietico venne a Josef Stalin nell’estate del 1936. Voleva rendere beni come lo Champagne disponibili a prezzi più bassi, per poter dire che il lavoratore sovietico viveva come gli aristocratici del vecchio mondo. A dar guai al Prosecco, invece, è stata la Croazia con il suo Prošek, un liquore simile al passito, riconosciuto come indicazione geografica protetta dalla Ue.
Lo spumante
«Le prime citazioni del termine “Prosecco” con riferimento al vino risalgono addirittura al 20 settembre 1382, quando la città di Trieste ha siglato un accordo tale per cui, entrando nei domini del sovrano austriaco, si impegnava a consegnare annualmente 100 orne del miglior vino di Prosecco al Duca d’Austria». Queste sono le parole del governatore Luca Zaia pronunciate in occasione della task force organizzata per preparare la documentazione da presentare a Bruxelles, per difendere il Prosecco dalle pretese di riconoscimento del Prošek croato. Perché in Italia la tradizione vinicola, si sa, è millenaria. A confermarlo, il professor Mario Fregoni, ordinario di viticoltura alla Cattolica di Piacenza, che sostiene che lo spumante sarebbe un’invenzione degli antichi romani: «Sono i veri inventori della rifermentazione programmata, poi perfezionata nei secoli. A Pompei esiste una cantina con un cunicolo attraversato da tubi di acqua fredda nel quale venivano posti i dolium col mosto da spumantizzare: la stessa tecnica che si usa oggi per il Moscato dell’Oltrepo Pavese e dell’Asti spumante». Lo spumante fece la sua apparizione nel libro dei Salmi con una coppa di vino spumeggiante nelle mani di Dio e anche nell’Eneide Virgilio parla di spumantem plateram. Il primo manuale per vini naturalmente fermentati in bottiglia risale al 1570. Fu scritto a Brescia, patria del Franciacorta, da Girolamo Conforti, farmacista, e s’intitola Libellus de vini mordaci. Quando si parla di bollicine in Italia si può fare riferimento a tre produzioni: il metodo classico (Franciacorta), lo spumante piemontese Asti, il Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene Docg. I metodi per ottenere lo spumante sono due: lo Charmat e lo Champenoise o Classico. Con il metodo Charmat la fermentazione avviene in tini, mentre con il metodo Classico la fermentazione prosegue anche in bottiglia, per due-tre anni.
Il successo del Prosecco, erede del vecchio Puxinum, nettare preferito da Livia, la moglie dell’imperatore Augusto, deve il suo successo al buon rapporto qualità/prezzo e, come scriveva tempo fa Beppe Severgnini, «al nome originale, divertente e inequivocabile. La nostra lingua è eufonica, dobbiamo approfittarne. Gli stranieri amano pronunciare i nomi italiani: Ferrari, Berlucchi, Ca’ del Bosco & C.». La rivincita mondiale del Prosecco, però, non ha fatto piacere a tutti. Nel 2017 il Guardian pubblicò un articolo che diceva: «Vi cadono i denti e volete salvarli? È colpa del Prosecco italiano, smettete di berlo». Ovviamente il pezzo, orfano di qualunque prova clinica, non riuscì a incrinare il successo del prosecco in Inghilterra, dove in quell’anno ne furono consumati ben 40 milioni di litri.
Ma le celebrità adorano le bollicine tricolori: Lina Wertmüller imbottigliava un ottimo Franciacorta firmato col suo nome. Francesco Moser produce vicino a Trento il 51.151, uno spumante battezzato così in onore del record dell’ora che stabilì nel 1984. La top model britannica Cara Delevingne ha deciso di produrre Prosecco Docg a Valdobbiadene. Il Prosecco dei Bortomiol piaceva a John Wayne che se ne faceva mandare qualche cassa a Hollywood e Nino Manfredi lo inserì in un brindisi di Nudo di donna: «Bono. Che è Bortolomiol?». Andy Warhol è stato più volte immortalato con una bottiglia di Ferrari. E sempre con il Ferrari si brinda agli Emmy awards e da quest’anno anche sui podi della Formula 1. Dopo due anni di trattative, Matteo Lunelli è riuscito a far cambiare il rito della vittoria calzando i vari Moët & Chandon, Mumm e Carbon.
Lo Champagne
Nel 1668 Dom Pérignon, un monaco di 29 anni astemio, nelle cantine dell’abbazia di Hautvilliers trovò il modo di domare la maturazione, ridurre le bollicine, intrappolarle in un vetro robusto e regolarne la fermentazione. È anche l’inventore del tappo di sughero con la gabbietta esterna. I vitigni autorizzati per fare lo Champagne sono il Pinot noir, il Pinot Meunier e lo Chardonnay. Se l’85% del vino base è di una sola annata precisa, il vino si può «millesimare». I millesimati sono i più pregiati.
Per molto tempo fu soprannominato «il vino del Diavolo», perché le bollicine facevano esplodere le bottiglie. Quando salta via, il tappo viaggia a circa 40 chilometri orari, il volo più lungo è di 54 metri. La pressione nella bottiglia è di 6 bar, lo pneumatico di un’auto è a circa 2 bar.
Leggenda vuole che sia stato Napoleone a introdurre l’arte del Sabrage, decapitando la bottiglia con un colpo secco della sua spada e dicendo: «Champagne! Nella vittoria è un merito, nella sconfitta una necessità». Era così che l’imperatore stappava le bottiglie donategli da madame Barbe-Nicole Ponsardin, veuve Clicquot. Rimasta vedova a soli 27 anni, questa donna proveniente dall’alta borghesia di Reims, si ritrovò in eredità i vitigni del marito e diventò la prima donna a dirigere una Maison de Champagne. Un’altra vedova è artefice del successo della casa Pommery che nasce nel 1858 da Alexandre e decolla nel vino grazie a Louise. Il Cristal, invece, nacque nel 1876 per lo zar Alessandro II. Secondo Lina Sotis non va servito alla fine di una cena, è un aperitivo. Lo beve con l’antipasto anche Ken Follet: «Quando ho iniziato a scrivere, e non ero certo ricco, ogni volta che vendevo un libro a un editore mettiamo per 100, 200 sterline, per prima cosa stanziavo una piccola percentuale e la investivo per comprare una bottiglia di Champagne». Patrizia De Blanck lo ordinava per stimolare la fantasia di Alberto Sordi: «A letto era molto tradizionalista, non amava sperimentare». Marilyn Monroe, che ne beveva a fiumi, fece il bagno in una vasca riempita con 350 bottiglie di Champagne. Per Ernest Hemingway pasteggiare a Champagne faceva «bene all’umore e all’amore, ma soprattutto evita la seccatura di cambiar vino a ogni portata». Infine Oscar Wilde se ne fece portare una coppa poco prima di esalare il suo ultimo respiro: «Sto morendo al di sopra delle mie possibilità». A Hitler, che nella cantina al Nido dell’Aquila conservava mezzo milione di bottiglie di vini francesi, tra cui un introvabile Salon del 1928, invece non piaceva, disse che «sapeva di aceto». Non piace neanche a Camillo Langone: «Per colpa dello Champagne ho rotto delle amicizie. Persone senza senso del limite, che insistevano troppo a glorificare lo chardonnay addizionato che sa di funghi».
Leggenda narra che, la notte della Natività, un fiocco di neve si posò sulla fronte di Gesù Bambino, Maria fece per scioglierlo con un bacio e il fiocco, miracolosamente, si trasformò in gelsomino. Tradizione vuole, che la notte di San Silvestro ci si baci sotto al vischio, simbolo dell’amore che sconfigge la morte, per ottenere la protezione della dea celtica Freya.
Scriveva lo storico francese Jacques Le Goff che in origine il bacio serviva a trasmettere la forza vitale e un magico passaggio di poteri. Poi, come rituale del fidanzamento, segnò l’ingresso in una comunità familiare non naturale, come il matrimonio. Così gli antichi Romani per non sbagliare avevano diviso il bacio in tre categorie: «osculum» se era scambio di convenienza; «basium» con i parenti; «savium» come preliminare sessuale. I persiani ne fecero una questione di lignaggio: le persone dello stesso ceto sociale si salutavano tra loro con un bacio sulle labbra. A chi era inferiore veniva concesso solo il contatto con la guancia. Caligola invece, ai sudditi, preferiva porgere i piedi. Usanza che s’è protratta nei secoli e che, ricorda Adriano Bassi nella sua Storia del bacio (Odoya, 2009), non piacque affatto a François Rabelais, medico ordinario del cardinale Giovanni du Bellay, per questo ammesso alla presenza di papa Paolo III: «Quando vide il proprio paziente baciare il piede del pontefice se la diede a gambe levate. A richiesta spiegò: «Ma se voi, che siete mio signore padrone, avete baciato il piede del Pontefice, io che sono l’umilissimo vostro servitore, cosa devo baciargli?»».
«Ma poi c’è un bacio?». Se per il Cyrano di Edmond Rostand è «un modo di respirarsi il cuore e di scambiarsi sulle labbra il sapore dell’anima», dal punto di vista chimico altro non è che una composizione di acqua, cloruro di sodio, mucosità e fermenti digestivi. E se per Guy de Maupassant il bacio «è immortale, viaggia da un labbro all’altro, da secolo a secolo, di età in età. Uomini e donne raccolgono questi baci li offrono agli altri e poi muoiono a loro volta», per la biologia libera endorfine, stimola ossitocina, riduce il colesterolo e previene le rughe e addirittura le carie. In pratica con un bacio si allevia il dolore di un’emicrania o di un mal di schiena, si è più rilassati, più sani, più giovani. Con un bacio poi ci si scambiano 80 milioni di batteri, cosa che, se non ci fosse il Covid, rafforzerebbe il sistema immunitario. Tuttavia, sempre stando agli scienziati, il bacio è in grado di farci capire se il partner è quello giusto. Le papille della lingua raccolgono tutte le informazioni genetiche necessarie al cervello per verificare la compatibilità. Se la persona è quella giusta, il cervello stimolerà la produzione di dopamine e ossitocine che rinsaldano il legame. Se il partner è sbagliato, a essere stimolato sarà il cortisolo, l’ormone dello stress che istiga all’allontanamento.
Secondo l’antropologo Desmond Morris il bacio risale agli ominidi preistorici soliti condividere il cibo con i più piccola bocca a bocca. Le femmine premasticavano il cibo, poi premevano le loro labbra su quelle dei figli e li imboccavano aiutandosi con la lingua. Anche secondo Sigmund Freud attraverso il bacio si recupera il soddisfacimento dell’oralità dell’infanzia, un potere saziante per l’anima. Altri studi, come quello degli antropologi dell’Università texana di College Station, sostengono però che il bacio non sia manifestazione innata nella specie umana ma solo un’abitudine della civiltà occidentale. Gli Ainu del Giappone preferiscono mordicchiarsi, gli abitanti di Formosa strofinarsi le punte dei nasi e annusarsi. In India il bacio viene considerato un atto osceno tant’è che Richard Gere, che osò baciare l’attrice indiana Shilpa Shetty durante un festival a Bombay, fu messo alla pubblica gogna. I vietnamiti e alcune tribù africane poi, non lo conoscono affatto, così come gli abitanti delle isole Cook. L’antropologo Donald Marshall calcolò che questi ultimi avevano una media di mille orgasmi a testa l’anno, 21 a settimana, senza scambiarsi un solo bacio.
L’espressione french kiss fu coniata dai soldati britannici dopo la prima guerra mondiale per definire le profonde effusioni dei vicini d’Oltremanica. Tuttavia sul finire del Seicento fu un francese, lo scrittore Abbé du Prat, a identificare per primo questo bacio come baiser à la florentine ovvero bacio alla fiorentina, termine usato ancora oggi dei tedeschi. Però nel 1866, un altro francese, Alfred Delvau, nel suo Dizionario della lingua erotica li distinse: se nel primo l’uso della lingua è essenziale, nel secondo il gesto di amore si concretizzerebbe con uno sfioramento ripetuto fra le labbra dei due amanti. Niente a che vedere però con i baci alla russa tanto amati da Leonid Breznev e compagni. Lui era solito accogliere i leader di tutti i paesi imprimendo le sue labbra prima sulla guancia sinistra, poi su quella destra e infine, serrandole, sulle labbra dell’ospite. È riuscito a stampare baci in bocca al leader palestinese Yasser Arafat, al presidente Usa Jimmy Carter, al dittatore jugoslavo Tito. Ma il suo bacio più famoso resterà quello al leader della Germania dell’Est Erich Honecker nel 1979, che fu anche ritratto sul muro di Berlino dall’artista Dmitri Vrubel (sulla scia di Vrubel sono comparsi poi il bacio tra Vladimir Putin e Donald Trump a Vilnius in Lituania e il bacio tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio a Roma). L’unico che riuscì a scampare al bacio di Breznev fu Fidel Castro: scese dall’aereo con il sigaro in bocca.
Fumò la sua prima sigaretta lo stesso giorno in cui diede il suo primo bacio Arturo Toscanini e, da allora, «credete, non ho più perso tempo con il tabacco». In effetti gli italiani sono, o meglio erano, grandi baciatori. Stando a un sondaggio antecovid si baciavano 7 volte al giorno. Assieme ai francesi, avevano la media più alta d’Europa. Poi è arrivata la pandemia e l’effusione s’è trasformata in infezione. In Baciarsi, spiegano Elisabetta Moro e Marino Niola: «Senza labbra che si sfiorano, la comunità si disincarna e diventa pura astrazione». Così, in attesa del ritorno alla normalità, non resta che ricordare com’era bello baciarsi. Carlo Cracco diede il suo a 14 anni e nella sua mente è ancora oggi «un avvenimento mondiale», stessa sensazione per Carlo Verdone che scoprì «tutto un mondo meraviglioso». Per rubare un bacio alla sua Nicola, Pupi Avati dovette ricorrere a una piccola bugia: «Mancavano cinque minuti a mezzanotte. Le ho detto che quel giorno era il mio compleanno e che nessuno mi aveva dato ancora un bacio. Lo fece lei e tutto iniziò». Meno bene andò a Claudio Baglioni: «Io non sapevo come si baciava e lei ha tenuto i denti stretti tutto il tempo. Ho pensato: “Se questo è un bacio, allora non me ne frega niente”». L’ultimo posto in classifica spetta a Leonardo DiCaprio: «Fu la cosa più disgustosa di tutta la mia vita. Lei riuscì a inondarmi di saliva e io dovetti fuggire a gambe levate per non soffocare». Imbarazzante anche il primo bacio di Anjelica Huston che, sedicenne, lo dovette dare sul set di Sinful Davey, diretta dal suo papà: «Un’esperienza agghiacciante. Di solito già non vuoi che tuo padre assista al tuo primo bacio, figuriamoci che lo riprenda in un film». Anche il primo bacio di Silvana Pampanini fu su un set, era Il Segreto di Don Giovanni, e la giovane Silvana doveva baciare il cantante Gino Becchi. Al terzo «stop» il regista, Camillo Matrocinque, resosi conto che non aveva mai baciato, la portò dietro un paravento, con su una Madonnina e le spiegò come fare: «Poi mi ha spiegato: “Se qualcuno ci marcia, tu stringi i denti, adesso però ti prepari da sola”. Guardavo la Madonnina e le chiedevo aiuto, e facevo la prova sul dorso della mano. Così alla fine ero bella preparata: sono andata sul set, e al momento giusto con la mano ho afferrato lui alla nuca e l’ho baciato. Quello è rimasto rimbambito».
Memorabile il primo bacio tra Liz Taylor e Richard Burton che si diedero sul set di Cleopatra, «un bacio di scena che non finiva mai», raccontarono i presenti. Anche Gian Maria Volonté e Carla Gravina si innamorarono con un bacio, quello che nei panni di Romeo diede alla sua Giulietta su un palco di Verona: «Alle prove lui doveva prendermi la mano, guardarmi negli occhi. Io mi sentivo rimestare dentro, lui diventava tutto rosso. Finché ci siamo baciati. È stato un precipizio d’amore, un anno dopo è nata Giovanna». Non resisté all’emozione Sandra Milo che, al primo bacio che le diede Federico Fellini, svenne. Se aveva ragione Maupassant quando diceva che è «il modo più sicuro di tacere dicendo tutto», torneremo a stare zitti?
Pare che gli sci siano nati nel Paese di Babbo Natale. Molti ricercatori attribuiscono ai lapponi i primi «zoccoli di legno lunghi a punte ritorte all’insù a guisa d’arco» ideati per spostarsi più velocemente sulle nevi e sui ghiacci. Altri però sostengono siano nati tra la Siberia e la Mongolia, nella zona dei monti Altai. Tuttavia lo sci più antico del mondo è stato ritrovato in Svezia, risale a circa 4.500 anni fa, ed è un’asse di pino larga circa 19 centimetri e lunga 111 centimetri. L’unica cosa certa è che la parola «sci» deriva dal norvegese «skíð», tradotto: «pezzo di legno».
In Europa lo sci si diffuse nel 1800. E fu alla fine di quel secolo che il papà di Sherlock Holmes, Arthur Conan Doyle, se ne appassionò. Lo scrittore iniziò a sciare nelle Alpi svizzere nel 1893, quando si trasferì in montagna per via della delicata salute della moglie. Imparò di notte per non farsi sbeffeggiare dagli altri abitanti del villaggio ma, quando divenne anche lui uno sciatore provetto, non esitò ad accompagnare i fratelli Branger sulla vetta del Maienfelder Furgga. Stando al Daily Telegraph, è stato il primo inglese a scrivere «sull’emozione dello sci».
Lo sci, infatti, non è nato come uno sport ma come un mezzo di trasporto. Lo stesso Zeno Colò, da ragazzino, si vide regalare sci rudimentali, costruiti dal papà per aiutarlo a far legna. È in questo modo che forgiò quelle «gambe d’acciaio» che gli consentirono di buttarsi a 160 all’ora nel chilometro lanciato, di vincere le olimpiadi e di diventare il grande campione che è stato, con ai piedi semplici scarponi di cuoio legati a due assi di frassino e in mano racchette di bambù.
Storici anche gli sci di Primo Levi. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, Levi si rifugiò al Ristoro di Amay in Val d’Ayas per imparare a fare il partigiano. Privo com’era di esperienza militare, la cosa non gli riuscì e il 13 dicembre 1943 fu catturato dalla milizia fascista. Tuttavia i suoi sci erano rimasti nel rifugio e il nipote dei proprietari, Yves Francisco, li usò per riparare in Svizzera. Scriveva qualche anno fa Domenico Zampa: «Dopo un intero giorno di cammino Yves fu in Svizzera. Gli sci di Primo Levi, gli sci dell’alpinista spericolato nonché partigiano mancato, che le Alpi le avrebbe superate dentro un vagone piombato diretto a un campo di sterminio, quegli sci diventavano la salvezza di un ragazzo ricercato dai fascisti. “E poi quando la guerra volgeva al termine, in aprile, sono tornato indietro da solo, sono sceso da questa parte con gli sci e li ho riportati là dove Primo Levi li aveva depositati da mia zia”». Anche se gli attacchi erano diversi.
In quegli stessi giorni, infatti, la principessa Maria José, pure lei in Svizzera, decise di rientrare in Italia clandestinamente con gli sci ai piedi e qualche accompagnatore. Continua Zampa: «In un punto non precisato, l’itinerario di Maria José e del suo seguito incrociò quello di Yves Francisco. A qualcuno del seguito dovettero fare gola gli attacchi di quegli sci: modello Kandahar, con cavo a molla e leva anteriore di serraggio, che permettevano sia di procedere a tallone libero sia di bloccare il piede. Sicché uno di loro pensò bene di smontarli, sostituendoli con un modello più antiquato».
Artigianali erano gli sci infilati a un Gustav Thöni che sapeva a malapena camminare: «Erano due assi di legno, ammorbidite nell’acqua bollente per curvare le punte. Ne ho ancora uno. L’altro non si trova più. All’epoca però non c’erano scarpe della mia misura, erano tutte troppo larghe: quando mi toglievo gli sci restavo scalzo».
Come Colò e Thöni, di grandi campioni l’Italia ne ha avuti molti. Da Piero Gros, che prima di vincere sbarcava il lunario raccogliendo barbabietole per i cavalli della fattoria, a Christof Innerhofer che quando non scia va a funghi. E poi Denise Karbon, Daniela Ceccarelli, Manfred Moelgg, Giuliano Razzoli, Kristian Ghedina, Giorgio Rocca, Peter Runggaldier, Isolde Kostner, Federica Brignone (l’italiana più vincente in Coppa del mondo), Sofia Goggia, senza però dimenticare Deborah Compagnoni e Alberto Tomba, anche se lui, da quando s’è ritirato a sciare non ci va quasi più: «Mi mette tristezza». Tra i suoi tifosi però c’era un Novak Djokovic bambino e la sua famiglia: «Facevamo un tifo indiavolato. L’adrenalina di una discesa con gli sci me la ricordo bene: nemmeno il match point di una finale Slam regge il confronto». Tra i tanti sportivi appassionati di sci, due hanno rinunciato a farne una carriera: il golfista Renato Paratore perché «la gara dura solo un minuto» e il pilota Jacques Villeneuve: «Non è un bel mestiere. Quando finisci sei tutto rotto e non hai abbastanza soldi per godertela».
Aveva forse ragione Lord Benjamin Mancroft quando disse: «Ci sono soltanto tre cose da imparare nello sci: come mettere gli sci, come scendere dalla cima, come camminare nel corridoio di un ospedale»? Ne sa qualcosa Mike Bongiorno che, avendo due chiodi piantati nel femore che s’era fratturato sulla neve, si dovette dare allo sci di fondo. Ma si rassegnò solo dopo diverse minacce del suo dottore: «Lo sci era il mio élisir della giovinezza». E non aveva torto. Gillo Dorfles, morto a 108 anni, a 105 non esitava a lanciarsi in pista, prediligendo però «quelle destinate ai bambini». Il filosofo tedesco Ernst Jünger ha sciato fino ai suoi cent’anni, la bella Silvana Pampanini fino ai suoi 88 e, a chi le chiedeva se non temesse di cadere, rispondeva spavalda: «Ci si può far male a 18 come a 88». Gianni Agnelli ne faceva una questione di vita e business. Ogni volta che gli chiedevano quando pensasse di ritirarsi, rispondeva: «Quando non potrò più sciare». Inforca ancora gli sci l’ottantottenne Michelangelo Pistoletto, l’uomo in nero che veste multicolore solo sulla neve. Però, lo fa con un po’ di rammarico: «Tutti quelli con cui sciavo hanno abbandonato, sono malati o sono morti. Quindi adesso scio con dei sessantenni. E, quando noto che cominciano ad avere dei cedimenti, gli dico: “Ma, quando sarete vecchi, con chi andrò a sciare io?”». Anche Marina Cicogna a 83 anni si lanciava ancora sulle Alpi. Lei, a Cortina, amava sciare soprattutto all’alba: «Era il massimo». Licia Colò, invece, preferisce il tramonto: «Salgo nel tardo pomeriggio sull’ultima seggiovia. E, una volta in cima, attendo il tramonto. Solo allora, con la luce del crepuscolo, inizio la discesa a valle, in un silenzio magico e irreale, accompagnato dal ritmico frusciare degli sci sulla neve». Per Tim Parks «sciare è il massimo dell’individualismo, è lo sport, credo, che più ti isola». Deve pensarla come lui il presidente russo Vladimir Putin che adora sciare - solitamente va in Austria o nei pressi di Magnitogorsk - ma non gli piace farsi ritrarre nelle vesti del discesista. Non voleva farsi fotografare anche papa Giovanni Paolo II che in pista si faceva accompagnare dal suo maestro Livio Zani: «Quando sciava aveva un’aria serena, felice. A volte diceva che lassù si sentiva libero mentre a Roma si sentiva in prigione. La montagna lo riportava alla giovinezza, al tempo che aveva trascorso nei monti Tatra». Una beatitudine che fece invidia all’allora presidente Sandro Pertini che, prima di essere invitato ufficialmente del Papa sull’Adamello, si autoinvitò ufficiosamente. Orazio Petrosillo, allora vaticanista sul Messaggero: «E così tutti lo seppero e ai media vennero date alcune fotografie del Papa in tenuta da sciatore, mentre scendeva sulla neve con ampie curve e nel dopo sci in sorridente relax accanto a Pertini. Famosa la sua frase: «Santità, Lei volteggia come una rondine»».
Non volteggiava il premier inglese Boris Johnson. Ricorda Gaia Servadio, madre della sua prima moglie Allegra: «Un inverno, prima che si sposassero, andammo a sciare, solo che lui non lo sapeva fare. Arriviamo sulle piste e si butta senza indugio giù per quelle difficili. Gli dicevo: stai attento è pericoloso. Ma lui niente, si buttava come un bolide, stava in equilibrio per miracolo e in qualche maniera arrivò in fondo». Un episodio che riporta alla mente un libro di Carla Signoris di qualche anno fa, dal titolo Ho sposato un deficiente: «In pista lo riconosci subito: il principiante è quello velocissimo che non curva mai, perché le curve non le sa fare e non vuole che si sappia».
Scia benissimo, ma non abbastanza veloce, l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Nel 1989 il magnate, sposato con Ivana, pensò bene di portare ad Aspen la sua amante Marla Maples. La signora Trump però li seguì e all’uscita di uno chalet li colse in flagrante. Trump si infilò al volo gli sci e tentò la fuga, ma velocemente Ivana lo superò, si voltò e continuò a sciare al contrario, con un dito della mano alzato verso il marito.




