2018-07-23
Altro che vegani: i primi veri animalisti sono gli allevatori
Contro gli abusi dell'ideologia green e dell'industria della carne torniamo all'antica alleanza con le bestie per riscoprirci umani.In quest'epoca di opposti estremismi, sembra che esistano soltanto due modi possibili di rapportarsi al mondo animale. Da una parte c'è l'attivismo green, magari animato dai vegani che tifano per la «liberazione animale». Costoro considerano ogni forma di allevamento uno sfruttamento delle bestie. Dall'altra parte, c'è invece chi tifa per le meraviglie del capitalismo, e dunque non ha nulla da obiettare sull'allevamento intensivo e sul consumo di carne. In aggiunta, c'è un'ampia platea di persone disinteressate, che non si pongono nemmeno il problema di scegliere tra le due precedenti opzioni. Per la maggior parte della popolazione, il fatto di mangiare carne non ha nulla di violento. E il motivo è molto semplice: la violenza, da tutti i punti di vista, nella nostra società è negata e nascosta. Esiste, ma a distanza, nell'ombra. Acquistare un pollo al supermercato significa, banalmente, mettere nel carrello un pacchetto. Del processo che ha condotto l'animale nel reparto carni non sappiamo nulla. È molto difficile che qualcuno di noi abbia visto uccidere un maiale o un pollo. Sono sempre più rari gli uomini e le donne che abbiano assistito al rito ancestrale della macellazione, magari in presenza di una figura mistica come il norcino. Questi antichi rituali prevedevano un rapporto con la violenza. Chi si nutriva del maiale, sapeva anche come era morto, vedeva con i propri occhi la lama del coltello. Assistere all'uccisione e alla macellazione non provocava gioia e godimento. Però suscitava rispetto per il sacrificio della bestia soppressa. Attraverso il rituale, il rapporto tra uomo e animale si saldava, era vivo e vero. Su questi temi ha scritto pagine splendide Roberto Calasso nel libro Il cacciatore celeste (Adelphi). Ai giorni nostri questi rituali non esistono più, sono stati sostituiti dalla catena di montaggio, dalla macellazione seriale e occulta. Come ci siamo arrivati lo spiega molto bene la saggista Maryn McKenna in Big chicken. L'incredibile storia di come gli antibiotici hanno creato i moderni allevamenti e cambiato le abitudini alimentari del mondo (Enea edizioni). La studiosa descrive il modo in cui la produzione industriale non solo ha modificato il nostro rapporto con il mondo animale e con la natura circostante, ma ha pure ribaltato le nostre abitudini alimentari. Abbiamo rimosso il sangue e la violenza della caccia, sostituendoli con allevamenti che, in alcuni casi sembrano davvero campi di internamento per animali. alternativa radicaleCome si fa a opporsi a tale sistema orrendo e, allo stesso tempo, non scadere nel fanatismo verde? Un'alternativa è possibile, anche se è decisamente radicale. La moda vegana e la gigantesca industria della carne sono, in verità, due facce della stessa medaglia. Perché sono organizzate dallo stesso sistema. Le multinazionali del cibo che forniscono würstel e bistecche a basso costo sono sostanzialmente identiche a quelle che ultimamente propagandano tofu, seitan e altri prodotti green. Le lobby di Big food (il complesso di corporation che regola il mondo alimentare) nel corso degli anni ci hanno prima convinto a consumare sempre più carne, anche in Italia, e pure se la cosiddetta dieta mediterranea, in realtà, era per lo più a base vegetale. Poi, si sono orientate su altri prodotti più adatti allo spirito del tempo e alle ossessioni «salutiste» che vanno per la maggiore. Il risultato è che le nostre tradizioni alimentari sono state stravolte, e poi ricostruite artificialmente. Stesso discorso per il nostro rapporto con gli animali. Attualmente vanno molto di moda i «pets», cani e gatti che siamo soliti trattare alla stregua di esseri umani. Viziati, soffocati di attenzioni e riempiti di inutili gadget. Non li trattiamo da bestie, quali sono, ma come strane entità create per farci intenerire. Il legame millenario che saldava uomo e animale è stato prima distrutto, poi ricostruito in ossequio alle leggi del marketing. Recuperare l'equilibrio tradizionale tra esseri umani e animali, tuttavia, è ancora possibile. Questa è la posizione terza di cui parlavamo poc'anzi. È molto utile, per approfondirla, la lettura di un volume firmato da Jocelyne Porcher. Si intitola Vivere con gli animali ed è dedicato all'allevamento. La Porcher spiega che, oggi, l'allevamento non esiste più. Esiste la «produzione animale». «Con il capitalismo industriale», scrive, «è nata anche la zootecnia, cioè la “scienza dello sfruttamento delle macchine animali" […]. Le bestie, che erano compagne di lavoro dei contadini, sono diventate macchine, simili agli altiforni, delle quali occorreva incrementare le rese per accrescere i profitti. Il rapporto affettivo ed estetico dei contadini con i loro animali è stato stigmatizzato». Un rapporto di lavoroPer contrastare tale sistema bisognerebbe ritornare all'allevamento. Che è «un rapporto di lavoro con gli animali». «Lavorare con gli animali», spiega la Porcher, «equivale a vivere con gli animali. Le società umane si sono costruite, nel bene e nel male, assieme agli animali. Essi fanno parte di noi, della nostra identità di esseri umani». Tra l'allevatore e l'animale esiste un rapporto di scambio: «La gratitudine, che si esprime nel garantire loro una buona vita, rappresenta il contro dono offerto dall'allevatore in cambio del dono che gli animali fanno con il loro lavoro e le loro vite. L'allevamento rappresenta un flusso positivo di vita che passa dagli animali agli uomini». L'allevatore garantisce all'animale una «buona vita», lo tiene al riparo dai predatori (perché le bestie che noi mangiamo in natura sono questo: prede), lo rispetta e lo accompagna con grazia attraverso il rituale che conduce alla morte. «L'allevamento del bestiame», ha scritto il grande conservatore Roger Scruton in Gli animali hanno diritti?, «non è semplicemente un'industria: è una relazione in cui uomo e animale sono legati uno all'altro da un vantaggio reciproco e dove il dovere di cura dell'uomo è ottemperato grazie al muto riconoscimento di dipendenza dell'animale». Secondo Scruton, gli animali non sono titolari di diritti proprio perché non sono persone. Ciò non toglie che gli uomini abbiano dei doveri nei loro confronti. È il fondamento verticale della gerarchia: l'animale domesticato dipende dall'uomo, che deve curarlo come merita prima di nutrirsene. Senza umanizzarlo, ma rispettando la sua diversità. Natura e giustiziaNella pratica, significa che opporsi allo sfruttamento industriale degli animali si può e si deve, ma senza tramutarsi necessariamente in esagitati che spalancano le gabbie. Ritornando all'allevamento, ne guadagneremmo tutti. Gli animali vivrebbero meglio, gli esseri umani eviterebbero di cibarsi di carne gonfia di liquidi o imbottita d'ormoni. Il ritmo della natura sarebbe ripristinato. Certo, lo abbiamo detto: si tratta di un'alternativa radicale, che prevede decisioni forti. Ma è possibile anche a grandi livelli: esistono, in Italia, allevatori che garantiscono un trattamento «giusto» ai loro animali.Ristabilire questo legame di amore e rispetto con gli animali e la natura in cui sono inseriti è fondamentale. Perché è così che possiamo riscoprirci davvero uomini.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)