2021-02-08
Altro che la favola delle due Leghe. Salvini ha dato ascolto alle imprese
Giancarlo Giorgetti e Matteo Salvini (Ansa)
Gli osservatori in coro dipingono Giancarlo Giorgetti come il poliziotto buono del Carroccio. Fingendo di non sapere che dietro l'apertura a Draghi c'è il rapporto tra il Nord produttivo e un partito che governa in 14 RegioniSorpresi dal contropiede di Matteo Salvini, gli osservatori ostili alla Lega hanno fatto ricorso ai cliché più banali, alle chiavi di lettura più pigre: il segretario che si adatta alla linea suggerita da Giancarlo Giorgetti, oppure la ricerca affannosa della mitica «legittimazione» (come se tale legittimazione dipendesse dai commentatori, e non dai milioni di voti raccolti dalla Lega in questi anni), oppure il racconto di una stravagante conversione sulla via di Damasco (anzi di Bruxelles) in nome dell'europeismo.Diciamolo chiaramente: più che spiegazioni, queste sono arrampicate sugli specchi da parte di chi (nei palazzi e pure in qualche redazione) non si dà pace all'idea di una Lega tornata al centro del ring, e ancor più di un Salvini (divenuto da anni calamita di campagne di odio) che, astutamente, non solo apre a Mario Draghi, ma lo fa senza porre veti o condizioni, spiazzando totalmente i suoi avversari. Come spesso capita, troppi osservatori si erano fatti un'immagine di comodo della Lega, una specie di fantoccio polemico: le felpe, la citofonata a Bologna, il Papeete, come se tutto potesse ridursi a questa rappresentazione. Dimenticando non solo un'evidenza (che la segreteria Salvini ha preso un partito al 4% e lo ha portato stabilmente al 23-24-25%, facendone la prima forza politica del Paese), ma anche un dato storico, quello di una Lega capace di essere partito «di lotta e di governo». Gli antipatizzanti di Salvini hanno dunque rimosso almeno tre elementi che sono invece risultati decisivi in questo passaggio politico. Primo: la Lega non è solo un movimento di opinione, ma una forza che governa in 14 Regioni e in migliaia di Comuni. L'anomalia non è che una simile rete di governo locale abbia nel prossimo futuro anche un riscontro importante nel governo nazionale: l'anomalia, semmai, è stata quella dei mesi passati, quando una forza maggioritaria nel Paese è stata esclusa dal governo. Un governo che - con ciò - si era precluso da subito il dialogo con una parte così rilevante dei territori. Secondo: il Nord. Ma davvero qualcuno pensava che la stravaganza del Conte bis, cioè un governo nato senza - e in qualche caso perfino contro - il Nord, potesse durare a lungo? Ministri chiave quasi tutti meridionali; logica dei sussidi e dell'assistenza come asse portante del governo; sberleffi contro le richieste di autonomia (avanzate, si badi, non solo da Lombardia e Veneto, ma pure dall'Emilia Romagna); per non dire delle polemiche odiose contro la Regione più importante dal punto di vista produttivo, la Lombardia, condotte nel pieno dell'emergenza Covid.Terzo: la Lega è un partito strutturato e con un elemento di lealtà di fondo tra i suoi dirigenti. I quali discutono, si confrontano, ma poi difendono la linea scelta. Se qualcuno pensava di incunearsi tra Salvini e altri dirigenti o governatori regionali, aprendo una divaricazione, ha sbagliato i suoi calcoli. Lo stesso errore commesso da svariati osservatori a settembre, quando alcuni immaginavano che lo spettacolare risultato elettorale ottenuto in Veneto da Luca Zaia potesse portarlo in rotta di collisione con Salvini. Morale: forti emicranie non sono affatto diagnosticate dalle parti della Lega, ma a sinistra. È il Pd che ora deve fare i conti con l'idea di non poter più demonizzare il «perfido» Salvini. Né avrà vita lunga, sempre a sinistra, l'illusione che la Lega, tornando al governo, abbassi i toni sui temi della sicurezza e dell'immigrazione. Certo, anche la scommessa di Salvini e della Lega è ad alto rischio, e non è priva di incognite, a partire dalla composizione del governo, dalle priorità che Draghi sceglierà, e da un Parlamento in cui grillini e sinistra sono più numerosi. Ma sarebbe stato ben più rischioso per il segretario leghista non ascoltare il Nord produttivo e le imprese desiderose di ripartire. È quello il fattore che pesa: non certo il giudizio di analisti romani, fino a quattro giorni fa esagitati sostenitori del Conte bis (e magari anche di un ipotetico ter), che - non si capisce bene su quali basi - pensano ora di poter selezionare gli ingressi per il giuramento del nuovo governo. Va anche segnalato che, diversamente dalle profezie di alcuni, anche l'ala più eurocritica del partito, quella animata da Alberto Bagnai e Claudio Borghi, nonostante sia stata bersaglio di svariate provocazioni politiche e mediatiche, si è mossa con notevole saggezza. Le critiche di fondo ai difetti di questa Ue restano, e hanno una prospettiva lunga (lo dimostra plasticamente il flop europeo sui vaccini): altro conto sarebbe stato perdere un'occasione tatticamente irripetibile. Di più, anche gli euroscettici sanno che proprio Draghi ha le carte in regola (oltre che l'interesse diretto, trovandosi a Palazzo Chigi) per collaborare a una prima battaglia «eurocritica»: quella per evitare che i parametri del patto di stabilità, sospesi causa Covid, tornino troppo presto in vigore o - peggio - restino immutati. L'Italia ha tutto l'interesse e gli argomenti per cercare alleanze e cambiare almeno un pezzo delle vecchie regole europee.