2024-10-21
Alfonso Celotto: «Gravi rischi dai referendum online»
Alfonso Celotto (Imagoeconomica)
Tre mesi fa, il ministero della Giustizia ha inaugurato una piattaforma Web per promuovere le consultazioni. Il costituzionalista è perplesso: «Un influencer potrebbe trascinarci al voto con una campagna di marketing».Un milione e mezzo di firme digitali in poche settimane, oltre 1.000 ogni ora. Da quando, tre mesi fa, è stata inaugurata la piattaforma del ministero della Giustizia che consente di promuovere online i referendum, in Italia si festeggia il trionfo della democrazia a portata di mouse. «Innovazione cruciale», ha detto il ministro Carlo Nordio lanciando la novità. Ed Elly Schlein è raggiante: «Ho firmato online il referendum per cambiare la legge sulla cittadinanza. Ci ho messo meno di un minuto. Fatelo anche voi». Ma è davvero un’apoteosi della democrazia? Un invito alla riflessione arriva del costituzionalista Alfonso Celotto, ordinario di diritto costituzionale all’Università Roma Tre: «Attenzione, rischiamo di diventare la democrazia di Chiara Ferragni».Adesso possiamo promuovere un referendum dal divano di casa, anziché fare la coda ai banchetti in piazza. Cosa c’è di più bello e moderno?«Facciamo una premessa. La democrazia disegnata dalla nostra Costituzione ha un impianto ottocentesco, e tutto ciò che può servire ad alimentare la partecipazione deve essere ben accetto. Ma sulle firme online ho i miei dubbi».Quali dubbi?«Capisco che firmare dalla spiaggia sia più comodo che mettersi in fila al banchetto. Ricordiamoci però che la raccolta delle firme è solo uno dei momenti del referendum. Perché il voto sia valido occorre che vadano alle urne la maggioranza degli aventi diritto».Il quorum sarà comunque insormontabile?«Il quorum è sempre più difficile da raggiungere. La partecipazione purtroppo sta precipitando alle elezioni: figuriamoci ai referendum. Con la firma online rischiamo di finire sepolti da richieste di referendum che comunque si schianteranno contro il muro del quorum».Con quali conseguenze?«Lo Stato spenderà un sacco di soldi inutilmente. Gli uffici elettorali e la Corte costituzionale potrebbero rimanere impantanati da una mole assurda di richieste».Ma non aumenterebbe la partecipazione democratica?«Il rischio è l’opposto: l’illusione democratica. Con le firme online alimenteremo tante speranze nell’elettorato, che però finirebbero mortificate sotto la tagliola del quorum. Se i cittadini confidano che qualcosa possa davvero cambiare, e poi restano puntualmente delusi, la disaffezione popolare nei confronti delle istituzioni potrebbe paradossalmente aumentare».Se per promuovere un referendum occorre mezzo milione di click, un influencer popolare potrebbe trascinarci al voto con una semplice campagna di marketing?«È possibile. È la “democrazia del click”. Chiara Ferragni o il rapper Tony Effe potrebbero promuovere un quesito referendario a norma di legge in pochi minuti. E magari vincerlo».È preoccupato?«Pensiamo per un momento alla levatura di certe campagne di massa che circolano sui social. Di recente una giovane influencer ha lanciato una raccolta fondi per sottoporsi a un intervento di chirurgia plastica. In un solo giorno pare abbia raccolto 15.000 euro: se volessi racimolare la stessa cifra per finanziare un corso di diritto costituzionale, ci impiegherei mesi».Dunque?«È tutto impressionante, ma la democrazia dei social è fatta così. Puramente emotiva, fatta di scelte di pancia. Che però rischiano di svilire i circuiti democratici tradizionali. Nell’indifferentismo generale, il populismo ne esce vincitore. La politica si polarizzerebbe ulteriormente, l’inflazione di referendum ci metterebbe continuamente di fronte alla scelta “bianco o nero”. Passeremmo dal voto al “televoto” stile festival di Sanremo».Potere agli «youtuber»?«Sicuramente certi personaggi potrebbero avere buon gioco a dettare l’agenda politica, ma questa è una tendenza già in corso. Alle elezioni europee, a Cipro, è stato eletto a furor di popolo uno youtuber ventiquattrenne, Fidias Panayiotou, senza alcuna competenza. Ha preso quasi il 20 per cento dei voti. Se oggi fondassi su Instagram un “partito dei tatuaggi”, probabilmente sarei destinato anche io alla vittoria elettorale».Nello Rossi, ex magistrato di Cassazione e direttore di Questione Giustizia ha scritto: la firma online per il referendum «è una riforma radicale, tutta ancora da valutare nei suoi effetti e nella sua incidenza sul quadro politico istituzionale». «E i contraccolpi colpirebbero certamente anche il Parlamento, che resta il cuore pulsante della rappresentanza democratica. L’organo parlamentare è in crisi da tempo, e con questa novità rischia di dover rincorrere le mode del momento».Anche la genesi della legge sulle firme online è curiosa. Tutto nasce dalla necessità di garantire il diritto di voto alle persone con disabilità. Su questa infrastruttura si è inserito, nel 2021, un emendamento proposto da Riccardo Magi (+Europa), che ha esteso a tutti la facoltà di votare online.«Sì, il risultato è andato oltre le aspettative. Forse sarebbe opportuno introdurre dei correttivi. Ad esempio, si può stabilire un tetto per le firme digitali, e magari decidere che non possono superare il 20-30 per cento sul totale delle firme raccolte». Avrebbe preferito una riforma più organica su un tema così delicato?«È difficile fermare il progresso, e come dicevo anche la democrazia dovrebbe trarre giovamento dall’innovazione tecnologica. Ma non ha senso intervenire sui referendum senza introdurre un sistema organico di voto elettronico alle elezioni. Però, in questo caso, sorgerebbero altri problemi».Quali?«Se esprimo il mio voto dal salotto di casa attraverso il computer, semplicemente inserendo lo Spid e le mie credenziali, diventa difficile garantire la sicurezza e la personalità del suffragio. Il rischio è che si voti più di una volta, o che venga meno la segretezza del voto, o che si faciliti il voto di scambio. Rischi enormi, che al momento solo la cabina elettorale può scongiurare».Nell’epoca dell’Intelligenza artificiale e dei giganti della Rete, intravede dei rischi nella digitalizzazione della democrazia?«Ai giganti della Rete abbiamo già consegnato una grande fetta di potere, basata soprattutto sui dati personali. Oggi queste grandi entità stanno diventando una specie di Stato autonomo rispetto agli Stati tradizionali. Facebook si è dotato addirittura di un tribunale a sé stante. Di fronte a certe novità, è bene farsi domande sul futuro della democrazia. E procedere con cautela».Insomma, le firme online rischiano di svuotare l’istituto del referendum?«In parte è già accaduto. Negli ultimi cinquant’anni di vita repubblicana sono stati presentati una settantina di quesiti referendari. I primi - a cominciare dal divorzio - erano grandi occasioni di democrazia. Poi, quando abbiamo cominciato a chiedere ai cittadini un parere sulla composizione del Csm, la gente ha cominciato a sbuffare».All’estero esiste il voto online?«Un Paese certamente all’avanguardia è l’Estonia. Facevano i consigli dei ministri in diretta Facebook. Poi però si è scoperto che si riunivano prima nella stanza accanto e decidevano tutto in anticipo. Insomma, era una sceneggiata».Invece il referendum, nell’ordinamento italiano, è una cosa seria?«Assolutamente sì. Attraverso l’istituto del referendum è nata la Repubblica. Inizialmente, con il patto di Salerno del 1944, si era stabilito che la scelta sulla forma di Stato dell’Italia libera dovesse spettare all’Assemblea costituente. Ma i padri della nazione si resero conto che il Paese era troppo spaccato, e occorreva una consultazione popolare per avere un consenso forte. La videro lunga: la democrazia diretta è servita a integrare positivamente la democrazia di rappresentanza».Però i costituenti erano consapevoli dei rischi di un eccesso di referendum?«Sì, e per questo stabilirono una “soglia di serietà” piuttosto alta, 500.000 firme. È praticamente un doppio quorum. Sono state introdotte limitazioni anche sui contenuti: non si possono promuovere, ad esempio, referendum sulle tasse o sui trattati internazionali. Avevano imparato la lezione di Platone e Polibio, per cui il popolo si può anche ubriacare, e scivolare nella demagogia».Le firme online, insomma, rispettano lo spirito costituzionale?«Verrebbe da dire: o tempora, o mores».
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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