2023-05-15
Alessandro Campi: «Più poteri al premier. L’opposizione non può dire di no alla Meloni»
Il politologo: «L’elezione diretta ha poche chances, invece sulla sfiducia costruttiva c’è grande consenso. Giorgia deve sfruttarlo».Professor Alessandro Campi - politologo, editorialista e docente universitario - si parla di riforme costituzionali. Argomento noioso per definizione. Ci renda la materia avvincente, la prego!«Impossibile. A sentir parlare di riforme gli italiani (giustamente) si annoiano. Non perché, come spesso si sente dire, ritengano poco importante il tema. In realtà il buon funzionamento del sistema politico interessa tutti. Sono le chiacchiere senza costrutto degli ultimi trent’anni ad aver creato la diffidenza. Una delle cause, sia detto per inciso, del crescente disamore per la politica».La coalizione di centrodestra ha una maggioranza solida sia alla Camera che al Senato. Detto tra noi, ma è veramente necessario mettere mano alla Costituzione?«Sì! Se si ritiene che il sistema istituzionale funzioni male. Cosa sulla quale, mi sembra, esista un’ampia convergenza. Un consenso politicamente trasversale. Negli ultimi quindici anni, per ben due volte, abbiamo dovuto implorare il capo della Stato uscente di accettare un secondo mandato; inoltre siamo passati da un governo tecnico all’altro mentre abbiamo visto nascere in Parlamento maggioranze politiche assurde. Nel frattempo, è aumentato l’astensionismo elettorale e contemporaneamente si è sempre più abbassato il livello del ceto parlamentare. Cos’altro serve a dimostrazione della scarsa efficienza della nostra democrazia?». Non sarebbe la prima volta, e presumiamo neppure l’ultima, che si metterà mano alla Carta. Che giudizio dà, professore, di tutte le riforme intervenute fino ad oggi?«L’occasione veramente sprecata è stata la Bicamerale. Quella che vide protagonisti D’Alema con Berlusconi. Pesanti condizionamenti esterni, a partire da quelli della magistratura politicizzata, fecero passare l’idea che l’accordo tra forze politiche sulle riforme fosse in realtà un pericoloso inciucio da bloccare con ogni mezzo. Per paura, soprattutto della sinistra, tutto saltò ad un passo dal traguardo. La riforma del centrodestra del 2005 non venne invece difesa, nel referendum dell’anno successivo, nemmeno dai partiti che l’avevano proposta. Inevitabile che fosse bocciata senza onore dagli elettori. Quella di Renzi del 2016 si è infine trasformata in un plebiscito sul suo nome. Cosa che ha finito per avvelenare la discussione sul merito dei cambiamenti proposti dal centrosinistra con quella riforma».Sul tavolo si profilano due alternative. Da una parte l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Cosa peraltro inserita nel programma di coalizione del centrodestra. Dall’altra l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Le chiedo una previsione prima che un’opinione. Quale delle due andrà in porto?«Nessuna delle due! Il presidenzialismo, in variante statunitense o francese, deve scontrarsi con l’ostilità manifesta di molteplici forze. Da una parte c’è un fronte politico-parlamentare-informativo ampio e composito. Dall’altra c’è il grosso della dottrina costituzionalistica. Dunque non passerà mai. Aggiungo che questa formula comincia ad evidenziare problemi anche nei Paesi che l’hanno sperimentata da tempo. Rischia infatti di assecondare gli sbalzi d’umore, divenuti ormai incontrollabili, delle opinioni pubbliche. Aggiungo infine che un leader forte e legittimato dal basso, con partiti deboli come sono quelli attuali, rischia di fare ben poco. Il cosiddetto premierato (o sindaco d’Italia), che per coerenza sistemica dovrebbe essere basato sull’elezione e caduta contestuale del premier e della sua maggioranza, è invece una formula troppo rigida. Come dimostra il caso di Israele (unico Paese che l’ha sperimentato a livello nazionale), si rischia di produrre più instabilità di quella che si vorrebbe o dovrebbe curare». La severità del giudizio mi incuriosisce. Devo chiederle un’opinione. Quale delle due preferisce o comunque ritiene meno problematica?«Nessuna delle due. Personalmente lavorerei sull’elezione diretta di un capo dello Stato non governante, che abbia - come accade con l’attuale inquilino del Quirinale - solo funzioni di garanzia, equilibrio e rappresentanza dell’unità nazionale. È una formula già adottata in Paesi europei quali Portogallo, Finlandia o Austria. Mentre il presidente del Consiglio, opportunamente rafforzato nei suoi poteri, continuerebbe ad essere l’espressione della maggioranza parlamentare scelta dai cittadini. Un’elezione diretta del presidente della Repubblica, nel primo caso, ed indiretta del primo ministro nel secondo caso. Nessuno uomo o donna forte al comando grazie ad un voto plebiscitario. La legittimazione popolare andrebbe semmai al garante della Costituzione. Sono insomma per un sistema che chiamerei parlamentare-presidenziale. Una terza via tra parlamentarismo e presidenzialismo di cui però poco si parla».Da un argomento noioso ad uno noiosissimo. Dovremmo mettere mano alla legge elettorale con l’elezione diretta del premier. Giusto?«Le riforme, per funzionare, debbono essere organiche e di sistema. La legge elettorale sta fuori dalla Carta costituzionale, ma è uno strumento decisivo attraverso il quale stabilizzare il Parlamento. Quanto meno per provare ad imporre criteri di selezioni della classe parlamentare che diano a quest’ultima maggiore autonomia, più poteri e un diverso prestigio. Diversamente da quanto oggi accade».Lei ha più volte sottolineato come il metodo per arrivare ad una riforma sia importante tanto quanto la riforma in sé. È stato giusto partire a parlarne dopo nemmeno un anno dall’insediamento del nuovo governo con tutta una legislatura davanti?«I tempi scelti dalla Meloni sono stati quelli giusti. Le riforme vanno impostate ad inizio legislatura. Giusto anche il metodo: coinvolgere tutte le opposizioni anche per non dare loro alibi e quindi costringerle a venire allo scoperto. Naturalmente, non bisogna nascondersi il rischio di una congestione parlamentare, visto l’impegno che comporta già la realizzazione del solo Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ma questo non può essere una scusa per non provarci. Così come non vale nulla dire che le urgenze e necessità sono altre. Immagini se nella Francia dei tardi anni Cinquanta si fosse detto che non bisognava cambiare la Costituzione perché c’era una priorità ben più seria in quel momento: la guerra d’Algeria!». Il galateo istituzionale esigerebbe che qualsiasi sia la riforma approvata, questa dovrebbe entrare in vigore non nella legislatura immediatamente successiva ma in quella dopo ancora. Servirebbe, cioè, un periodo di decantazione. Concorda?«Mi pare che la Meloni sia stata chiara su questo punto. L’eventuale riforma, se approvata, entrerebbe in vigore nel 2029, proprio per non intaccare le prerogative del capo dello Stato». Presidenzialismo all’americana. Semipresidenzialismo alla francese. Parlamentarismo all’inglese. Cancellierato alla tedesca. Ma non sarebbe più semplice copiarne uno pari pari e chiusa lì?«Siamo il Paese di Vincenzo Cuoco. E lo ha spiegato bene, nelle sue celebri riflessioni sulla fallita rivoluzione napoletana. Qualsiasi sia la Costituzione, per funzionare, deve essere disegnata a misurata sulla gobba del Paese che dovrà poi indossarla. Ed ovviamente tutti i Paesi hanno una qualche gobba. Le Costituzioni sono architetture formali ma nascono dalla storia. Non esistono modelli che possono essere trasferiti meccanicamente da una nazione all’altra. A noi servono riforme all’italiana, cioè per gli italiani e l’Italia». Ma al dunque cosa dovrebbe fare la presidente Giorgia Meloni, dinnanzi al sicuro muro delle opposizioni e di fronte al rischio di sgambetti all’interno della sua stessa maggioranza?«In politica si fa quel si può, non quel che si vuole. Se il confronto con le opposizioni dovesse farsi inconcludente o troppo duro, piuttosto che affrontare una battaglia parlamentare in sé insidiosa, ed un passaggio referendario che potrebbe esserlo ancora di più, proverei a portare a casa il minimo. Vale a dire il rafforzamento degli attuali poteri del presidente del Consiglio. Ben sapendo che sarebbe in realtà il massimo. Per come è andata in Italia la partita delle riforme, già solo introdurre una misura di stabilizzazione come la sfiducia costruttiva sarebbe un fatto storico. Giorgia Meloni, che ha voluto aprire la stagione delle riforme, si intesterebbe il merito di essere riuscita laddove tutti gli altri predecessori hanno fallito. D’altro canto, su questa opzione “minimale” che io definirei neo-parlamentarismo razionalizzato - minimale rispetto al presidenzialismo, ma non in senso assoluto - tutte le opposizioni si sono dichiarate disponibili e d’accordo. Sarebbe quindi difficile per loro sottrarsi all’impegno, se non accampando scuse che sarebbero però poco convincenti persino per i loro stessi elettori. Dicendo no al presidenzialismo in modo pregiudiziale e ideologico, in realtà, le opposizioni hanno servito su un piatto d’argento alla Meloni la soluzione perfetta per fare le riforme in fretta e bene».
Jose Mourinho (Getty Images)