2025-02-02
Le toghe dribblano persino la Cassazione. Se ne uscirà solo con un blitz in Europa
Nei verdetti sull’Albania l’esame dei singoli casi è sbrigativo. Sui Paesi sicuri va anticipata la validità delle nuove norme Ue.Il braccio di ferro sul protocollo Italia-Albania aggiunge benzina sul falò divampato tra centrodestra e magistratura. Il guaio è che non tutti, nella maggioranza, sembrano aver colto il nocciolo della questione. È inutile, ad esempio, aggrapparsi alla sentenza degli ermellini, che assegnava alla politica il compito di definire la lista dei Paesi sicuri, se poi quella stessa decisione, in linea con l’orientamento dei giudici europei, affidava ai magistrati il compito di valutare, nei singoli casi, la compatibilità delle designazioni con i principi del diritto comunitario. Semmai, la vulnerabilità dei provvedimenti sfornati dalla Corte d’Appello di Roma sta proprio nell’incompletezza delle analisi «caso per caso»: di questo approfondito esame, almeno nei documenti che ha potuto consultare La Verità, non si scorge traccia. Non si capisce come ciascun richiedente protezione internazionale «abbia adeguatamente dedotto l’insicurezza» del suo Stato di provenienza «nelle circostanze specifiche in cui egli si trova», come prescriverebbe la Cassazione. Nelle 25 pagine di una delle sentenze vergate, venerdì, dalla giudice Maria Rosaria Ciuffi, si fa un cenno a dei «dubbi in ordine alla possibile vulnerabilità» di uno dei bengalesi che era stato trasferito a Gjadër, alla luce del «racconto del recente vissuto del richiedente in Libia». Ma a parte l’assenza di dettagli utili, questi «dubbi» avrebbero rilevanza per la liceità di applicare allo straniero la procedura accelerata di esame della domanda di protezione internazionale. Abbastanza, sì, per bloccare il trattenimento nel Centro per i rimpatri balcanico. Nulla a che vedere, invece, con la determinazione dei Paesi sicuri, con il verdetto Ue del 4 ottobre scorso e con la disputa sulle «eccezioni». Proviamo a vederci chiaro. L’altro ieri, la Corte d’Appello di Roma è tornata a contestare l’elenco stilato dall’esecutivo ed elevato al rango di legge, quindi di fonte giuridica primaria, per sottrarlo alla debolezza del decreto interministeriale che era stato approntato la scorsa primavera. Un tentativo vano: secondo i magistrati, le norme europee sono comunque sovraordinate. Le toghe si sono appigliate a «fonti ministeriali», dalle quali si evincerebbe che in Bangladesh - ma lo stesso discorso vale per l’Egitto - «le condizioni di sicurezza […] non sono rispettate per tutte le categorie di persone».Ecco: in ballo c’è una lettura estensiva del verdetto del tribunale del Lussemburgo, con cui si stabiliva che un Paese può essere considerato sicuro solamente se lo è nella sua interezza. Ora, il quesito che i nostri giudici rivolgono ai colleghi in Europa è il seguente: bisogna escludere le «eccezioni» solo se riguardano porzioni di territorio, o anche certi gruppi di individui? Basti pensare agli omosessuali o ad altre minoranze. L’udienza nel Lussemburgo è fissata per il 25 febbraio. Se i giudici dell’Ue seguissero quelli italiani, bandendo ogni tipo di «eccezione», diventerebbe pressoché impossibile proteggere i confini. Salterebbero le procedure accelerate, il rimpatrio veloce e, con essi, il modello Albania. L’opposizione stapperebbe lo champagne, anche se dovrebbe spaventarla il rischio che venga compromesso l’intero sistema delle espulsioni. Occhio: non è proibito in senso assoluto rispedire uno straniero in un Paese non sicuro; ma di certo è molto più complicato. Aspetto non secondario, che nemmeno i progressisti dovrebbero sottovalutare: l’autonomia della politica risulterebbe sbriciolata dall’arbitrio della magistratura. La quale, sia in virtù del pronunciamento del 4 ottobre (Corte europea), sia in virtù di quello del 19 dicembre (Cassazione), conserva la facoltà di vanificare le designazioni governative dei Paesi sicuri, in sede di convalida dei trattenimenti nei Cpr, o magari di ricorso.Come uscirne? Finora, tutti gli stratagemmi per scavalcare il muro delle toghe sono falliti. Non è servito trasformare il decreto interministeriale sui Paesi sicuri in un decreto legge; non è servito trasferire le competenze sui trattenimenti dei migranti alle Corti d’Appello, dato che in quella di Roma, competente sull’Albania, sono stati ricollocati gli stessi giudici della sezione immigrazione del tribunale; non è servito invocare il verdetto degli ermellini sui compiti che spettano al governo. Resta l’ultimo vero jolly: Bruxelles.A metà dicembre, Ursula von der Leyen, in una lettera ai 27, aveva annunciato: «Stiamo accelerando la revisione del concetto di Paese sicuro». L’obiettivo è arrivare, forse a marzo, a una lista unitaria. È la premessa indispensabile per serrare i ranghi sui rimpatri, come auspicato dal commissario agli Affari interni, Magnus Brunner. Il colpaccio sarebbe riuscire ad anticipare l’entrata in vigore almeno del contenuto dell’articolo 61 della nuova direttiva Ue, che sostituirà quella del 2013, ma che scatterebbe solo dall’ estate 2026. Il comma 2, infatti, prevede esplicitamente che la designazione di un Paese sicuro possa «essere effettuata con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili». Vedete? Così, la posizione della Corte d’Appello di Roma e dei vari tribunali sparsi per l’Italia, che si sono rivolti al Lussemburgo, diverrebbe completamente irrilevante. Primato del diritto Ue: Bruxelles locuta, causa soluta. Per giungere a questo risultato, occorrerà riscuotere i frutti del credito politico che Giorgia Meloni si è guadagnata. E confidare che davvero, nel continente, il vento sia cambiato. Se passasse questa logica, ai nostri magistrati non rimarrebbe più nulla cui «resistere, resistere, resistere».
Jose Mourinho (Getty Images)