
Se vi accorgete che inizia a fioccare, prendete la macchina e recatevi in un posto isolato. Spegnete il motore e godetevi il risveglio del giorno ricoperto di bianco. Il silenzio si riempirà di suoni inaspettati che vi faranno tornare alle vostre origini.Negli ultimi anni godere di un’abbondante nevicata non è stato facile. Quantomeno per coloro che non abitano in aree di alta montagna o tradizionalmente raggiunte, magari a gennaio o a febbraio, da intense nevicate. Ai piedi dei monti, qui nel torinese, la neve l’abbiamo vista ma sempre in versione «lait», straleggera, durava sempre pochi giorni. Quest’anno, fin dagli inizi di dicembre, invece la neve si è presentata come si deve, e si è accumulata fino a 25-30 centimetri, tutti di fila. Sapendo del suo arrivo, e anche sperando che le previsioni fossero minimamente attendibili, la mattina mi sono alzato molto preso e ho attraversato alcuni comuni, abbandonando questo ultima falsa pianura che termina proprio nell’orto di casa mia, per risalire fino al passo del colle del Lys, spartiacque fra la Valsangone / bassa Valsusa e la val di Viù, due delle piume che compongono il ventaglio di valli alpine del Piemonte. Nel buio che anticipa l’alba risalivo piano i tornanti, solcando strade velate da un paio di centimetri di materia bianca, nella completa solitudine di queste ore transitavo accanto alle case addormentate, e alcune già ricoperte di innumerevoli lucette, babbi natali, alberelli luminescenti e renne dalle corna semoventi. Buio attorno a questi eden luminosi e buio dentro le finestre. Sopra ogni casa potevo immaginare i fumetti dei sogni che i rispettivi abitanti stavano ancora tramando, o quantomeno mi divertiva pensare a quel che potrebbe abitare ciascuna di queste case: i volti, le manie, gli oggetti affastellati nelle stanze, il saluto o i silenzi che accompagnano il risveglio dei coniugi, dei figli, degli anziani. Le esistenze delle altre persone sembrano sempre così colme di significati e di opzioni che non rientrano nelle nostre abitudini. I fari della vettura illuminavano le basi di alcuni alberi secolari: un cedro, un faggio, un bagolaro, altri cedri himalayani. La comparsa delle fronde di alcuni larici sulla mia sinistra segnalava l’arrivo al passo del Lys, a 1.311 metri. La strada è ben coperta, le ruote avanzano lentamente, un vento più sostenuto agita turbini di neve sottile e pulviscolare. Il buio ci circonda ancora, da pochi minuti sono passate le 7 e la luce dell’alba deve ancora maturare. Lo farà nella mezz’ora seguente, nel frattempo trovo un posto a lato strada, spengo il motore e mi metto in ascolto. La temperatura è bassa, siamo sotto zero ma non molto, altrimenti non nevicherebbe. Soffi e sbuffi di vento fanno oscillare l’auto e allora incrocio gli scarponi, le gambe, le mani in posizione e socchiudo gli occhi. Cerco di meditare in questo posto altro, vorrei uscire e abbandonarmi accanto agli alberi che vedo qui, soprattutto quegli spogli che si trovano a pochi metr ma ho ancora una lunga giornata davanti a me. Così resto qui dentro, dentro queste lamiere sottili, al riparo di alcuni vetri temprati. Abbasso di un centimetro il vetro di modo da percepire il suono della neve che cade sulla macchina e quel che mi diverto a chiamare «il respiro dell’alba». Poco prima delle 8 la luce inizia a gonfiarsi, gli alberi che prima vedevo grazie ai fari ora sono spettri affogati in una luce bluastra. Il parabrezza è completamente ricoperto di neve. Due trattori giganti risalgono le strade e spazzano la neve. Ciascuno ha quattro grossi fari rotondi che illuminano il piazzale del passo quasi a giorno. Finito il loro lavoro migrano uno dietro l’altro scendendo verso Viù, dalla parte opposta di dove sono arrivato. Così mi decido, dopo un paio di minuti, a scendere per raggiungere la luce del giorno, magari fermandomi per qualche scatto fotografico tra le faggete più dense e articolate presenti nei primi chilometri, prima delle frazioni che anticipano l’arrivo in fondo valle. Il bianco lunare del mattino che va a comporsi mi investe, in questa valle stretta le nevicate sono più abbondanti: quando ad Avigliana o in Valsangone la neve inizia a manifestarsi in Val di Viù è facile che sia già a terra da diverse ore. O comunque che cada con maggiore intensità. Infatti le strade sono completamente bianche, i campi indistinti, i tetti delle case che spuntano di tanto in tanto imbiancati e qualche fumo esce dai camini. Nessuno per strada, solo qualche corvo che taglia in due un pezzetto di cielo, il cielo basso e uniforme delle giornate di neve fitta. Ad un rettilineo mi fermo. Voglio cercare di fotografare la neve che cade passando attraverso le mille mani dei rami spogli che costeggiano il corso della carreggiabile. Quasi un mondo in bianco e nero, o meglio in bianco e marrone. Alcuni faggi hanno tronchi secolari. L’uomo che cammina in questi paesaggi è spesso sorridente, fremente, c’è in lui attivo un motore, un fuoco che lo entusiasma, anche se stai faticando e fa freddo, e probabilmente la giacca giusta l’hai lasciata a casa, ma non importa. Forse è anche tutto questa luce riflessa che ti galvanizza, chissà.Rivivendo per l’ennesima volta l’esperienza infantile che mi riporta al bambino che usciva per danzare sotto i fiocchi che cadevano, oppure per scivolare da un pendio sopra una tavola capovolta, un bob, quando c’era, o compattare la neve per fare un pupazzo dagli occhi di sasso e le mani di olmo, mi sovviene una teoria di cui ho letto pochi giorni fa. In un bellissimo libro illustrato dedicato ai funghi si cita una teoria antropologica, la teoria della scimmia ebbra. Secondo questa ipotesi gli ominidi, i nostri antenati più arcaici, ben prima dell’invenzione dell’homo erectus e dell’homo sapiens, nutrendosi di funghi avrebbero provato una serie di esperienze psichedeliche che hanno spalancato le funzioni del cervello ancora in piena evoluzione a qualcosa che superasse la mera percezione del dato sensibile, fisico, come dire obiettivo. Quegli esseri preumani iniziavano a percepire un legame col cosmo e con l’universo enorme che ci inghiotte, oltre la mera fisicità del mondo sensibile. Qualcosa iniziò a scaturire, a fermentare, primi barlumi di mistica, di religione, di superstizione, di visione. O chissà, se poi l’aver continuato a nutrirsi di funghi e l’aver provato sensazioni forti non abbiano comunque operato anche in tutte le fasi successive fino all’arrivo dell’Homo sapiens sapiens, ovvero tre minuti fa, se consideriamo la storia di questo piccolo pianeta tondo che galleggia alle periferie della galassia. Cosa unisce quell’ominide, quella scimmia ebbra di un milione di anni fa e l’essere umano che sono diventato?
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Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
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