2022-01-31
Andrew Spannaus: «Agli Usa interessa un’Italia stabile e Mattarella è okay»
Sergio Mattarella e nel riquadro Andrew Spannaus (Ansa)
Il giornalista: «L’importante è che non cambiate i rapporti con la Nato dopo avere firmato il memorandum con la Cina».«Ne hanno parlato tanto. Da mesi. Pensavo fosse una tattica e che alla quarta votazione fossero d’accordo su chi votare. Invece non era così». Andrew Spannaus, giornalista americano fra i più ascoltati della stampa estera in Italia, ma soprattutto analista di geopolitica, docente universitario e animatore-fondatore di Transatlantico.info commenta a caldo in perfetto italiano la tormentata rielezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica.Gli americani volevano Draghi?«Draghi ha relazioni forti con gli Usa e questi si rimettono al giudizio degli interlocutori italiani prima di assumere un orientamento. A Washington interessa soprattutto la stabilità in un Paese che ha firmato tre anni fa un memorandum di intesa con la Cina». È più cruciale per loro il Quirinale o Palazzo Chigi?«Il ruolo del presidente della Repubblica è cambiato molto negli ultimi anni. Sempre più centrale. Una svolta semipresidenziale può anche piacere a patto che garantisca stabilità. Ma interessa soprattutto il posizionamento dell’Italia nello scacchiere internazionale (Nato e rapporti con la Cina)».Nel 2020 -3,4% e nel 2021 +5,7%. L’economia USA è tornata subito in salute. Gli americani hanno finto che il Covid fosse una terribile crisi economica mettendo a terra una mole smisurata di stimoli?«La pandemia ha accelerato una correzione di rotta rispetto alla globalizzazione. Già in atto con la presidenza Trump. Ne ho parlato nel libro L’America post-globale. Un ripensamento dell’impianto neoliberista e una maggiore attenzione all’industria. Gli stimoli sono stati imponenti. Ma in America non esiste uno stato sociale e assistenziale come in Europa. È stata una scelta ragionevole».Un cambiamento repentino di rotta. Dove soprattutto?«Nessuno si è preoccupato più del debito pubblico o del deficit. Chiunque si è accorto giustamente che l’America può spendere tutti i dollari che vuole in emergenza. Nessuno deve ripagare quel debito. È una partita di giro dentro le istituzioni. E Biden da centrista moderato si è voluto trasformare in un moderno Roosevelt che affronta i problemi degli americani. Uno su tutti: la precarietà».Che crisi economica è stata?«È aumentata la domanda di beni mentre crollava quella dei servizi. Il problema è “fisico”. Non monetario. Ci sono tanti soldi che vogliono comprare cose che però non arrivano. Filiere produttive interrotte. Materie prime che mancano».Il Partito democratico ha smesso di essere il partito di Wall Street?«In America come in Europa i democratici, e quindi la sinistra, spesso sono stati più efficaci nell’imporre misure liberiste. Obama aveva promesso di correggere la politica inaugurata da Clinton riuscendoci solo in parte. Ma le parole d’ordine su cui ha vinto Trump, tipo “riportare a casa la nostra industria”, oggi sono patrimonio anche dei Dem. La svolta post globale di cui parlavo».Nel 2008 scoppia la grande crisi finanziaria. Il Pil dell’eurozona era grosso modo pari a quello americano. Nel 2019 era sceso a poco più del 60%. Vista la forte crescita americana post-pandemia questo divario aumenterà? L’Europa diventerà un nano di fronte al gigante americano?«In parte concordo. Ma in parte trovo il giudizio troppo severo. L’Europa ha ancora una solida base manifatturiera. Anche in settori avanzati. È vero però che la sua economia soffre da tempo. Un dolore in buona parte “autoinflitto”. Basti pensare alla crisi dei debiti sovrani del 2011. Una cosa solo europea. E l’Italia ha visto crollare del 20% la produzione industriale. Un sacrificio non necessario imposto da regole sul debito, sul deficit e dalle raccomandazioni della Commissione Ue. Sia chiaro anche gli Stati Uniti “fanno casino”. Ma rimediano prima agli errori. Siamo più veloci. Più flessibili. E l’Italia ora fronteggia un problema di debito pubblico. Che non sarebbe tale senza le regole europee. Il loro cambiamento darà risultati insoddisfacenti, temo».Prenda la sfera di cristallo e ci dica come finiranno in USA le elezioni di midterm del 2022. Si rinnoverà, come ogni due anni, l’intero Congresso e un terzo dei senatori.«I democratici perderanno la maggioranza alla Camera; e probabilmente anche quella al Senato. Accade spesso che il presidente in carica sia sconfitto in questi appuntamenti. Potrebbe essere uno tsunami per i dem».I motivi?«I dem non riescono a far passare tutte le proprie proposte. Mesi e mesi che litigano fra loro. In compenso descrivono l’America come un Paese bigotto e razzista. Ma la narrazione all’insegna del politicamente corretto non convince molti elettori. Non sanno parlare a questa parte di America». La sua Virginia è tornata a essere repubblicana con la vittoria del governatore Youngkin.«Un businessman moderato che il suo avversario, politico di professione, voleva far passare da estremista trumpiano. Lui invece ha parlato di cose concrete. Dicendo anche che nel nome dell’antirazzismo si rischiava in realtà di promuovere divisioni razziali. E che era sbagliato introdurre nelle scuole i temi del gender o Lgbt. Ha vinto. Ma i due partiti si alternano spesso alla guida della Virginia».Biden si candiderà ancora?«Improbabile sebbene sia in condizioni fisiche migliori di quanto mi aspettassi. Non vedo segnali preoccupanti di declino cognitivo. A Washington mi dicono essere molto presente. Kamala Harris vuole candidarsi ma non convince tutti. I democratici che “scaldano i cuori” come Sanders hanno dato un contributo importante, ma non avranno più lo stesso ruolo. Il ministro dei trasporti Buttigieg potrebbe emergere come contendente».Cognome impronunciabile pure per gli americani. Può essere un handicap?(Ride). «Ora che gli americani lo conoscono, no. E comunque ci sono altri nomi da seguire. Roy Cooper, governatore North Carolina, Gretchen Whitmer, governatrice Michigan, e Amy Klobuchar, senatrice Minnesota, già candidata nel 2020. Tanto per rimanere su cognomi impronunciabili».E nel partito repubblicano?«Trump è vincente dentro il partito ma perdente contro ogni possibile competitor alla Casa Bianca. Non accettando la sconfitta - e dopo i fatti di Capitol Hill - è diventato “tossico”. I suoi problemi giudiziari non sono da sottovalutare. È influente ma impresentabile. Ted Cruz ha troppi problemi di immagine oltre un certo mondo conservatore. Mike Pompeo vorrebbe provarci. Marco Rubio si sta spendendo molto sui temi di politica industriale. Meno Wall Street e più imprese. Ron De Santis al governo della Florida sta diventando molto popolare e si è detto pronto a sfidare Trump».La pandemia ha acuito le differenze fra stati repubblicani e stati democratici? I primi più libertari e i secondi più intransigenti? «Grandi differenze di approccio fra i vari Stati, è vero. Gli Usa sono uno Stato veramente federale: il presidente non può stabilire per decreto zone gialle o rosse. Gli Stati repubblicani sono stati tendenzialmente meno restrittivi. La libertà personale non si tocca neppure in emergenza. L’America più rurale non è stata interessata dai lockdown come, ad esempio, New York. Ma intendiamoci. A Washington tutti con la mascherina. Ma nel supermercato a un’ora dalla città spesso solo un terzo dei dipendenti la indossava». Quanto ai risultati?«Il Mississippi che ha bassi tassi di vaccinazione ha fatto male. Ma il Nebraska con caratteristiche analoghe ha fatto meglio. Mentre gli stati di New York o New Jersey con le loro chiusure hanno fatto male. In finale, chi ha chiuso molto ha forse ottenuto risultati un po’ migliori ma non troppo. Il virus non ha risparmiato nessuno».Come hanno vissuto gli americani il disastroso ritiro dall’Afghanistan? Un passo doloroso e necessario o un’umiliazione?«Una questione di testa e di cuore per gli americani. Il 70% vuole uscire dalle guerre in Medio Oriente e soprattutto dall’Afghanistan. Ma andare via così è stato imbarazzante. C’è stato un evidente errore di valutazione. Il ritorno di immagine per gli Stati Uniti è stato negativo. Non è tanto l’andare via ma il come è stato fatto. Un’operazione pasticciata».Riprenda la sfera di cristallo. Come va a finire in Ucraina?«I russi dicono che non ci sarà un’invasione. Lo stesso dice il governo ucraino. E lo stesso pensano a Washington. Sembrerebbe una messinscena. Ma può sfuggire di mano. La Russia vuole trattare e ottenere risultati concreti. Non le basta la promessa che l’Ucraina non entrerà mai nella Nato anche perché in passato gli americani hanno violato questo patto facendo entrare molti stati dell’Europa orientale. È però vero che non puoi entrare nella Nato se hai contenziosi internazionali o dispute territoriali. Come appunto l’Ucraina con la Russia. Intanto l’America manda armi e rifornimenti. Beni non servizi, per intendersi».La Russia oggi è vicina alla Cina. Insieme possono essere una minaccia. Le armi e risorse naturali di Mosca unite alla potenza economica di Pechino. Un errore della politica estera di Biden?«Il partenariato strategico Mosca-Pechino va osservato attentamente. La Russia deve essere un nostro interlocutore. Questo non vuol dire abbracciare Putin. Ma dialogarci non è un tradimento. Del resto, la politica estera russa è articolata. Mosca ha ricevuto il presidente iraniano rimarcando un fatto fastidioso. Teheran non può avere con Mosca relazioni commerciali a condizioni peggiori di quelle assicurate a Pechino. La crescita degli attriti tra Russia e Cina non sfugge agli occhi di Washington».
Jose Mourinho (Getty Images)