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2023-06-10
Luci e ombre dell’accordo sui migranti. La chiave di tutto rimane la Tunisia
Avanti e indietro. In una settimana due volte in Tunisia. Giorgia Meloni dopo aver trascorso la mattina di mercoledì nel Paese africano, tornerà domani al palazzo presidenziale di Kaïs Saïed. Stavolta in compagnia della presidente della commissione Ue, Ursula von der leyen, e del premier olandese Mark Rutte. La notizia anticipata ieri dalla Meloni è che porteranno la prima valigetta di aiuti. «È grazie al lavoro molto prezioso che l’Italia ha fatto, insieme a quella missione, che si dovrebbe concretizzare il primo pacchetto di aiuti della commissione che è anche propedeutico a favorire l’accordo con il Fmi. A Tunisi e Fondo monetario», ha spiegato ieri, «chiedo un approccio il più possibile pragmatico e non ideologico e mi pare che su questo si stiano facendo passi in avanti». In pratica, incassa un vittoria diplomatica molto importante sul fronte dell’Ue. Fino a marzo lo stesso commissario all’Economia, Paolo Gentiloni, si era dichiarato in linea con Germania e la classe dirigente di Bruxelles contrario a qualunque sostegno finanziario. Nonostante la crisi imminente e il rischio di una ulteriore ondata migratoria. A seguito delle pressioni italiane qualcosa si è smosso. Gentiloni è volato a Tunisi e poi numerosi incontri fino al coinvolgimento della commissione confermato a inizio settimana. Meloni, dando la notizia dello sblocco dei fondi, fa anche capire che è consapevole della storia di Saïed e dei movimenti che l’hanno sostenuto fino ad oggi. Compreso il ruolo che la Fratellanza musulmano continua a rivestire nella società tunisina. Il riferimento al possibile semaforo verde del Fmi (per la propria tranche di aiuti) è, invece, chiaramente una richiesta diretta agli Stati Uniti per togliere il presidente tunisino dalla loro lista nera. Per il resto l’obiettivo della missione di domani è frenare i flussi migratori illegali che hanno portato in Italia oltre 50.000 persone da inizio anno, un flagello che colpisce entrambe le sponde del Mediterraneo e miete vittime in mare e nel deserto. Sul fascicolo dei flussi migratori, la sinergia tra il nostro governo e quello di Tunisi è parsa evidente, al punto che i discorsi di Meloni e Saïed sull’argomento coincidono quasi totalmente. L’Italia, peraltro, ha accolto la proposta tunisina per realizzare una «conferenza internazionale» sul tema delle migrazioni e, anzi, ha annunciato che ospiterà a Roma un evento che si sposa perfettamente con il cosiddetto Piano Mattei per l’Africa.
Insomma, sembra essere passato il concetto che la Tunisia è l’ultimo baluardo. Se crollasse il Paese maghrebino l’ondata di flussi migratori sarebbe così imponente e travolgente che si potrà rischia di sguarnire ancor di più le altre aeree del Sahel, lasciando ai russi di Wagner campo libero per rafforzarsi ulteriormente. In questo momento i militari francesi sono al loro livello minimo nella presenza in Sahel. Praticamente cacciati dai russi dal Mali, dal Burkina Faso e dalla Repubblica Centrafricana dovranno concentrarsi (probabilmente con l’aiuto congiunto Ue e italiano) sui Paesi rivieraschi del Golfo di Guinea che a loro volta sono sotto schiaffo dei movimenti terroristici che premono da Nord. Dall’altro lato, i mercenari di Vladimir Putin da qualche mese si muovono con estrema disinvoltura a Port Sudan. Da lì, dalle acque del Mar Rosso, la longa manus del Cremlino può far arrivare rifornimenti e infilarsi in profondità nel Sahel. Non è un caso se la capitale del Sudan, Khartum, è stata travolta da un colpo di Stato meno di un mese fa. L’ennesimo golpe africano.
Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, tenterà la prossima settimana di convincere l’Fmi ad accettare una volta per tutte la proposta italiana per sbloccare il maxi-prestito da 1,9 miliardi dollari: una prima tranche andrebbe erogata subito, una seconda a riforme avviate e infine una terza quando verranno concluse le misure di contenimento della spesa pubblica e il risanamento dell’economia. Ma non sarà semplice trovare un compromesso tra il netto rifiuto di Saïed di accettare «direttive preimpostate», come ad esempio l’impopolare rimozione dei sussidi, e la rigidità dei canoni dell’Fmi. Se però la trattativa si sbloccasse allora comincerebbero a incastrarsi i vari elementi del puzzle. Sul fronte europeo procede la mediazione del ministro Matteo Piantedosi. Votato il piano di ricollocamenti, adesso bisogna lavorare ai dettagli che sono sempre forieri di sorprese. Anche qui però la Tunisia resta una chiave di volta. Lo schema Ue prevede la possibilità di rimpatriare i migranti irregolari non nei loro Paesi di origine, ma anche nei Paesi di transito, a patto che siano considerati «sicuri», grazie al concetto di «connessione». È chiaro che la Tunisia si candida a essere il Paese terzo più vicino all’Italia e quindi indirizzo di invio dei ricollocamenti. Non ci sono tanti altri Paesi. La Libia potenzialmente sì, ma è in guerra. Egitto ed Algeria hanno politiche contraria. Marocco non se ne parla. Nella fascia subsaharia si candida il Niger e forse in un lontano futuro, nel Corno d’Africa, la Somalia.
Passo in avanti sul diritto d’asilo. Un patto con dei possibili inciampi
Il Patto sull’immigrazione approvato l’altra sera dal Consiglio Ue, passato a maggioranza qualificata con il voto contrario solo di Polonia e Ungheria (astenute Malta, Lituania, Slovacchia e Bulgaria) e che dovrà essere mediato con il Parlamento europeo, si è sviluppato su due direttrici: la Procedura d’asilo (Apr) e la Gestione dell’asilo e della migrazione (Ammr). Il governo italiano, sui punti indesiderati ha tentato di dominare le mediazioni, portando dalla sua anche alcuni Paesi del Nord Europa. E, così, dopo sette anni di negoziati, i governi dell’Unione europea hanno trovato un’intesa per aggiornare le norme sul diritto d’asilo, introducendo elementi di solidarietà (per aiutare i Paesi di primo approdo), ma anche più vincoli nella gestione degli ingressi. Che graveranno proprio sull’Italia. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, però, ha ottenuto meno limiti nelle procedure per le espulsioni, anche verso i Paesi in cui sono transitati. E che i 20.000 euro a migrante dei Paesi che decideranno di non accogliere non andranno allo Stato che se ne farà carico, ma ai Paesi terzi sicuri nei quali verranno respinti gli irregolari. La proposta che voleva istituire dei campi profughi a pagamento, e che aveva fatto storcere il naso al governo di Giorgia Meloni (che giudica l’accordo «un passo in avanti»), quindi è stata ritoccata. Polonia e Ungheria hanno votato comunque contro (e se per Viktor Orbán «l’Ue abusa del suo potere», Mateusz Morawiecki ha bocciato ricollocamenti e contributi finanziari). Anche perché il Patto, pur permettendo dei passi in avanti, presenta delle ombre e anche delle zone grigie. Tra queste, per esempio, c’è un passaggio sul «numero minimo annuale» di ricollocamenti, stabilito in 30.000. Un dato che, confrontato con quello dei trasferiti nell’ultimo anno (1.500), sembra derubricare la norma a un buon proposito. Proprio come il meccanismo di solidarietà, che permetterebbe di scegliere tra redistribuzione e finanziamento di 20.000 euro a migrante ai Paesi terzi sicuri. Sempre che, di fatto, sia realmente applicabile. Poi ci sono le ombre. In primis le procedure di frontiera obbligatorie, «con lo scopo di valutare rapidamente» le domande già ai confini. Una norma che grava proprio sull’Italia. Come anche quella sulla «capacità adeguata, in termini di accoglienza e risorse umane», che fissa la quota a 30.000 migranti, per «svolgere le procedure di frontiera». A livello Ue «questa capacità adeguata è di 30.000 persone». Il calcolo che ha fatto il Consiglio tiene conto del numero di attraversamenti irregolari e dei rimpatri su un periodo di tre anni. Una formula che appare poco applicabile. L’Italia chiedeva un tetto a 20.000 ma, nonostante gli sforzi, Piantedosi ha dovuto rinunciare. Terza fregatura: «Lo Stato membro di primo ingresso sarà competente per la domanda di asilo per una durata di due anni». La norma sembrerebbe favorire l’Italia, visto che Dublino estendeva la responsabilità a tutta la durata della pratica. Subito dopo, però, nel Patto è stato inserito un ulteriore dettaglio, che dispone la possibilità di presentare la domanda solo «negli Stati membri di primo ingresso o di soggiorno legale», scoraggiando così i movimenti secondari e limitando le possibilità di cessazione o trasferimento della responsabilità tra gli Stati membri. La possibilità per il richiedente di scegliere lo Stato membro in cui presentare la domanda risulta quindi particolarmente compressa. Gli altri punti approvati sembrano, almeno sulla carta, affermare dei principi accettabili. Primo su tutti stabilire una «procedura comune in tutta l’Ue» da seguire «quando i migranti chiedono protezione internazionale». Evitando così le varie scorciatoie che hanno permesso a chi non aveva i requisiti per ottenere la protezione internazionale di rientrare tramite altri escamotage. I tempi saranno più snelli: 12 settimane per stabilire chi può ottenere asilo e chi no. Inoltre, chi proviene da un Paese «che ha un tasso di riconoscimento della protezione internazionale inferiore al 20 per cento non sarà autorizzato a entrare nel territorio dello Stato membro». E «i Paesi di primo ingresso non avranno più la responsabilità permanente per i migranti ai quali viene rifiutato l’asilo (ora fissata a 15 mesi)». Le persone salvate in operazioni Sar, poi, «saranno sotto tutela dello Stato solo per 12 mesi», al contrario dei 24 applicati agli altri richiedenti asilo. È previsto anche un «Piano di finanziamenti straordinario Ue» per il rafforzamento di accoglienza e dei sistemi di asilo «dei Paesi di primo ingresso». Infine, sempre sulla carta, davanti all’impossibilità di rimpatriare gli irregolari nei loro Paesi d’origine, si potranno inviare i migranti in Paesi terzi, purché siano sicuri e sia stabilita una «connessione» con la persona. Sui concetti di connessione e di Paese terzo sicuro il dibattito è stato duro. La mediazione ha portato a questa conclusione: i Paesi terzi dovranno essere ritenuti sicuri dagli Stati membri e dovrà essere provata la permanenza (ma dovrebbe essere sufficiente anche il transito) del migrante in quel territorio. Resta da capire cosa sarà realizzabile.
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La novità del ricollocamento in Paesi di transito può funzionare solo se si puntella Kaïs Saïed. Domenica Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen portano la prima tranche di aiuti Ue. Poi tocca al Fmi.Dopo sette anni di negoziati, i governi dell’Unione europea hanno trovato un’intesa per aggiornare le norme. Il «numero minimo» di ricollocamenti annuali è stabilito in 30.000. A fronte dei 1.500 del 2022, è un proposito.Lo speciale contiene due articoli.Avanti e indietro. In una settimana due volte in Tunisia. Giorgia Meloni dopo aver trascorso la mattina di mercoledì nel Paese africano, tornerà domani al palazzo presidenziale di Kaïs Saïed. Stavolta in compagnia della presidente della commissione Ue, Ursula von der leyen, e del premier olandese Mark Rutte. La notizia anticipata ieri dalla Meloni è che porteranno la prima valigetta di aiuti. «È grazie al lavoro molto prezioso che l’Italia ha fatto, insieme a quella missione, che si dovrebbe concretizzare il primo pacchetto di aiuti della commissione che è anche propedeutico a favorire l’accordo con il Fmi. A Tunisi e Fondo monetario», ha spiegato ieri, «chiedo un approccio il più possibile pragmatico e non ideologico e mi pare che su questo si stiano facendo passi in avanti». In pratica, incassa un vittoria diplomatica molto importante sul fronte dell’Ue. Fino a marzo lo stesso commissario all’Economia, Paolo Gentiloni, si era dichiarato in linea con Germania e la classe dirigente di Bruxelles contrario a qualunque sostegno finanziario. Nonostante la crisi imminente e il rischio di una ulteriore ondata migratoria. A seguito delle pressioni italiane qualcosa si è smosso. Gentiloni è volato a Tunisi e poi numerosi incontri fino al coinvolgimento della commissione confermato a inizio settimana. Meloni, dando la notizia dello sblocco dei fondi, fa anche capire che è consapevole della storia di Saïed e dei movimenti che l’hanno sostenuto fino ad oggi. Compreso il ruolo che la Fratellanza musulmano continua a rivestire nella società tunisina. Il riferimento al possibile semaforo verde del Fmi (per la propria tranche di aiuti) è, invece, chiaramente una richiesta diretta agli Stati Uniti per togliere il presidente tunisino dalla loro lista nera. Per il resto l’obiettivo della missione di domani è frenare i flussi migratori illegali che hanno portato in Italia oltre 50.000 persone da inizio anno, un flagello che colpisce entrambe le sponde del Mediterraneo e miete vittime in mare e nel deserto. Sul fascicolo dei flussi migratori, la sinergia tra il nostro governo e quello di Tunisi è parsa evidente, al punto che i discorsi di Meloni e Saïed sull’argomento coincidono quasi totalmente. L’Italia, peraltro, ha accolto la proposta tunisina per realizzare una «conferenza internazionale» sul tema delle migrazioni e, anzi, ha annunciato che ospiterà a Roma un evento che si sposa perfettamente con il cosiddetto Piano Mattei per l’Africa. Insomma, sembra essere passato il concetto che la Tunisia è l’ultimo baluardo. Se crollasse il Paese maghrebino l’ondata di flussi migratori sarebbe così imponente e travolgente che si potrà rischia di sguarnire ancor di più le altre aeree del Sahel, lasciando ai russi di Wagner campo libero per rafforzarsi ulteriormente. In questo momento i militari francesi sono al loro livello minimo nella presenza in Sahel. Praticamente cacciati dai russi dal Mali, dal Burkina Faso e dalla Repubblica Centrafricana dovranno concentrarsi (probabilmente con l’aiuto congiunto Ue e italiano) sui Paesi rivieraschi del Golfo di Guinea che a loro volta sono sotto schiaffo dei movimenti terroristici che premono da Nord. Dall’altro lato, i mercenari di Vladimir Putin da qualche mese si muovono con estrema disinvoltura a Port Sudan. Da lì, dalle acque del Mar Rosso, la longa manus del Cremlino può far arrivare rifornimenti e infilarsi in profondità nel Sahel. Non è un caso se la capitale del Sudan, Khartum, è stata travolta da un colpo di Stato meno di un mese fa. L’ennesimo golpe africano. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, tenterà la prossima settimana di convincere l’Fmi ad accettare una volta per tutte la proposta italiana per sbloccare il maxi-prestito da 1,9 miliardi dollari: una prima tranche andrebbe erogata subito, una seconda a riforme avviate e infine una terza quando verranno concluse le misure di contenimento della spesa pubblica e il risanamento dell’economia. Ma non sarà semplice trovare un compromesso tra il netto rifiuto di Saïed di accettare «direttive preimpostate», come ad esempio l’impopolare rimozione dei sussidi, e la rigidità dei canoni dell’Fmi. Se però la trattativa si sbloccasse allora comincerebbero a incastrarsi i vari elementi del puzzle. Sul fronte europeo procede la mediazione del ministro Matteo Piantedosi. Votato il piano di ricollocamenti, adesso bisogna lavorare ai dettagli che sono sempre forieri di sorprese. Anche qui però la Tunisia resta una chiave di volta. Lo schema Ue prevede la possibilità di rimpatriare i migranti irregolari non nei loro Paesi di origine, ma anche nei Paesi di transito, a patto che siano considerati «sicuri», grazie al concetto di «connessione». È chiaro che la Tunisia si candida a essere il Paese terzo più vicino all’Italia e quindi indirizzo di invio dei ricollocamenti. Non ci sono tanti altri Paesi. La Libia potenzialmente sì, ma è in guerra. Egitto ed Algeria hanno politiche contraria. Marocco non se ne parla. 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Il governo italiano, sui punti indesiderati ha tentato di dominare le mediazioni, portando dalla sua anche alcuni Paesi del Nord Europa. E, così, dopo sette anni di negoziati, i governi dell’Unione europea hanno trovato un’intesa per aggiornare le norme sul diritto d’asilo, introducendo elementi di solidarietà (per aiutare i Paesi di primo approdo), ma anche più vincoli nella gestione degli ingressi. Che graveranno proprio sull’Italia. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, però, ha ottenuto meno limiti nelle procedure per le espulsioni, anche verso i Paesi in cui sono transitati. E che i 20.000 euro a migrante dei Paesi che decideranno di non accogliere non andranno allo Stato che se ne farà carico, ma ai Paesi terzi sicuri nei quali verranno respinti gli irregolari. La proposta che voleva istituire dei campi profughi a pagamento, e che aveva fatto storcere il naso al governo di Giorgia Meloni (che giudica l’accordo «un passo in avanti»), quindi è stata ritoccata. Polonia e Ungheria hanno votato comunque contro (e se per Viktor Orbán «l’Ue abusa del suo potere», Mateusz Morawiecki ha bocciato ricollocamenti e contributi finanziari). Anche perché il Patto, pur permettendo dei passi in avanti, presenta delle ombre e anche delle zone grigie. Tra queste, per esempio, c’è un passaggio sul «numero minimo annuale» di ricollocamenti, stabilito in 30.000. Un dato che, confrontato con quello dei trasferiti nell’ultimo anno (1.500), sembra derubricare la norma a un buon proposito. Proprio come il meccanismo di solidarietà, che permetterebbe di scegliere tra redistribuzione e finanziamento di 20.000 euro a migrante ai Paesi terzi sicuri. Sempre che, di fatto, sia realmente applicabile. Poi ci sono le ombre. In primis le procedure di frontiera obbligatorie, «con lo scopo di valutare rapidamente» le domande già ai confini. Una norma che grava proprio sull’Italia. Come anche quella sulla «capacità adeguata, in termini di accoglienza e risorse umane», che fissa la quota a 30.000 migranti, per «svolgere le procedure di frontiera». A livello Ue «questa capacità adeguata è di 30.000 persone». Il calcolo che ha fatto il Consiglio tiene conto del numero di attraversamenti irregolari e dei rimpatri su un periodo di tre anni. Una formula che appare poco applicabile. L’Italia chiedeva un tetto a 20.000 ma, nonostante gli sforzi, Piantedosi ha dovuto rinunciare. Terza fregatura: «Lo Stato membro di primo ingresso sarà competente per la domanda di asilo per una durata di due anni». La norma sembrerebbe favorire l’Italia, visto che Dublino estendeva la responsabilità a tutta la durata della pratica. Subito dopo, però, nel Patto è stato inserito un ulteriore dettaglio, che dispone la possibilità di presentare la domanda solo «negli Stati membri di primo ingresso o di soggiorno legale», scoraggiando così i movimenti secondari e limitando le possibilità di cessazione o trasferimento della responsabilità tra gli Stati membri. La possibilità per il richiedente di scegliere lo Stato membro in cui presentare la domanda risulta quindi particolarmente compressa. Gli altri punti approvati sembrano, almeno sulla carta, affermare dei principi accettabili. Primo su tutti stabilire una «procedura comune in tutta l’Ue» da seguire «quando i migranti chiedono protezione internazionale». Evitando così le varie scorciatoie che hanno permesso a chi non aveva i requisiti per ottenere la protezione internazionale di rientrare tramite altri escamotage. I tempi saranno più snelli: 12 settimane per stabilire chi può ottenere asilo e chi no. Inoltre, chi proviene da un Paese «che ha un tasso di riconoscimento della protezione internazionale inferiore al 20 per cento non sarà autorizzato a entrare nel territorio dello Stato membro». E «i Paesi di primo ingresso non avranno più la responsabilità permanente per i migranti ai quali viene rifiutato l’asilo (ora fissata a 15 mesi)». Le persone salvate in operazioni Sar, poi, «saranno sotto tutela dello Stato solo per 12 mesi», al contrario dei 24 applicati agli altri richiedenti asilo. È previsto anche un «Piano di finanziamenti straordinario Ue» per il rafforzamento di accoglienza e dei sistemi di asilo «dei Paesi di primo ingresso». Infine, sempre sulla carta, davanti all’impossibilità di rimpatriare gli irregolari nei loro Paesi d’origine, si potranno inviare i migranti in Paesi terzi, purché siano sicuri e sia stabilita una «connessione» con la persona. Sui concetti di connessione e di Paese terzo sicuro il dibattito è stato duro. La mediazione ha portato a questa conclusione: i Paesi terzi dovranno essere ritenuti sicuri dagli Stati membri e dovrà essere provata la permanenza (ma dovrebbe essere sufficiente anche il transito) del migrante in quel territorio. Resta da capire cosa sarà realizzabile.
In Toscana un laboratorio a cielo aperto, dove con Enel il calore nascosto della Terra diventa elettricità, teleriscaldamento e turismo.
L’energia geotermica è una fonte rinnovabile tanto antica quanto moderna, perché nasce dal calore naturale generato all’interno della Terra, sotto forma di vapore ad alta temperatura, convogliato attraverso una rete di vapordotti per alimentare le turbine a vapore che girando, azionano gli alternatori degli impianti di generazione. Si tratta di condotte chiuse che trasportano il vapore naturale dal sottosuolo fino alle turbine, permettendo di trasformare il calore terrestre in elettricità senza dispersioni. Questo calore, prodotto dai movimenti geologici naturali e dal gradiente geotermico determinato dalla profondità, può essere utilizzato per produrre elettricità, riscaldare edifici e alimentare processi industriali. La geotermia diventa così una risorsa strategica nella transizione energetica.
L’energia geotermica non dipende da stagionalità o condizioni climatiche: è continua e programmabile, dando un contributo alla stabilità del sistema elettrico.
Oggi la geotermia è riconosciuta globalmente come una delle tecnologie più affidabili e sostenibili: in Cile, Islanda, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Filippine e molti altri Paesi questa filiera sta sviluppandosi vigorosamente. Ma è in Italia – e più precisamente in Toscana – che questa storia ha mosso i suoi primi passi.
La presenza dei soffioni boraciferi nel territorio di Larderello (Pisa), da sempre caratterizzato da manifestazioni naturali come vapori, geyser e acque termali, ha fatto intuire il valore energetico di quella forza invisibile. Già nel Medioevo erano attive piccole attività produttive basate sul contenuto minerale dei fluidi geotermici, ma è nel 1818 – grazie all’ingegnere francese François Jacques de Larderel – che avviene il primo utilizzo industriale. Il passaggio decisivo c’è però nel 1904, quando Piero Ginori Conti, sfruttando il vapore naturale, accende a Larderello le prime cinque lampadine: è la prima produzione elettrica geotermica al mondo, anticipando la nascita nel 1913 della prima centrale geotermoelettrica al mondo. Da allora questa tecnologia non ha mai smesso di evolversi, fino a diventare un laboratorio internazionale di ricerca e innovazione.
Attualmente, la Toscana rappresenta il cuore della geotermia nazionale: tra le province di Pisa, Grosseto e Siena Enel gestisce 34 centrali, per un totale di 37 gruppi di produzione che garantiscono una potenza installata di quasi 1.000 MW. Questi impianti generano ogni anno tra i 5,5 e i quasi 6 miliardi di kWh, pari a oltre un terzo del fabbisogno elettrico regionale e al 70% della produzione rinnovabile della Toscana.
Si tratta anche di uno dei più avanzati siti produttivi dal punto di vista tecnologico, che punta non allo sfruttamento ma alla coltivazione di questi giacimenti di energia. Nelle moderne centrali geotermiche, il vapore che ha già azionato le turbine – chiamato tecnicamente «vapore esausto» – non viene disperso nell'atmosfera, ma viene convogliato nelle torri refrigeranti, che con un processo di condensazione ritrasformano il vapore in acqua e lo reimmettono nei serbatoi naturali sotterranei attraverso pozzi di reiniezione.
Accanto alla dimensione produttiva, la geotermia toscana si distingue per la sua capacità di integrarsi nel tessuto sociale ed economico locale. Il calore geotermico residuo – dopo aver alimentato le turbine dell’impianto di generazione - è ceduto gratuitamente o a costi agevolati per alimentare reti di teleriscaldamento che raggiungono oltre 13.000 utenze, scuole, palazzetti, piscine e edifici pubblici, riducendo le emissioni e i consumi di combustibili fossili. Lo stesso calore sostiene attività agricole e artigianali, come serre per la coltivazione di fiori e ortaggi e aziende alimentari, che utilizzano questo calore «di scarto» invece di bruciare gas o gasolio. Persino la produzione di birra artigianale può beneficiare di questa fonte termica sostenibile!
Ma c’è dell’altro, perché questa integrazione tra energia e territorio si riflette anche sul turismo. Le zone geotermiche della cosiddetta «Valle del Diavolo», tra Larderello, Sasso Pisano e Monterotondo Marittimo, attirano ogni anno migliaia di visitatori. Musei, percorsi guidati e la possibilità di osservare da vicino fenomeni naturali e impianti di produzione, rendono il distretto un caso unico al mondo, dove la tecnologia convive con una geografia dominata da vapori e sorgenti naturali che affascinano da secoli viaggiatori e studiosi, creandoun’offerta turistica che vive grazie alla sinergia tra Enel, soggetti istituzionali, imprese, tessuto associativo e consorzi turistici.
Così, oltre un secolo dopo le prime lampadine illuminate dal vapore di Larderello, la geotermia continua ad essere una storia italiana che unisce ingegneria e paesaggio, sostenibilità e comunità. Una storia che prosegue guardando al futuro della transizione energetica, con una risorsa che scorre sotto ai nostri piedi e che il Paese ha imparato per primo a trasformare in energia e opportunità.
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Ecco #DimmiLaVerità del 18 dicembre 2025. Con il nostro Stefano Piazza facciamo il punto sul terrorismo islamico dopo la strage in Australia.