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2019-02-26
Abbiamo 5.569.000 lavoratori sottopagati
Ansa
Bisogna dare atto all'attuale governo di avere imparato a tirare fuori i problemi. A farli emergere. Purtroppo, al momento è complicato dire che sia altrettanto bravo a trovare le soluzioni. Il che non significa che ciò non avverrà in futuro. Nel frattempo, i gialloblù, portando in Parlamento il decretone sul reddito di cittadinanza, hanno imposto al dibattito politico il tema delle paghe dei lavoratori. Il trend dei precari era da anni in costante aumento, e il governo precedente si limitava a celebrare l'aumento costante del dato dell'occupazione.
«Ottimo», diceva Paolo Gentiloni. Peccato che il record di 58% di persone con un'occupazione non corrisponda alla piena occupazione. Per rientrare nella lista, infatti, basta lavorare anche una sola ora a settimana, il che certamente non garantisce uno stipendio degno di tale nome. Il problema dipende da una serie di fattori, tra cui la produttività e l'immenso cuneo fiscale che grava sulle spalle di aziende e lavoratori: qualcosa come il 55%.
La necessità di sostenere le famiglie con paghe sufficienti a stimolare i consumi è un fatto econometrico, ma anche degno di riflessione da parte di un governo. Il reddito di cittadinanza vorrebbe essere una risposta: non sappiamo se funzionerà. Ma rispondere al tema come hanno fatto opposizione e Confindustria appare un po' riduttivo, e pure offensivo: «Gli italiani», hanno detto, «non andranno a lavorare se il reddito varrà più degli stipendi». Forse sarebbe meglio domandarsi perché le buste paga sono così povere, e cercare di alzarle. Non lo si può fare per decreto, ma non ragionarci sarebbe delittuoso dal punto di vista sociale.
Ecco perché il Rapporto sul mercato del lavoro 2018 diffuso ieri da Inps, Istat, Inail e Anpal preoccupa. Sia per il risultato, sia per l'effetto mediatico che rischia di produrre. Nel documento si parla in modo diffuso del rapporto tra impiego e grado di istruzione. Ne risulta che un occupato su quattro è troppo istruito per il lavoro che fa. Nel 2017 circa un milione di occupati ha lavorato meno ore di quelle per cui sarebbe stato disponibile, mentre la schiera dei sovraistruiti ammonta a 5.569.000 persone: quasi un occupato su 4. Viene sottolineato che negli anni il fenomeno risulta «in continua crescita, sia in virtù di una domanda di lavoro non adeguata al generale innalzamento del livello di istruzione, sia per la mancata corrispondenza tra le competenze specialistiche richieste e quelle possedute». Ne consegue che la mancanza di opportunità lavorative adeguate comporti la decisione di migrare all'estero. Un fenomeno in crescita negli ultimi anni: da 40.000 del 2008 a quasi 115.000 persone nel 2017.
Quindi in meno di dieci anni le fughe sono quasi triplicate. Lo studio è di per sé neutro, ma il rischio è che passi un messaggio straniante: serve manodopera meno istruita per rispondere alla domanda di basso livello. Un po' quello che il Pd sembra ventilare quando sostiene che il sussidio debba essere più basso non perché la spesa pubblica sarebbe insostenibile ma perché altrimenti le buste paga sarebbero fuori mercato.
Non stupisce sapere che i lavoratori italiani siano istruiti, ma fa impressione sapere che siano addirittura un quarto degli occupati. Quasi 5,7 milioni di persone. Non è dunque sbagliato ragionare su un reddito di inclusione più ampio. Un sistema politico che prenda atto della formazione di chi non è preparato alle nuove sfide e un sostegno a quelle filiere che sono assetate di lavoratori professionisti e specializzati. Il governo dovrebbe - assieme all'avvio dei cantieri - fare la «rivoluzione del cuneo». Basta tasse così pesanti sul reddito da lavoro. Ammazzano le aziende e azzerano la capacità di spesa. Se si vuole uscire dalla recessione è un passo da fare. Più deficit per portare avanti lo schema? Ecco un tema per cui vale la pena litigare in sede europea. Allo stesso tempo, vale la pena litigare su un altro nodo tanto caro ai sindacati italiani: quello dei contratti nazionali. «Nella stima preliminare del quarto trimestre 2018», si legge nel rapporto diffuso ieri, «torna a crescere lievemente l'occupazione permanente (+0,1%), dopo la caduta del terzo» ma è «il tempo determinato (+0,1%)» a toccare «il valore massimo di oltre 3,1 milioni di occupati». In dieci anni, tra il 2008 e il 2018, i dipendenti con contratto a tempo sono aumentati di 735.000 unità. Dovendo sradicate tali parametri non ha più senso discutere di contratti parificati tra Milano e Palermo. Un modo per adeguare gli importi al costo della vita è quello di dare libero sfogo ai contratti aziendali uniti a quelli regionali. Una sorta di scala mobile della quale l'Italia ora non può fare a meno. I lavoratori non cercano stabilità ma soldi. I vecchi sindacati non accetteranno mai di abdicare alle grandi trattative anacronistiche: firmerebbero la loro definitiva scomparsa. È, però, un freno da rimuovere. Al più presto.
Ogni italiano ha perso 73.000 euro da quando è nata la moneta unica
Premessa doverosa: i rischi non vanno negati ma affrontati, delineando scenari e contromisure adeguate. Tuttavia, come sottolineava ieri l'editoriale del direttore Maurizio Belpietro, colpisce il timing con cui la nostra grande stampa ingigantisce le nubi all'orizzonte, facendo sponda alle voci che dall'estero sembrano interessate a descrivere un'Italia alle corde.
Così, da giorni si alimenta un'emergenza bancaria ben oltre il reale stato delle cose: e, puntualissimo, ieri è arrivato un minaccioso report dello European economy advisory group, un gruppo di economisti guidato da un italiano (Giuseppe Bertola, Università di Torino) ma costituito dall'Istituto tedesco per la ricerca economica (Ifo). E, in supersintesi, che dice questo report? Sceglie il peggiore scenario possibile, la peggiore concatenazione di eventualità, con l'Italia colpevole di un effetto domino. Seguiamo il ragionamento: si parte dalla possibilità di un riaccendersi dello scontro sul bilancio tra governo italiano e Commissione Ue, si immagina un effetto sulle aste dei nostri titoli (con rendimenti drammaticamente al rialzo), e a quel punto si ipotizza un problema di solvibilità del nostro Paese. Non basta? Ancora no: perché, siccome titoli del nostro debito sono in «pancia» alle banche sia italiane sia estere, questo determinerebbe una crisi continentale e un effetto di contagio. Il governo italiano come il «grande untore», insomma.
Ora, lo ribadiamo nuovamente: non c'è dubbio sul fatto che si debbano tenere d'occhio le aste dei nostri titoli e l'andamento dei rendimenti; così come - non da ora - va considerato il tema delicato del portafoglio di titoli pubblici italiani detenuti dalle banche. Ma – una volta tanto – sarebbe anche il caso di considerare la massa di titoli «tossici» detenuti dalle banche tedesche e francesi, foriere di un non meno grave potenziale rischio sistemico. Contemporaneamente, sarebbe il caso di chiedere a Francoforte cosa attenda la Bce a mettere in campo nuove potenti forme di garanzia sui debiti sovrani in euro: il solo annuncio sarebbe un super estintore in grado di spegnere ogni principio d'incendio, e di ridurre il premio di rischio richiesto dagli investitori.
E ancora, rimanendo alla Bce, resta da capire quando Francoforte assumerà la decisione sul nuovo «giro» di Tlro che, secondo quanto si legge testualmente nei verbali dell'ultimo consiglio, «non dovrebbe essere presa con eccessiva fretta». Eppure l'urgenza c'è. Si tratta delle cosiddette operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine (Targeted longer term refinancing operations), quindi di finanziamenti a tassi agevolati alle banche affinché facciano credito a famiglie e imprese.
Almeno nelle intenzioni, si tratta di misure volte a sostenere la liquidità delle banche e quindi – in seconda battuta – a ridurre fenomeni di credit-crunch. Sappiamo bene che le banche non hanno funzionato granché come cinghia di trasmissione verso l'economia reale, e quindi non c'è da attendersi effetti miracolosi. Ma senza questa misura le banche italiane sarebbero costrette a imponenti accantonamenti, e quindi a una pericolosa stretta creditizia.
Intanto, mentre i maggiori media italiani sono dediti all'autoflagellazione, ci sarebbe materia per riflessioni ben diverse. Secondo il rapporto «20 anni di Euro: vincitori e vinti» del Centre for european policy di Friburgo, la Germania emerge come principale percettore di benefici, e l'Italia come la maggiore vittima di danni. In media, ogni tedesco ha infatti guadagnato 23.000 euro da quando c'è l'euro, mentre ogni italiano, nello stesso arco di tempo, ne ha persi più di 73.000.
Il report centra un punto nodale: l'impossibilità per l'Italia di giocare la carta della svalutazione competitiva. Di qui una simulazione su quale sarebbe stato il Pil per ciascun paese in caso di mancata adozione dell'euro, e la sua suddivisione pro capite, che genera i guadagni e le perdite che abbiamo menzionato.
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Secondo il Rapporto sul mercato del lavoro 2018, un occupato su quattro è troppo istruito per la mansione professionale svolta. Ma allora c'è da intervenire sulle retribuzioni, non evocare manodopera poco qualificata per soddisfare la domanda di basso livello.Il Cep di Friburgo certifica che solo Berlino ha guadagnato con l'introduzione dell'euro.Lo speciale contiene due articoliBisogna dare atto all'attuale governo di avere imparato a tirare fuori i problemi. A farli emergere. Purtroppo, al momento è complicato dire che sia altrettanto bravo a trovare le soluzioni. Il che non significa che ciò non avverrà in futuro. Nel frattempo, i gialloblù, portando in Parlamento il decretone sul reddito di cittadinanza, hanno imposto al dibattito politico il tema delle paghe dei lavoratori. Il trend dei precari era da anni in costante aumento, e il governo precedente si limitava a celebrare l'aumento costante del dato dell'occupazione. «Ottimo», diceva Paolo Gentiloni. Peccato che il record di 58% di persone con un'occupazione non corrisponda alla piena occupazione. Per rientrare nella lista, infatti, basta lavorare anche una sola ora a settimana, il che certamente non garantisce uno stipendio degno di tale nome. Il problema dipende da una serie di fattori, tra cui la produttività e l'immenso cuneo fiscale che grava sulle spalle di aziende e lavoratori: qualcosa come il 55%. La necessità di sostenere le famiglie con paghe sufficienti a stimolare i consumi è un fatto econometrico, ma anche degno di riflessione da parte di un governo. Il reddito di cittadinanza vorrebbe essere una risposta: non sappiamo se funzionerà. Ma rispondere al tema come hanno fatto opposizione e Confindustria appare un po' riduttivo, e pure offensivo: «Gli italiani», hanno detto, «non andranno a lavorare se il reddito varrà più degli stipendi». Forse sarebbe meglio domandarsi perché le buste paga sono così povere, e cercare di alzarle. Non lo si può fare per decreto, ma non ragionarci sarebbe delittuoso dal punto di vista sociale. Ecco perché il Rapporto sul mercato del lavoro 2018 diffuso ieri da Inps, Istat, Inail e Anpal preoccupa. Sia per il risultato, sia per l'effetto mediatico che rischia di produrre. Nel documento si parla in modo diffuso del rapporto tra impiego e grado di istruzione. Ne risulta che un occupato su quattro è troppo istruito per il lavoro che fa. Nel 2017 circa un milione di occupati ha lavorato meno ore di quelle per cui sarebbe stato disponibile, mentre la schiera dei sovraistruiti ammonta a 5.569.000 persone: quasi un occupato su 4. Viene sottolineato che negli anni il fenomeno risulta «in continua crescita, sia in virtù di una domanda di lavoro non adeguata al generale innalzamento del livello di istruzione, sia per la mancata corrispondenza tra le competenze specialistiche richieste e quelle possedute». Ne consegue che la mancanza di opportunità lavorative adeguate comporti la decisione di migrare all'estero. Un fenomeno in crescita negli ultimi anni: da 40.000 del 2008 a quasi 115.000 persone nel 2017. Quindi in meno di dieci anni le fughe sono quasi triplicate. Lo studio è di per sé neutro, ma il rischio è che passi un messaggio straniante: serve manodopera meno istruita per rispondere alla domanda di basso livello. Un po' quello che il Pd sembra ventilare quando sostiene che il sussidio debba essere più basso non perché la spesa pubblica sarebbe insostenibile ma perché altrimenti le buste paga sarebbero fuori mercato. Non stupisce sapere che i lavoratori italiani siano istruiti, ma fa impressione sapere che siano addirittura un quarto degli occupati. Quasi 5,7 milioni di persone. Non è dunque sbagliato ragionare su un reddito di inclusione più ampio. Un sistema politico che prenda atto della formazione di chi non è preparato alle nuove sfide e un sostegno a quelle filiere che sono assetate di lavoratori professionisti e specializzati. Il governo dovrebbe - assieme all'avvio dei cantieri - fare la «rivoluzione del cuneo». Basta tasse così pesanti sul reddito da lavoro. Ammazzano le aziende e azzerano la capacità di spesa. Se si vuole uscire dalla recessione è un passo da fare. Più deficit per portare avanti lo schema? Ecco un tema per cui vale la pena litigare in sede europea. Allo stesso tempo, vale la pena litigare su un altro nodo tanto caro ai sindacati italiani: quello dei contratti nazionali. «Nella stima preliminare del quarto trimestre 2018», si legge nel rapporto diffuso ieri, «torna a crescere lievemente l'occupazione permanente (+0,1%), dopo la caduta del terzo» ma è «il tempo determinato (+0,1%)» a toccare «il valore massimo di oltre 3,1 milioni di occupati». In dieci anni, tra il 2008 e il 2018, i dipendenti con contratto a tempo sono aumentati di 735.000 unità. Dovendo sradicate tali parametri non ha più senso discutere di contratti parificati tra Milano e Palermo. Un modo per adeguare gli importi al costo della vita è quello di dare libero sfogo ai contratti aziendali uniti a quelli regionali. Una sorta di scala mobile della quale l'Italia ora non può fare a meno. I lavoratori non cercano stabilità ma soldi. I vecchi sindacati non accetteranno mai di abdicare alle grandi trattative anacronistiche: firmerebbero la loro definitiva scomparsa. È, però, un freno da rimuovere. Al più presto.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/abbiamo-5-569-000-lavoratori-sottopagati-2629994185.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ogni-italiano-ha-perso-73-000-euro-da-quando-e-nata-la-moneta-unica" data-post-id="2629994185" data-published-at="1765136464" data-use-pagination="False"> Ogni italiano ha perso 73.000 euro da quando è nata la moneta unica Premessa doverosa: i rischi non vanno negati ma affrontati, delineando scenari e contromisure adeguate. Tuttavia, come sottolineava ieri l'editoriale del direttore Maurizio Belpietro, colpisce il timing con cui la nostra grande stampa ingigantisce le nubi all'orizzonte, facendo sponda alle voci che dall'estero sembrano interessate a descrivere un'Italia alle corde. Così, da giorni si alimenta un'emergenza bancaria ben oltre il reale stato delle cose: e, puntualissimo, ieri è arrivato un minaccioso report dello European economy advisory group, un gruppo di economisti guidato da un italiano (Giuseppe Bertola, Università di Torino) ma costituito dall'Istituto tedesco per la ricerca economica (Ifo). E, in supersintesi, che dice questo report? Sceglie il peggiore scenario possibile, la peggiore concatenazione di eventualità, con l'Italia colpevole di un effetto domino. Seguiamo il ragionamento: si parte dalla possibilità di un riaccendersi dello scontro sul bilancio tra governo italiano e Commissione Ue, si immagina un effetto sulle aste dei nostri titoli (con rendimenti drammaticamente al rialzo), e a quel punto si ipotizza un problema di solvibilità del nostro Paese. Non basta? Ancora no: perché, siccome titoli del nostro debito sono in «pancia» alle banche sia italiane sia estere, questo determinerebbe una crisi continentale e un effetto di contagio. Il governo italiano come il «grande untore», insomma. Ora, lo ribadiamo nuovamente: non c'è dubbio sul fatto che si debbano tenere d'occhio le aste dei nostri titoli e l'andamento dei rendimenti; così come - non da ora - va considerato il tema delicato del portafoglio di titoli pubblici italiani detenuti dalle banche. Ma – una volta tanto – sarebbe anche il caso di considerare la massa di titoli «tossici» detenuti dalle banche tedesche e francesi, foriere di un non meno grave potenziale rischio sistemico. Contemporaneamente, sarebbe il caso di chiedere a Francoforte cosa attenda la Bce a mettere in campo nuove potenti forme di garanzia sui debiti sovrani in euro: il solo annuncio sarebbe un super estintore in grado di spegnere ogni principio d'incendio, e di ridurre il premio di rischio richiesto dagli investitori. E ancora, rimanendo alla Bce, resta da capire quando Francoforte assumerà la decisione sul nuovo «giro» di Tlro che, secondo quanto si legge testualmente nei verbali dell'ultimo consiglio, «non dovrebbe essere presa con eccessiva fretta». Eppure l'urgenza c'è. Si tratta delle cosiddette operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine (Targeted longer term refinancing operations), quindi di finanziamenti a tassi agevolati alle banche affinché facciano credito a famiglie e imprese. Almeno nelle intenzioni, si tratta di misure volte a sostenere la liquidità delle banche e quindi – in seconda battuta – a ridurre fenomeni di credit-crunch. Sappiamo bene che le banche non hanno funzionato granché come cinghia di trasmissione verso l'economia reale, e quindi non c'è da attendersi effetti miracolosi. Ma senza questa misura le banche italiane sarebbero costrette a imponenti accantonamenti, e quindi a una pericolosa stretta creditizia. Intanto, mentre i maggiori media italiani sono dediti all'autoflagellazione, ci sarebbe materia per riflessioni ben diverse. Secondo il rapporto «20 anni di Euro: vincitori e vinti» del Centre for european policy di Friburgo, la Germania emerge come principale percettore di benefici, e l'Italia come la maggiore vittima di danni. In media, ogni tedesco ha infatti guadagnato 23.000 euro da quando c'è l'euro, mentre ogni italiano, nello stesso arco di tempo, ne ha persi più di 73.000. Il report centra un punto nodale: l'impossibilità per l'Italia di giocare la carta della svalutazione competitiva. Di qui una simulazione su quale sarebbe stato il Pil per ciascun paese in caso di mancata adozione dell'euro, e la sua suddivisione pro capite, che genera i guadagni e le perdite che abbiamo menzionato.
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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Kennedy Jr (Ansa)
D’ora in avanti, le donne che risultano negative al test per l’epatite B potranno decidere, consultando il proprio medico, se vaccinare o no alla nascita il proprio bambino. I membri che hanno votato a favore delle nuove raccomandazioni hanno sostenuto che il rischio di contrarre il virus è basso, e che i vaccini dovrebbero essere personalizzati.
Il gruppo di lavoro dell’Acip, rinnovato dallo scorso giugno dal segretario alla Salute Robert F. Kennedy Jr. ha suggerito di attendere almeno i 2 mesi di età per la prima dose. La vaccinazione continuerà a essere somministrata ai neonati di madri che risultano positive, o il cui stato di salute è sconosciuto. Il direttore facente funzioni dei Cdc, Jim O’Neill, ora dovrà decidere se adottare o meno queste raccomandazioni.
La commissione ha inoltre votato a favore della consultazione dei genitori con gli operatori sanitari, per sottoporre i figli a test sulla ricerca degli anticorpi contro l’epatite B prima di decidere se sia necessario somministrare altre dosi del vaccino. Attualmente, dopo la prima i bambini ricevono la seconda a 1-2 mesi di età e la terza tra i 6 e i 18 mesi.
Kennedy ha già limitato l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e raccomandato che i neonati vengano vaccinati separatamente contro la varicella. Susan Kressly, presidente dell’American academy of pediatrics, ha affermato che il cambiamento apportato dall’Acip renderà i bambini americani meno sicuri. «Esorto i genitori a parlare con il pediatra e a vaccinarsi contro l’epatite B alla nascita, indipendentemente dallo stato di salute della madre», è stato il suo appello.
Il presidente Donald Trump, invece, ha commentato soddisfatto l’esito della votazione. Con un post su Truth, venerdì sera aveva definito «un’ottima decisione porre fine alla raccomandazione sul vaccino contro l’epatite B per i neonati, la stragrande maggioranza dei quali non corre alcun rischio di contrarre una malattia che si trasmette principalmente per via sessuale o tramite aghi infetti. Il calendario vaccinale infantile americano richiedeva da tempo 72 “iniezioni” per bambini perfettamente sani, molto più di qualsiasi altro Paese al mondo e molto più del necessario. In effetti, è ridicolo! Molti genitori e scienziati hanno messo in dubbio, così come me, l’efficacia di questo “programma”».
Trump ha poi annunciato di avere appena firmato «un memorandum presidenziale che ordina al dipartimento della Salute e dei Servizi Umani di “accelerare” una valutazione completa dei calendari vaccinali di altri Paesi del mondo e di allineare meglio quello statunitense, in modo che sia finalmente radicato nel Gold Standard della scienza e del buon senso», ha concluso il presidente.
Prima del voto, questa settimana dodici ex dirigenti della Fda avevano contestato sul The New England journal of medicine la proposta di revisione delle approvazioni dei vaccini da parte dell’agenzia, sostenendo che i cambiamenti minacciano gli standard basati sulle prove, indeboliscono le pratiche di immunobridging (strategia scientifica e normativa che confronta i marcatori della risposta immunitaria indotti da un vaccino in diverse situazioni per stimare l’efficacia del vaccino) e rischiano di erodere la fiducia del pubblico.
A proposito della nota interna di Vinay Prasad, direttore della divisione vaccini della Food and drug administration (Fda), che dieci giorni ha sostenuto che «non meno di 10» dei 96 decessi infantili segnalati tra il 2021 e il 2024 al Vaers, il sistema federale di segnalazione degli eventi avversi da vaccino, erano «correlati» alle somministrazioni di dosi contro il Covid, i dodici si affannano a criticarla. «Prove sostanziali dimostrano che la vaccinazione può ridurre il rischio di malattie gravi e di ospedalizzazione in molti bambini e adolescenti», dichiarano. Dati che non risultano confermati da nessuno studio o revisione paritaria.
Sul continuo attacco alle scelte operate nel campo delle vaccinazioni dalla nuova amministrazione americana interviene il professor Francesco Cetta, ordinario di Chirurgia e docente di Intelligenza artificiale umanizzata presso lo Iassp (Istituto di alti studi strategici e politici). «Trump non è contro la scienza, come urla ad alta voce la sinistra nostrana», commenta. «Al contrario, pragmaticamente, per i problemi che non conosce, ha insediato nuove commissioni indipendenti di esperti, in grado di acclarare in tempi brevi, per quanto possibile, la verità su due argomenti particolarmente sensibili come le vaccinazioni e gli effetti dei cambiamenti climatici. E su che cosa si può fare in concreto per controllarli. Con quali costi e benefici per la comunità».
Il professore aggiunge: «Bisogna evitare le terapie a tappeto, indistintamente uguali per tutti, ma adattare ad ogni malato il suo trattamento come un “abito su misura”. In particolare, per alcune categorie come i bambini e le donne in gravidanza, bisogna valutare con attenzione vantaggi e svantaggi della somministrazione di ogni farmaco, incluso i vaccini, che determinano una perturbazione delle difese immunitarie individuali».
Considerazioni che dovrebbero essere fatte anche dal nostro ministero della Salute e dalle varie associazioni mediche che non ammettono revisioni dei metodi vaccinali.
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