2023-02-08
A passo di danza verso la guerra atomica
António Guterres (Getty images)
Il segretario generale dell’Onu, António Guterres, lancia l’allarme: mai stati così vicini a un terzo conflitto mondiale. Ma nessuno qui sembra preoccuparsene. Anzi, se ne discute come se fosse un gioco. E parlare di pace sembra ormai diventato un tabù. Il mondo si avvia a occhi aperti verso una guerra mondiale. Non sono parole mie, ma del segretario generale dell’Onu davanti all’assemblea dell’organizzazione internazionale. António Guterres, forse ricordando ciò che accadde più di cento anni fa, quando le potenze europee assistettero come sonnambule allo scoppio di un conflitto globale, ha lanciato l’allarme su un’escalation militare che rischia di trascinare il mondo verso una guerra più ampia. Per l’alto rappresentante delle Nazioni Unite, il pericolo di un impiego di ordigni nucleari non è stato mai così elevato come oggi e tuttavia nessuno pare curarsene. In pratica, le lancette dell’orologio sono tornate indietro di cinquant’anni, al periodo della crisi dei missili a Cuba, quando il mondo si avvicinò pericolosamente a una guerra fra Stati Uniti e Unione Sovietica, dopo che i primi avevano cercato di rovesciare Fidel Castro e schierato ordigni nucleari in Italia e Turchia. Però, nonostante l’Urss non esista più, il conflitto non minaccia di scoppiare alle porte dell’America, ma a quelle dell’Europa. Per il resto, i timori sono uguali e colpisce che, mentre nel 1962 tutto l’Occidente rimase per mesi con il fiato sospeso, adesso nessuno sembra preoccuparsi delle conseguenze di uno scontro che ormai non coinvolge più solo l’Ucraina e la Russia, ma Mosca e tutte le capitali occidentali. Per tacere del fatto che neppure i rapporti tra Washington e Pechino paiono promettere bene.Come dicevo, a parlarne è solo il segretario dell’Onu. I vertici della Nato si riuniscono per decidere se concedere a Kiev altri armamenti oltre a quelli già consegnati. L’Unione europea invece valuta la possibilità di mettere nuove sanzioni, visto che quelle adottate finora non paiono aver funzionato. Boris Johnson, dall’esilio in cui è stato confinato dopo vari scandali, racconta quasi fosse un aneddoto divertente di quando Vladimir Putin gli disse che con un missile ipersonico avrebbe impiegato un minuto a far scomparire Londra. Joe Biden invece, si prepara a celebrare l’anniversario dell’invasione dell’Ucraina con una parata in Polonia. Per dirla con Guterres, il mondo procede a occhi aperti verso una guerra più ampia. Infatti, nessuno parla più di pace. Non so se ci avete fatto caso, ma per un anno si è discusso di come fermare le truppe di Mosca. In principio, tutte le aspettative erano riposte nel blocco delle ricchezze russe nei caveau esteri e nell’esclusione delle banche e delle aziende legate al Cremlino dal circuito Swift, quello con cui si regolano le transazioni finanziarie. Poi, visto che né i sequestri delle ville e degli yacht né lo stop agli scambi bancari avevano costretto Putin a mollare l’osso, a Bruxelles hanno impiegato mesi per decidere l’embargo del gas e del petrolio. Alla fine è stata varata una misura che certamente limita i commerci di idrocarburi russi, ma non li impedisce. Dunque, accantonata per ora l’idea di una morte prematura di Putin, per malattia o per un colpo di Stato, si torna a parlare di guerra. E purtroppo, siccome l’invasore non pare in ritirata come qualcuno sperava, ma anzi pare preparare una nuova offensiva, a un anno di distanza da quella del 24 febbraio, dopo decine di migliaia di morti e un costo economico che ha portato l’Europa in recessione, si pone il problema di che cosa fare. Cioè, come uscire da un conflitto che né l’Italia né gli altri Paesi del vecchio continente hanno voluto, ma che giorno dopo giorno li coinvolge sempre di più. Guterres dice che andiamo a occhi aperti verso la terza guerra mondiale. E purtroppo temo che abbia ragione. Al punto in cui siamo arrivati, mi pare di poter escludere che la Russia si arrenda e ritiri il proprio esercito. Dunque, restano solo due opzioni: o si raggiunge una tregua o la guerra rischia di arrivare fino alle estreme conseguenze. Cioè fino a trasformarsi in un conflitto nucleare. Sul Corriere di ieri se ne discuteva come se si stesse parlando dell’esito del Festival di Sanremo. Le opzioni sono due, spiegava il principale quotidiano italiano: o si accetta una pace sporca, cioè un’intesa che conceda a Putin quello che le sue truppe hanno conquistato, oppure bisogna sconfiggere Mosca in modo definitivo, anche a rischio di scatenare una guerra atomica. E secondo il giornale di via Solferino, nell’amministrazione americana la linea oltranzista si va rafforzando. Insomma, mentre Guterres ammette che si cammina a occhi aperti verso un conflitto più ampio, politici e giornalisti dibattono di opzioni nucleari come se fossero in un seminario riservato a professori di geopolitica. Per loro mi viene spontanea una domanda: ma siete scemi o totalmente incoscienti? Purtroppo temo che il quesito preveda entrambe le risposte.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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