2022-06-19
Alberto Latorre: «Porto a Milano i miei abiti made in Puglia»
https://www.sartorialatorre.it/
Il brand manager dell’azienda di famiglia, fondata nel 1965: «In due anni il fatturato risalirà ai livelli pre Covid. Per l’estate puntiamo sulla giacca di lino bianca. Quando fai un completo su misura non guardi l’orologio. Fatichiamo a trovare giovani».Claudio Latorre, 16 anni, rappresenta la terza generazione della famiglia dell’omonima sartoria fondata dal nonno Michele nel 1965 a Locorotondo (Bari). «Comincia anche lui ad approcciarsi a questo mondo», dice papà Alberto, brand manager, «Studia lingue ma quando può si lascia coinvolgere e quando sarà il momento vedrà se continuare la tradizione di famiglia. Certi rudimenti, se si apprendono a questa età, difficilmente si scordano. Questo manca ai giovani, arrivano a 23/24 anni senza aver mai toccato con mano il mondo del lavoro».Il suo approccio al lavoro come è stato?«Sono tra stoffe, aghi e fili fin da quando avevo 14 anni, non per imposizione ma per mia scelta. Sia io sia i miei fratelli Vito, Luciano e Alessio ci siamo immersi nell’azienda di nostro padre fin da ragazzi, che da piccola bottega artigianale si è allargata. Noi stiamo cercando di renderla sempre più grande e funzionale». Come nasce la sartoria?«Michele Latorre ha iniziato in proprio da artigiano nel centro storico di Locorotondo. In una bottega di 7 metri quadri c’erano tanti giovani a nutrirsi degli insegnamenti del maestro. Un’epoca non più replicabile ma che ha dato tanta energia e ha prodotto talenti. Dal nostro borgo sono usciti molti sarti che hanno fatto scuola in tutto il mondo». Un territorio concentrato sulla sartoria maschile«È così, negli anni Sessanta c’erano oltre 20 botteghe di artigiani, in particolare sarti da uomo e calzolai». Ora la vostra azienda dove si trova?«Sempre a Locorotondo, in una struttura aziendale dove impieghiamo 110 persone oltre a un indotto di piccoli satelliti che cuciono vari capi: più di 200 famiglie sono sulle nostre spalle. Una responsabilità che portiamo avanti con energia, così come abbiamo sempre creduto nel 100% made in Italy. Tutti i nostri capi sono prodotti all’interno delle nostre fabbriche in Puglia». Come vanno le cose?«Inevitabilmente c’è stato un calo come per tutti. Abbiamo perso circa il 40% del fatturato nel periodo più nero. Ma sono convinto che al massimo tra due stagioni torneremo ai numeri pre Covid incrementati e migliorati. Con la ripartenza delle cerimonie e degli eventi, c’è voglia di tornare a vestirsi bene, c’è fame di prodotto artigianale. Durante i lockdown si indossavano solo tute e jeans, ora c’è bisogno di reagire, di tornare a gratificarsi attraverso un bell’abito di sartoria. Come una giacca di lino bianca».Le novità?«Per la prossima primavera/estate 2023, presentiamo una capsule chiamata Vent de Sirocco, otto pezzi unici che prendono spunto dai temi coloniali: stile, colori, artigianalità». Materiali?«Tutti naturali. Da sempre ci piace valorizzare cotone, lino, lane e molto spesso utilizziamo stoffe tinte con materiali della terra, come tintura al caffè, non impattanti sull’ambiente».Sostenibilità è una parola magica.«Siamo un’azienda che da sempre autoproduce l’energia elettrica. Chi verrà dopo di noi dovrebbe trovare un posto bello così come l’abbiamo trovato noi. La chiamo etica: del lavoro per chi lavora con te e dell’ambiente. Abbiamo una piantagione con più di 300 alberi di ulivo e contribuiamo a un progetto di riforestazione delle piante perse con la xylella». Quanti negozi nel mondo?«Abbiamo un pacchetto di circa 500 clienti, negozi multimarca nel mondo».Cosa c’è nel futuro?«Il primo monomarca a Milano. Riuscire ad avere una vetrina nel Quadrilatero della moda sarebbe un traguardo molto importante. Oggi abbiamo lo showroom in via Manzoni ma mi piacerebbe un atelier per il su misura».Sono ancora molti gli uomini che si fanno confezionare appositamente un capo?«Sì, di solito per due motivi: o necessità di taglia o per gratificarsi del vezzo sartoriale. È innegabile che ci sia differenza tra un abito industriale e uno su misura di cui si possono scegliere la stoffa, il modello, lo stile, il collo. Noi proponiamo entrambi i prodotti ma il nostro abito in serie è comunque semi artigianale». Quante ore di lavoro servono per un abito su misura?«Si perde il concetto del tempo, si lavora e punto. Se per un capo fatto bene serve un’ora in più la devi mettere. Mentre per il prodotto industriale devi stare nei tempi».Ci sono giovani che si avvicinano a questo mestiere?«Iniziamo ad avere difficoltà. Questo è un territorio ricco di maestranze e di grandi problemi non ne abbiamo ma si è visto un cambio di mentalità. Tutte le figure che ci sono in azienda le abbiamo formate da soli. Quando ci sono ragazzi volonterosi, anche se non sanno fare niente ma vogliono imparare un lavoro noi li prendiamo. Li mettiamo alla prova e cerchiamo di capire se hanno un’attitudine, una buona manualità e allora li coltiviamo. L’Italia ha il valore aggiunto del saper usare le mani in maniera magnifica, dall’arte all’agricoltura all’artigianato. Dobbiamo essere tutti per forza avvocati?».
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
Continua a leggereRiduci
Mark Zuckerberg (Getty Images)